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La colpa individuale e l’isteria collettiva: Una storia americana

CAPITOLO III La rappresentazione del crimine e del colpevole nel cinema

3.2 Un percorso filmografico: ragioni e obiettivi

3.2.3 Le declinazioni della colpa nel racconto documentario

3.2.3.2 La colpa individuale e l’isteria collettiva: Una storia americana

Nel 2000 il filmmaker Andrew Jarecki inizia a lavorare a un progetto documentario sugli animatori delle feste private per bambini a New York. Durante l’attività di ricerca, il regista si imbatte in David Friedman, uno dei clown e prestigiatori più affermati di Manhattan, e nella storia sconvolgente della sua famiglia ebrea. David proviene da un ricco sobborgo di Long Island. Primogenito di Arnold, informatico e professore di fisica, ed Elaine, casalinga, l’uomo ha due fratelli minori, Seth e Jesse. Nel 1987, nel corso di un’indagine federale sulla distribuzione e il commercio postale di materiale pedopornografico, l’FBI incrimina Arnold Friedman, nella cui abitazione vengono ritrovate numerose riviste clandestine raffiguranti scene di sesso esplicito con minori. Durante la perquisizione gli agenti scoprono una lista di

studenti del luogo a cui l’ex professore, assieme al figlio diciottenne Jesse, dava regolarmente lezioni private di informatica. L’FBI inizia, dunque, a indagare su possibili abusi commessi da padre e figlio nei confronti dei giovani allievi, raccogliendo in breve tempo una serie di testimonianze gravemente incriminanti. Secondo quanto riferito da alcuni adolescenti durante gli interrogatori, nel corso delle lezioni tenute nel seminterrato della casa dei Friedman, si sarebbero verificate decine di molestie e violenze a sfondo sessuale, programmate e reiterate nel tempo da Arnold e Jesse. Le accuse portano all’arresto di padre e figlio che, in primo appello, si dichiarano innocenti rispetto ai reati a loro ascritti. Nonostante l’assenza di prove materiali a supporto delle deposizioni, la gravità dei fatti contestati, il numero notevole di denunce e la comprovata devianza sessuale di Arnold — confermata prima dal possesso di innumerevole materiale pedopornografico e, in seguito, da un suo stesso memoriale — rendono pressoché disperata la situazione processuale per i due Friedman. Arnold prima e il figlio Jesse poi scelgono di dichiararsi colpevoli accedendo così al patteggiamento e, quindi, a una riduzione della pena. Entrambi vengono condannati a più di dieci anni di carcere. Arnold muore suicida in prigione nel 1995, mentre Jesse viene rilasciato nel 2003 dopo tredici anni di carcere. Come abbiamo visto, il passaggio, in fase di ideazione e progettazione del film, dall’indagine documentaria di stampo socio-antropologico sugli animatori per le feste di compleanno dei bambini di Manhattan alla ricostruzione di un caso giudiziario controverso poggia sull’incontro con la figura ambigua di David. È, infatti, a partire dal paradosso incarnato da David, star dell’intrattenimento per l’infanzia e figlio devoto di un conclamato pedofilo, che si dispiega l’intero meccanismo di questa rappresentazione documentaria, incentrata in gran parte sulla decostruzione della verità giudiziaria di questo caso.449 Il punto di vista interno e partigiano espresso da David Friedman è il punto di avvio di una messa in crisi generale delle testimonianze che compongono il film di Jarecki.

Una storia americana — adattamento libero del titolo inglese originale Capturing the Friedmans —450 si compone di materiali audiovisivi eterogenei che possiamo suddividere in

449 Il regista ha affermato in numerose interviste di essersi ispirato a Errol Morris, in particolare, al film The Thin Blue Line. Anche Una storia americana punta, infatti, a scomporre il discorso istituzionale e mediatico sul colpevole. Mentre Morris, come abbiamo già visto, si avvale della tecnica del reenactment per fare emergere le contraddizioni e le incongruenze delle testimonianze raccolte, Jarecki adotta uno stile di conduzione e di montaggio delle interviste autoesplicativo delle lacune e delle ambiguità dell’impianto accusatorio. Sulle fonti cinematografiche che hanno ispirato Jarecki per questo documentario si veda, K. Fairweather, A Family Affair: Filmmaker Andrew Jarecki Discusses How He Captured The Friedmans, in “International Documentary Association”, articolo disponibile online all’indirizzo, https://www.documentary.org/magazine/family-affair-filmmaker-andrew-jarecki-discusses-how-he-captured-friedmans (consultato in data 6/10/2018).

450 «La scelta della distribuzione italiana di cambiare il titolo originale — rinunciando a quel senso di caccia a una verità imprendibile che racchiudeva—.per una volta non appare del tutto fuori luogo, anzi sembra cogliere un aspetto fondamentale del film: lo spostarsi progressivo dell'indagine dalla ricerca sui percorsi oscuri che conducono un· individuo oltre i confini della cosiddetta normalità alla descrizione di una malattia che colpisce l'intero corpo sociale e le istituzioni che lo governano, stretti in un arroccamento difensivo della propria integrità dai chiari sintomi paranoici» L. Farinotti, Una storia americana. I

due macro-categorie principali. Da una parte, l’insieme delle riprese effettuate da Jarecki e dai suoi collaboratori,451 ovvero le interviste girate tra il 2000 e il 2003 a David, Jesse, Elaine e Howard Friedman — fratello minore di Arnold e gay dichiarato —, ai membri della polizia e agli agenti federali che hanno condotto le indagini, alla giornalista investigativa Debbie Nathan, che ha criticato l’impianto accusatorio della procura e, infine, ai testimoni coinvolti nella vicenda — sia quelli a sostegno dell’accusa sia quelli prodotti dalla difesa. Dall’altra parte, invece, le immagini d’archivio tratte da tre fonti differenti:

1) Gli home movies di Arnold. Filmati girati con cineprese amatoriali in 8mm e 16mm che rappresentano momenti di festa della famiglia Friedman, dalla luna di miele dei due giovani coniugi ai compleanni dei figli ancora bambini.

2) Le registrazioni video di David.452 Riprese effettuate con una videocamera digitale che documentano la realtà drammatica e in disgregazione della famiglia Friedman nel corso del processo ad Arnold e Jesse e i suoi personali video-diari

3) Il materiale d’archivio ricavato dai notiziari televisivi e dalle riprese in aula del processo.

Mentre la prima tipologia di materiale, cioè, quello diretto da Jarecki — oltre alle interviste ai soggetti che abbiamo elencato, vi sono le riprese cerniera che mostrano, perlopiù, scorci della suburbia ordinata e tranquilla della Contea di Nassau dove si è svolta la vicenda — propone una polifonia di punti di vista contrapposti, almeno in linea di principio, tra accusa, difesa e sospensione del giudizio,453 le parti di found footage si articolano anzitutto attraverso la dialettica tra l’intimità delle autorappresentazioni prodotte dai membri della famiglia Friedman e l’esteriorità impersonale della loro rappresentazione mediatica e giuridica. L’analisi di questo film esaminerà in modo approfondito il significato e i rapporti tra queste forme di testimonianza — diverse e spesso contrapposte per origine e contenuto —, il tema della colpa e i problemi morali implicati dal suo specifico racconto documentario.

labirinti della memoria e la verità delle immagini, in L. Gandini, A. Bellavita (a cura di), Ventuno per undici. Fare cinema dopo l’11 settembre, Le Mani, Genova 2008, p. 68.

451 Il produttore Marc Smerling, il montatore e co-produttore Richard Hankin e la produttrice associata Jennifer Rogen.

452 A cui si aggiungono le registrazioni audio fatte, nello stesso periodo, da Jesse, che ne rivendica la paternità nel corso di un’intervista in carcere.

453 È principalmente l’ormai ex-moglie di Arnold a non voler assumere una posizione netta rispetto alla vicenda. La donna ha sempre sostenuto con convinzione l’innocenza del figlio Jesse, mentre la scoperta delle perversioni sessuali del marito la allontanerà sempre di più dal padre dei suoi figli. Va sottolineato che proprio Elaine svolge un ruolo fondamentale nella confessione di Arnold, la cui autoaccusa potrebbe scagionare il figlio, minorenne all’epoca dei fatti.

*

Capturing the Friedmans si apre con un filmato degli anni Ottanta in cui Jesse interpreta per gioco la parte del reporter che si accinge a intervistare, con tanto di microfono, il padre Arnold, che entra nell’inquadratura con un balzo, ridendo divertito. L’operatore di questa ripresa è David, la cui testimonianza in voice over si sovrappone a queste brevi immagini amatoriali per affermare di credere al ricordo affettuoso del padre nonostante i segreti che ne hanno costellato la vita. Dopo questo estratto iniziano a scorrere i titoli di testa; sulle allegre note country della canzone Act Naturally454 vediamo proiettati su uno sfondo nero una serie di filmati in Super8 che ritraggono i membri della famiglia Friedman in momenti di festa o di vacanza privati. Le immagini selezionate da Jarecki ci mostrano, in sequenza, una bella macchina parcheggiata sul vialetto della villa dei Friedman dalla quale escono Arnold e i bambini, che salutano felici in direzione della macchina da presa, Arnold molto giovane che corre allegro verso l’obiettivo con sulle spalle uno dei suoi figli, Elaine che legge un giornale seduta su una sdraio al mare e sorride a favore di camera, David con uno strumento musicale in mano mentre si inchina pomposamente di fronte al pubblico formato dai suoi familiari, Seth a un picnic che, accorgendosi di essere ripreso, guarda in macchina facendo una smorfia e, infine, Jesse, all’età di circa sei anni, che saltella felice verso la macchina e l’operatore, probabilmente il padre. I membri della famiglia Friedman ci vengono, dunque, presentati nei titoli di testa attraverso queste immagini rapide e di bassa qualità, accompagnate dall’indicazione del nome di battesimo dei soggetti — scritto in bianco sulla porzione di schermo nero — e dal rumore off di un proiettore che si sovrappone al ritmo vivace del brano country interpretato da Buck Owens.

Ciò che accomuna le diverse sequenze tratte dai vecchi home movies della famiglia Friedman — in questa scena di apertura e, più avanti, in tutte le occasioni in cui questi testi privati compaiono nel documentario di Jarecki — è il rapporto intimo, apparentemente autentico e diretto, che si istituisce tra i soggetti rappresentati (il nucleo familiare nella sua interezza), il soggetto che rappresenta (il padre) e il dispositivo della rappresentazione (una cinepresa amatoriale con cui ‘immortalare’ attimi importanti o di convivialità). Gli estratti che

454 Il brano, scritto da Johnny Russell e Voni Morrison ed eseguito originariamente da Buck Owens nel 1963 — ed è proprio questa prima versione che viene usata da Jarecki nei titoli di testa —, racconta la storia un uomo rifiutato dal proprio amore che viene scelto per interpretare la parte di un uomo solo e triste in un film. Pur non avendo esperienza come attore, l’uomo, grazie alla propria personale sofferenza, recita la parte che gli è stata assegnata alla perfezione («They're gonna put me in the movies/They're gonna make a big star out of me/We'll make a film about a man that's sad and lonely/And all I gotta do is act naturally»). L’espressione ‘act naturally’ con cui si chiude il ritornello della canzone rimanda evidentemente al paradosso degli

home movies in cui i soggetti sono, infatti, chiamati a ‘recitare naturalmente’ la propria parte, ovvero il proprio ruolo effettivo

abbiamo appena elencato e che compongono i titoli di testa di Una storia americana condividono la partecipazione di tutto il gruppo familiare al progetto filmico celebrativo e commemorativo, che, come ha sottolineato Odin, si contraddistingue per l’assenza di una struttura narrativa e per la «tonalità euforica»455 dell’enunciazione. Le brevi sequenze in cui i membri della famiglia Friedman ballano, spengono candeline, suonano strumenti e così via, mettono in scena dei momenti «di vita che un’intenzionalità forte ha deciso di fissare»,456

momenti, quindi, caratterizzati da una «massima tensione alla memorabilità»457 e finalizzati ad autorappresentare la coesione e la serenità del nucleo familiare secondo codici e modalità comunicative altamente stereotipati.

La particolarità di questi home movies, sul piano della rappresentazione del tutto somiglianti a qualsiasi altro film di famiglia, risiede nella specifica identità dell’enunciatore, ovvero il padre, Arnold Friedman. A questo proposito, è interessante notare come Roger Odin, richiamandosi agli studi sociologici di Maurice Halbwachs sulla memoria collettiva,458 ponga la figura paterna all’origine della funzione ideologica dei film di famiglia — almeno fino al sopraggiungere dell’era postmoderna, connotata «da un cambiamento di contesto istituzionale e tecnologico»,459 ovvero dalla disgregazione sociale della famiglia borghese di stampo patriarcale e dall’avvento e diffusione della tecnologia video prima e digitale poi —, che è quella di «rinforzare il familiarismo e perpetuare l’Istituzione nella sua forma tradizionale».460

In questa struttura il padre possiede uno statuto particolare; non stupisce constatare che è lui a pilotare la costruzione della memoria familiare [...], ma lo fa coinvolgendo l’insieme della famiglia. Nell’interesse della continuità generazionale organizza i rituali di commemorazione [...]. È lui a supervisionare la (ri)costruzione, da parte dei familiari, della Storia familiare, Storia più o meno mitica che funziona, all’esterno, come Storia ufficiale e all’interno come generatore di consenso: perlomeno, come generatore di consenso apparente. A questo livello la Famiglia (come struttura) è il vero enunciatore del lavoro della memoria: allo scopo di conservarsi l’istituzione veglia a che niente venga a turbarne l’armonia. La censura paterna è raddoppiata dall’autocensura: ci sono cose di cui non si parla.461

455 R. Odin, Gli spazi di comunicazione, op. cit. (ebook).

456 «Utilizzo il concetto, e il termine, di ‘intenzionalità’ forte per riferirmi a tutte le tensioni e le intenzioni che portano alla scelta di riprendere un particolare evento: non soltanto quindi al ‘regista amatoriale’ fattivo, all’uomo comune dietro la macchina da presa, ma a tutto il contesto familiare, e in modo più esteso sociale, che lo mette nelle condizioni/necessità/possibilità di farlo, di scrivere (per immagini), di dire perché rimanga, perché possa essere ricordato, quel particolare momento», Ivi.

457 Ibidem.

458 Cfr. M. Halbwachs, Les Cadres sociaux de la mémoire, Les Presses universitaires de France, Paris 1925, trad. it. di G. Brevetto, L. Carnevale, G. Pecchinenda, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli 1997.

459 R. Odin, Gli spazi di comunicazione, op. cit. (ebook).

460 Ivi.

Il non-detto dei film di famiglia di Arnold Friedman — la selezione del rappresentabile e l’autocensura che contraddistingue in genere la messa in scena privata del nucleo familiare negli home movies — si trasforma, all’interno del documentario di Jarecki, in una metafora della natura sfuggente e ambigua della verità. Gli album fotografici e i film di famiglia di un pedofilo sono indistinguibili per contenuti, temi e stili da quelli di un qualsiasi padre di famiglia borghese tra gli anni Cinquanta e Settanta. Questa somiglianza perturbante tra l’organizzazione e la rappresentazione privata della memoria dei Friedman e l’immaginario collettivo connesso agli home movies è funzionale alla struttura argomentativa di Una storia americana, nel suo tentativo di criticare e di decostruire la datità del ricordo e la neutralità della testimonianza.

Dopo i titoli di testa si inserisce un brevissimo estratto dell’intervista di Jarecki a Elaine Friedman — l’unica donna di questa famiglia — che osserva laconicamente: «Arnold liked pictures. I mean, that’s, let’s face it. He liked pictures». A questa affermazione, tanto semplice in apparenza quanto evidentemente ‘costosa’ sul piano privato ed emotivo («let’s face it»), segue l’estratto di un filmato in cui Arnold presenta, ispirandosi a un reporter televisivo, la propria famiglia e delle sequenze in cui compaiono dei fogli scritti a mano che riportano i credits dei piccoli film amatoriali di Arnold. Queste immagini — evidentemente esemplificative del ruolo di enunciatore filmico svolto dal padre — sono accompagnate da un brano eseguito al pianoforte che evoca, con il suo ritmo allegro e accelerato, le tipiche musiche delle slapstick comedy del cinema muto. Su questo accompagnamento musicale e sulle immagini dei fratelli Friedman da bambini interviene la voce di Elaine che descrive il ruolo e il carattere dei suoi tre figli all’interno del quadro familiare — David, il figlio maggiore e il più responsabile, Seth il ribelle e Jesse «the one that keeps trying to catch up and doesn't quite make it» —. A questa descrizione sintetica ed emotivamente distaccata fa da contrappunto l’intervista a David che introduce e sviluppa il ricordo affettuoso di un’infanzia felice e di un padre amorevole. Non solo, già in questo primo intervento, David esplicita la propria diffidenza e il contrasto con la figura materna, insinuando che tra Arnold, descritto come musicista talentuoso, uomo brillante e professore benvoluto da studenti e colleghi, ed Elaine, casalinga severa e schiva, i rapporti fossero tanto freddi e anaffettivi da spingere il padre pensionato a dedicare la maggior parte del proprio tempo libero a dare lezioni private di pianoforte e informatica. Il contrasto tra i due principali punti di vista interpellati e messi in scena all’inizio di Una storia americana — quelli, appunto del figlio maggiore e della moglie di Arnold — è ribadito anche nei successivi estratti di queste due interviste. Ciò che accomuna David ed Elaine è la loro impossibilità o incapacità dichiarata di confrontarsi con i segreti e le verità di Arnold e, di conseguenza, con una parte centrale della loro stessa biografia («I don’t really

want to talk about it» afferma Elaine, presumibilmente interrogata dall’interlocutore dietro alla macchina da presa sul suo rapporto con Arnold, a cui fa eco poco dopo David, quando, in risposta a una domanda di Jarecki — udibile come voce fuori campo — dichiara «there's something I don't want to talk about»). La reticenza di Elaine è l’altra faccia della propensione a mentire e a mistificare i fatti di David — il clown di Long Island, ad esempio, racconta nelle battute iniziali che il padre è morto per un attacco cardiaco, mentre, come scopriremo nel corso del documentario, Arnold si è suicidato in carcere dopo aver stipulato una polizza sulla propria vita avente come beneficiario Jesse. L’assenza di credibilità di David è alimentata dalle menzogne, dalla parzialità e dalle incongruenze che affiorano attraverso le sue interviste.

Nonostante Jarecki assuma un atteggiamento di fiducia rispetto a questo enunciatore — cosa che si evince, da una parte, dalla modalità di conduzione dell’intervista, che lascia libero spazio alla loquacità e al narcisismo del protagonista e, dall’altra, dal ruolo testimoniale fondamentale assegnato ai filmati girati da quest’ultimo dopo l’inizio del processo —, David, in modo speculare alla madre, rappresenta un ostacolo nel percorso verso la verità di Arnold Friedman. L’autenticità del soggetto non ne fonda, dunque, la credibilità. Ciò emerge con evidenza nella sequenza tratta dal videodiario girato da David durante le fasi conclusive del processo al padre. L’uomo, che indossa solo della biancheria da notte, siede ai piedi del letto di una camera d’albergo e si rivolge con tono concitato alla videocamera:

Well, this is private, so if you don't, if you're not me, then you really shouldn't be watching this, because this is supposed to be a private situation between me and me. This is between me now and me in the future. So turn it off. Don't watch this. This is private.

David rivendica lo statuto privato e confidenziale di questo documento rivolgendosi a un pubblico. Una strategia narrativa che sottolinea l’autenticità dell’Io enunciatore a discapito, evidentemente, della sua credibilità e coerenza comunicativa — non solo la testimonianza del David passato si indirizza a uno spettatore esterno, lì dove rivendica la propria origine e destinazione privata, ma, in modo ancora più esplicito, è lo stesso David ad avere, di fatto, reso disponibile questo materiale per la fruizione pubblica.

Seguendo l’analisi di Odin, possiamo evidenziare come Una storia americana giochi sin dall’inizio con due modi differenti di produzione e comprensione del senso dell’enunciazione filmica: il modo dell’autenticità e il modo documentarizzante. Mentre il primo si basa sulla forza affettiva delle immagini amatoriali e invita lo spettatore a costruire un enunciatore reale,

vietandogli, al contempo, di «interrogarlo in termini di verità»,462 il secondo poggia sul livello enunciativo della testimonianza e determina «la costruzione di un enunciatore IO interrogabile in termini di identità, del fare e di verità».463 Questa oscillazione costante tra autenticità e responsabilità dell’enunciatore è amplificata dal significato complesso delle immagini tratte dal video-diario con cui David ha documentato lo sgretolamento del proprio nucleo familiare. La frattura insanabile tra la rappresentazione autocelebrativa tipica degli home movies e la rappresentazione pubblica e mediatica dai toni sensazionalistici e morbosi del caso di cronaca che coinvolge i Friedman, si manifesta con forza drammatica nelle riprese video sgranate e buie e negli audio disturbati che documentano i momenti di tensione nella sfera familiare, nell’arco di tempo che va dall’inizio delle indagini alla sentenza del processo a Jesse. La funzione ideologica e identitaria assolta di norma dall’apparente naïveté dei film amatoriali destinati a una fruizione privata, si scontra con lo sguardo consapevole, sia da un punto di vista