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La politica del performativo in Judith Butler

CAPITOLO I Performance e documentario

1.2 Felicità e infelicità degli atti linguistici performativi

1.2.2 La politica del performativo in Judith Butler

Judith Butler è la seconda fonte filosofica espressamente indicata da Stella Bruzzi in New Documentary. Gli studi successivi sul carattere performativo del documentario109 accolgono, in genere, questo duplice riferimento teorico — la prospettiva analitica di Austin, da una parte, e la lettura post-strutturalista di Butler, dall’altra —, mettendo in evidenza lo sforzo comune di superamento del paradigma constativo. Sia per Austin sia per Butler, infatti, il concetto di performance fa da perno all’elaborazione di un modello interpretativo alternativo a quello positivista. L’opera di Austin dimostra l’essenza performativa del linguaggio a partire dallo studio di enunciati ‘semplici’ e riconoscibili dalla maggioranza delle persone nell’agire comunicativo quotidiano, Butler, invece, usa la nozione di performance per indicare il meccanismo complesso di produzione del soggetto nelle scienze, nelle istituzioni e nelle società. Avere un nemico comune (in questo caso il positivismo), non significa, ovviamente, condividere le medesime strategie né gli stessi obiettivi filosofici. Ciò è tanto più vero nel caso di Austin e Butler, rappresentanti di due tradizioni accademiche e, soprattutto, di due modi di fare filosofia per tanti versi opposti. Questa opposizione si esplicita, come ho già accennato, nelle due differenti prospettive sul soggetto adottate dalla tradizione analitica e da quella post-strutturalista. Semplificando, possiamo distinguere tra due fenomenologie del soggetto: sul versante analitico, un soggetto razionale-attivo-responsabile e sul versante post-strutturalista, un soggetto, invece, pulsionale-passivo-modellabile. Questi due versanti, tenuti separati nel mondo accademico, sono inscindibili nel vissuto reale di ognuno di noi e appaiono drammaticamente aggrovigliati nell’evento criminale. Vorrei, dunque, iniziare con l’approfondimento delle problematiche connesse a questo accostamento, per indagare, in un secondo tempo, i possibili margini di interazione tra le due prospettive in relazione al nostro oggetto di studio.

Come abbiamo visto, Bruzzi non si confronta approfonditamente con l’aspetto procedurale e razionale che contraddistingue la lettura analitica del linguaggio di Austin; la prospettiva del filosofo inglese rischia così di essere ridotta al solo gesto critico e di emancipazione dal modello constativo basato sulla dicotomia verità/falsità. Questi limiti teorici, come abbiamo già visto, possono essere stati determinati dall’impostazione fortemente descrittiva e storicista

109 Mi riferisco agli studi già citati di John Ellis e Ivelise Perniola, ma anche, ad esempio, al testo di Laura Rascaroli dedicato al film saggio e al subjective cinema. Rascaroli adotta, infatti, la prospettiva performativa di Bruzzi nella sua analisi della rappresentazione nonfiction della soggettività, intesa dall’autrice come «product of text’s adoption of certain strategies». Cfr. L. Rascaroli, The Personal Camera. Subjective Cinema and the Essay Film, Wallflower Press, New York, 2009, p. 12.

di New Documentary e dall’influenza esercitata nella seconda metà degli anni Novanta dal pensiero postmoderno sullo studio della nonfiction cinematografica e televisiva. L’accostamento tra le analisi del lingua

ggio ordinario di Austin e l’indagine di Butler sulla performance — Gender Trouble (1990) e Bodies That Matter (1993) sono gli unici due lavori di Butler citati nella bibliografia di riferimento di New Documentary — merita, a mio avviso, un’analisi più ampia approfondita, in grado di mettere in evidenza le numerose e palesi discontinuità tra le due concezioni, ma anche i loro punti di contatto più rari e meno agevoli.

Nel corso dei primi anni Novanta, Butler si è concentra sulla questione della produzione discorsiva del genere sessuale, divenendo in breve una delle autrici di riferimento dei cosiddetti Gender Studies. Sinteticamente, per Butler il genere non coincide con la dimensione biologica del sesso, bensì con «il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e di femminile».110 Proprio in quanto «modalità di configurazione culturale del corpo», i generi sessuali «non sono mai fissati una volta per tutte, ma fanno parte di un processo in cui vengono continuamente riformulati»,111 ovvero performati. Butler formula questa ipotesi interpretativa in aperta contrapposizione alla prospettiva positivista che caratterizza la tradizione medico-biologica occidentale. Nella sua prima opera, Gender Trouble, la filosofa si avvale di una serie composita e assai articolata di riferimenti teorici, che vanno da Lacan ad Althusser per arrivare a Foucault, Derrida e Kristeva. Non è questa la sede per indagare la complessa rete di rimandi filosofici, psicoanalitici e sociologici che attraversano la prosa notoriamente oscura dell’opera di Butler sul genere. L’adesione a questo orizzonte post-strutturalista francese segna di per sé un cambio di paradigma radicale rispetto ad Austin e all’impostazione analitica di matrice anglo-americana in cui è immerso il suo lavoro.

Come ha sottolineato Marianna Ginocchietti, Butler elabora la propria nozione di performance a partire dal saggio di Derrida, Signature événement contexte.112 In questo testo, il filosofo francese propone un confronto tra l’atto locutorio ― isolato da Austin come l’atto di dire qualcosa in un dato momento e il grafema, come segno grafico trasportabile e iterabile, cioè slegato dalla originaria volontà significante del soggetto. Sbisà illustra così le ragioni e il significato dell’analisi di Derrida:

110 J. Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 38.

111 Ivi, p. 43.

112 J. Derrida, Signature événement contexte, in Id., Marges de la philosophie, Les Editions de Minuit, Paris 1972. Questo articolo di critica alla teoria degli atti linguistici è stato in seguito inserito e ampliato in J. Derrida, Limited Inc, Northwestern University Press, Evaston 1988.

Derrida, in una polemica assai ricca di spunti, attacca violentemente il presupposto che il soggetto possa garantire del proprio atto tramite la propria intenzione. Egli sottolinea il rapporto fra scrittura e assenza (del destinatario, dell'oggetto, dello stesso emittente) e considera la scrittura, quindi l'assenza, la rottura col contesto, come fondamentale per ogni linguaggio e ogni uso linguistico, anche quegli usi orali su cui la teoria degli atti linguistici si è concentrata. L'iterabilità delle marche che caratterizzano gli atti illocutori (i loro indicatori di forza) rende sempre possibile citarle al di fuori delle situazioni comunicative che la teoria degli atti linguistici considera "normali" (in cui un soggetto si rivolge a un destinatario comunicandogli un senso intenzionale): qualunque marca linguistica, anche la stessa firma, per poter funzionare deve potersi staccare dall'intenzione presente e singolare della sua produzione. Non che con ciò l'intenzionalità scompaia; ma bisogna rendersi conto che essa non può più comandare tutta la scena dell'enunciazione. All'origine di ogni atto linguistico vi sono, per Derrida, società (più o meno) anonime a responsabilità limitata, una molteplicità di istanze, se non di 'soggetti', [...] una quantità di fenomeni che l’io cosciente del locutore e dell'uditore (istanze ultime della teoria degli speech acts) non è capace di incorporare in quanto tali.113

Nell’articolo What Did Derrida Want of Austin? Cavell sottolinea come in Signature événement contexte Derrida faccia riferimento a una concezione di performance che non è tratta direttamente da Austin, ma piuttosto dalla vulgata searliana degli atti linguistici.114 L’opera di Searle e dei suoi epigoni, come abbiamo visto, imprime una connotazione psicologista all’idea di performance linguistica sviluppata da Austin. Sulla scorta del clima antimentalista diffuso nell’ambiente analitico angloamericano tra gli anni Trenta e Cinquanta, il filosofo britannico si è sempre posto in una posizione dichiaratamente polemica o sospetta rispetto al tema dell’intenzionalità del parlante. L’essenza intersoggettiva e procedurale del linguaggio ordinario, messa a fuoco da Austin, contraddice la semplificazione psicologista che contraddistingue un’ampia parte degli studi accademici dedicati alla pragmatica linguistica.

La differenzialità e la citazionalità della parola scritta evidenziano i limiti della dimensione ‘intenzionale’ del fare comunicativo e l’ingenuità di un’idea di linguaggio come mezzo neutro a disposizione di un soggetto libero. In Derrida prima, e in Butler poi, il rischio è però quello di spingere la critica all’intenzionalità fino agli estremi più scettici dell’irresponsabilità del parlante. Come afferma Ginochietti:

In Butler non si può mettere in relazione la performatività del genere con la responsabilità dell’agente performante. L’agente performa perchè si adatta a una pratica discorsiva o espressiva esistente, la sua performanza si tramanda in quanto iterabile e i suoi effetti si impongono all’agente stesso. Sembra esserci una ineluttabilità della performance di genere 113 M. Sbisà, How to read Austin, in “Pragmatics”, vol. 17, n. 3. pp. 461-473 (traduzione mia).

114 Limited Inc contiene altri tre testi di Derrida oltre al già citato Signature event context. Nell’ultimo saggio, Afterword:

Toward An Ethic of Discussion, Derrida risponde alle critiche di John Searle, che lo aveva pubblicamente accusato di aver dato una lettura troppo oscura degli atti linguistici. Derrida afferma qui di aver recepito il senso della proposta austiniana meglio di quanto non abbia fatto il collega americano banalizzandola attraverso la nozione di ‘intenzione del parlante’, ma in realtà entrambi sembrano piegare il significato della breve opera filosofica di Austin ai propri fini dimostrativi.

in Butler, mentre in Austin l’invocazione di una procedura può essere vista come iniziativa dell’agente: la procedura è di per sè iterabile, ma anche in casi in cui sarebbe appropriata è sempre possibile non invocarla e allora non segue effetto alcuno. Non c’è dunque in Austin normatività dell’effetto convenzionale nel senso di obbligo o costrizione a produrlo e comunque a produrne uno.115

L’opera di Butler mira a inquadrare il carattere intrinsecamente performativo, in contrasto con quello constativo, del binarismo maschile/femminile del genere, evidenziando come la loro sostanzialità sia, in realtà, solo apparente, ovvero frutto della produzione e della reiterazione culturale di modelli corporei istituzionalizzati. È sul riconoscimento di questa performatività originaria e intrinsecamente autoritaria del genere sessuale che si può e si deve fondare, secondo Butler, una strategia critica che trova nella citazionalità parodistica del drag ― e nel suo effetto di disvelamento della retorica del genere ― il proprio modello di ‘sovversione’ politica. Il drag è sovversivo non perché rivendica un’identità, ma perché ci mostra il carattere performativo e instabile dell’identità stessa, che nella prospettiva lacaniana e strutturalista adottata Butler può essere solo simbolica o immaginaria e mai reale. Per Butler, come per Derrida, l’unica realtà è, infatti, la differenza. È qui che subentra il secondo livello interpretativo della performance, non più intesa come dispositivo del potere finalizzato alla gestione normativa dei soggetto, ma come pratica emancipatoria di risignificazione della corporeità fuori dai limiti dell’identità, come esercizio della differenza; il drag, ad esempio, presenta un’esibizione spettacolarizzante della struttura imitativa del genere tramite l’appropriazione ‘performativa’ di un’identità differente da quella biologicamente e socialmente attribuita.116

Stella Bruzzi affronta il versante butleriano della performance, prendendo come oggetto di studio il film Paris is Burning (Jennie Livingston, 1990).117Ci siamo già brevemente soffermati sulla separazione nicholsiana tra i documentari performativi che hanno come oggetto una performance e i documentari performativi che realizzano una performance. Questa distinzione è inizialmente accolta da Bruzzi quando afferma:

There are two broad categories of documentary that could be termed performative: films that feature performative subjects and which visually are heavely stylised and those that are inherently performative and feature the intrusive presence of the filmmaker. Following 115 M. Ginocchietti, La nozione di performatività: un confronto tra Judith Butler e John L. Austin, in “Esercizi Filosofici” n. 7, 2012, pp. 76-77.

116 Nella prospettiva di Derrida e Butler i termini ‘realtà’ e ‘identità’ non vanno intesi in senso positivo poiché, dal loro punto di vista, esiste solo la differenza da cui non si generano degli enti, ma degli effetti di realtà e identità sempre ricomponibili.

117 Il film della Livingston è citato dalla stessa Butler in J. Butler, Bodies that Matter. On the discursive limit of sex, Routledge, New York 1993, pp. 14-19.

Judith Butler’s discussion of it in Bodies that Matter, the most notable single film to fall within the former category is Jennie Livingston’s Paris is Burning (1990) [...] a documentary about the issues of drag, and as such offers a useful discussion of performativity. [...] Paris is Burning plays a game with its audience inasmuch as its interviewees, however convincing, will always be open to ‘reading’ because we know, by virtue of the interview/performance juxtaposition, that they are performing/taking on another identity when at the drag balls. As a result, the more significant episodes of the film as far as an examination of performativity is concerned are those which occur beyond the parameters of the balls. There are fleeting moments in Paris is Burning when the film itself becomes performative, expressing the notion that documentary — like the drag performances it captures — is ephemeral, fluid and in an unstable state of redefinition and change. [...] For the most part, however, is a conventional film that espouses such stability but just happens to be about a group of individuals who do not.118

In New Documentary, in realtà, questa distinzione, appare solo strumentale all’introduzione della teoria di Butler. Fatta eccezione per Paris is Burning, infatti, i documentari presi in esame dalla studiosa inglese si riferiscono, nella loro quasi totalità, alla seconda modalità, cioè a quella relativa alla performance autoriale e all’inscrizione della soggettività del regista nella rappresentazione documentaria. I filmmaker analizzati in maniera estesa da Bruzzi, in particolare Molly Dineen, Nick Broomfield e Michael Moore, sono accomunati dall’esibizione della propria soggettività, anche corporea. Il passaggio tra una dimensione e l’altra (dal documentario su dei performer a quello di un performer) mi sembra, però, affrettato e non offre valide ragioni per lo spostamento della teoria butleriana dalle pratiche drag — al centro di Paris is Burning — alla rappresentazione documentaria tout court, anche lì dove il filmmaker si mostri esplicitamente come performer.119

La specificità del tema e la complessità teorica di Gender Troubles e Bodies that Matter non possono che acuire le problematiche del confronto tra il cinema nonfiction contemporaneo e il paradigma performativo in Butler. L’opera Excitable Speech: A Politics of the Performative (1997) offre spunti di riflessione più centrati rispetto alla questione del fare comunicativo e politico del documentario performativo inquadrato da Bruzzi. In questo testo, Butler mette in relazione e tenta di integrare la teoria degli atti linguistici di Austin con la nozione derridiana di citazionalità e con il fenomeno dell’interpellazione analizzato da Althusser. Vale la pena riportare quasi per intero il passaggio in cui Butler propone questa integrazione:

Per Austin il soggetto che parla viene prima delle parole in questione. Per Althusser l’atto linguistico che porta il soggetto all’esistenza linguistica viene prima del soggetto in questione. Di fatto, l’interpellazione che viene prima del soggetto e lo forma in Althusser 118 S. Bruzzi, New Documentary, op. cit., pp. 187-189.

sembra costituire la condizione che precede gli atti linguistici incentrati sul soggetto che popolano l’analisi di Austin. Tuttavia, Austin dice chiaramente di non pensare che i meccanismi del performativo dipendano sempre dall’intenzione di chi parla. Egli dimostra l’inadeguatezza di forme di psicologismo che richiederebbero che “atti interiori fittizi” accompagnassero la promessa, uno dei primi atti linguistici da lui presi in considerazione, per rendere effettivo quell’atto. [...] La forza dell’atto linguistico può essere separata dal suo significato e la forza illocutoria è assicurata dalle convenzioni. Come per Austin la convenzione che governa l’istituzione del promettere è onorata verbalmente anche nel caso di una promessa che nessuno intenda mantenere, così per Althusser si entra nel rituale dell’ideologia indipendentemente dal fatto che vi sia una credenza anteriore in quell’ideologia, tale da renderla vera. L’opinione di Austin secondo cui l’atto linguistico illocutorio è condizionato dalla sua dimensione convenzionale, vale a dire “rituale” o “cerimoniale”, trova una controparte nell’insistenza di Althusser sul fatto che l’ideologia abbia una forma “rituale” e che il rituale costituisca l’esistenza materiale di un apparato ideologico. Il rituale è materiale nella misura in cui è produttivo, vale a dire nella misura in cui produce la credenza che sembra stare “dietro” di esso. [...]. Per collegare la posizione di Austin e quella di Althusser bisognerebbe fornire una descrizione del modo in cui il soggetto costituito attraverso l’appello dell’Altro divenga in seguito un soggetto in grado di fare appello agli altri. In tal caso, il soggetto non è un agente sovrano con una relazione puramente strumentale con il linguaggio, né un semplice effetto la cui capacità di agire è pura complicità con precedenti operazioni di potere.120

L’oscillazione ontologica tra un soggetto agente e un soggetto agito dal linguaggio rappresenta il nucleo principale della riflessione butleriana ed è ciò che crea la possibilità per gli individui di contrastare l’implicita performatività del potere, di emanciparsi dalle marginalizzazioni del discorso sociale e culturale dominante:

Il performativo sociale è una parte cruciale non solo della formazione del soggetto, ma anche della continua contestazione politica e riformulazione del soggetto. Il performativo non è solo una pratica rituale: è uno dei rituali influenti con cui i soggetti sono formati e riformulati.121

120 Il passaggio di Parole che provocano che abbiamo riportato, presenta alcuni problemi e lacune nell’interpretazione del pensiero austiniano. Ad esempio, in base a quanto abbiamo già detto, non appare corretta l’affermazione in apertura — «Per Austin il soggetto che parla viene prima delle parole che pronuncia». Austin non propone, infatti, nessuna particolare ontologia del soggetto. Più ‘umilmente’ il filosofo inglese parte dal presupposto, derivato dall’esperienza comune, che i soggetti compiono quotidianamente tramite le parole una serie di azioni. Queste azioni, per avere un’efficacia, devono poter essere attribuite a un soggetto responsabile e libero, a prescindere da come questo stesso soggetto viene ‘pensato’ dalla filosofia ontologica. Secondarimente Butler asserisce che per Austin «la forza illocutoria è assicurata dalle convenzioni», ma, come ha sottolineato Sbisà, in verità per Austin il richiamo alla convenzione non è sufficiente a garantire la forza dell’atto illocutorio, che dipende in modo altrettanto fondamentale dall’uptake, cioè dalla ricezione e accettazione dell’enunciato da parte dell’interlocutore. Cfr. M. Sbisà, Uptake and Conventionality in Illocution, in “Lodz Papers in Pragmatics” 5 (1), 2009, pp.

33-52. Articolo disponibile online all’indirizzo,

https://www.researchgate.net/profile/Marina_Sbisa/publication/250166149_Uptake_and_Conventionality_in_Illocution/links /0deec5351a2e225217000000/Uptake-and-Conventionality-in-Illocution.pdf (consultato in data 7/03/2019).

J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, op. cit., pp. 35-39.

Questo passaggio richiama alla mente un’altra fonte di Butler, l’antropologo scozzese Victor Turner e la sua idea secondo cui «l’agire sociale richiede una performance ripetuta».122 Nel libro Dal rito al teatro Victor Turner propone di interpretare il rito come una forma processuale finalizzata a regolare il conflitto in funzione dell’integrazione e della coesione sociale. Lo studioso scozzese individua nel ‘dramma sociale’ e nelle sue quattro fasi evolutive (rottura, crisi, compensazione e riconciliazione) il luogo di insorgenza del rito. I riti si configurano come ‘liminal activities’, attività, cioè, in cui i membri di una cultura si trovano in una situazione separata rispetto alla quotidianità e in una condizione autoriflessiva regolata da norme. Per Turner, nella sfera religiosa, legale e artistica la performance agisce come forma di compensazione e riconciliazione di conflitti che esigono una valutazione del comportamento sociale:

Che contro il dilagare della crisi si faccia appello a processi giuridici oppure rituali, il risultato è un incremento di quella che potremmo definire la riflessivitá sociale o collettiva, gli strumenti con i quali un gruppo cerca di esaminarsi, di rappresentarsi, di comprendersi e quindi di agire su se stesso.123

La riflessività, che connota le varie performance culturali, produce — o può produrre — integrazione sociale perché si dà diltheyanamente come un Erlebnis, cioè come un’unità di esperienza vissuta che si oggettivizza tramite l’espressione di valori e significati intelligibili intersoggettivamente. Il rito è un «atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell'esperienza viene attribuito un significato, anche se questo significato è che non c’è nessun significato».124

The social drama which results precisely from the suspension of normative role-playing, and in its passionate activity abolishes the usual distinction between flow and reflection, since in the social drama lt becomes a matter of urgency to become reflexive about the