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La parola del colpevole: il problema della confessione e la possibilità del perdono

CAPITOLO II Testimonianza e colpa

2.3 La parola del colpevole: il problema della confessione e la possibilità del perdono

I nodi della colpa e della testimonianza si intrecciano problematicamente nella questione della confessione. Colui che confessa testimonia la propria colpa e si costituisce di fronte

252 Ibidem.

253 Ivi, p. 53.

254 Ibidem.

255 Ivi, p. 58.

all’altro come soggetto giudicabile e punibile. La confessione, sia in ambito religioso e morale sia in quello giudiziario e mediatico, coincide con un «atto verbale attraverso cui il soggetto fa un’affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso».257 Michel Foucault ha approfondito il tema della «veridizione del sé» in un ciclo di lezioni all’Università Cattolica di Lovanio nel 1981. Secondo Foucault la pratica confessionale nasce e si istituzionalizza all’interno del monachesimo cenobitico medievale, tra il quarto e il quinto secolo, dove si intreccia con l’istituto della penitenza. Più precisamente, la confessio oris può essere considerata «il primo rituale della penitenza cristiana»,258 infatti, «la veridizione di se stessi, il dir vero su di sé, è una condizione indispensabile per l’assoggettamento a un rapporto di potere nei confronti dell’altro».259 In questo modo si stabilisce un patto punitivo tra l’enunciatore (il penitente) e colui che amministra il sacramento della penitenza, che lega l’atto di veridizione alla sottomissione a un’autorità e alla mortificazione del corpo. Foucault sottolinea lo scarto tra questa volontà di sapere che caratterizza il potere biopolitico moderno e, invece, l’esame di coscienza nelle filosofie antiche. Nello stoicismo, in particolare, il ‘dir vero su di sé’ fa parte di un processo pedagogico tra maestro e discepolo che mira alla crescita morale e all’autonomia di giudizio del secondo.260 Confidarsi, più che confessarsi, significa qui entrare in un rapporto dialogico con l’altro segnato dalla franchezza261 e dalla disponibilità reciproca a cooperare per la produzione di un significato condiviso. Al contrario, nelle istituzioni religiose, giudiziarie e, da ultimo, mediche, legittimate e organizzate all’interno dello Stato moderno, la confessione è andata definendosi come dispositivo che determina la punibilità o la curabilità del soggetto Dicendo il vero il reo o l’alienato riconosce e accetta di dover essere ‘corretto’ da un’autorità. Attraverso «una sorta di rito di sovranità»,262 il colpevole «fonda i suoi giudici a condannarlo e riconosce nella decisione del giudice la propria volontà».263

257 M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio, 1981, op.cit., p. 9.

258 Ivi, p. 108.

259 Ivi, p. 143.

260 Le Epistulae morales ad Lucilium di Seneca costituisco il testo forse più esemplificativo di questa modalità di ‘dir vero su

di sé’ articolata all’interno dello stoicismo romano. A questo proposito, sempre in Mal fare, dir vero, Foucault sottolinea l’importanza dell’impressione di dialogo prodotta dalla forma epistolare adottata da Seneca.

261 Alla parresia, come ‘parlare franco’, Foucault dedicherà il suo ultimo ciclo di lezioni (a Berkeley nel 1983) prima di morire. Le sue riflessioni sul tema sono state raccolte nell’edizione italiana, trad. it. di A. Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Milano 2005.

262 M. Foucault, Mal fare, dir vero, op. cit. p. 200.

La confessione è, in generale, «uno strano modo di dir vero».264 È un atto discorsivo intrinsecamente oneroso, che comporta un costo di enunciazione pesante e rischioso per colui che ‘si dice’ di fronte all’altro.265 Il costo di enunciazione, come sottolinea Teresa Bene,

si paga nel mettersi allo scoperto, superando le attitudini alla reticenza, al rifiuto, al segreto e a tutto ciò che concerne la barriera del “non dire”; ragion per cui il suo caso esemplare — nelle società occidentali — è costituito proprio dalla giustizia, ed in particolar modo da quella penale.266

Foucault declina l’idea di confessione come superamento volontario della barriera del “non dire” — «essendo inteso che il non-dire aveva un senso preciso, un motivo particolare, un valore importante» —267 all’interno di un lungo percorso storico e culturale che attraversa le istituzioni occidentali a partire dal monachesimo cattolico medievale, passando per il processo inquisitorio di età moderna e arrivando alle pratiche psichiatriche tra Ottocento e Novecento.268 Come ha evidenziato Nicola Selvaggi, le lezioni di Lovanio adottano, dunque,

una prospettiva nella quale tutto il problema penale si articola sulla dialettica tra potere punitivo, quale espressione del potere sovrano, e reo; mentre, viene trascurata [...] la figura della vittima, e in questa prospettiva, il significato che possono assumere percorsi [...] ‘confessori’ in cui prevale, sull’esigenza strettamente punitiva, quella, invece improntata a mediazione, conciliazione e riparazione.269

Il filosofo francese esclude così dalla sua analisi tutta una serie di modelli che:

perseguono finalità che non sono quelle di marcare la differenza tra ‘normali’ e ‘anormali’, né di espellere od occultare il reo dal tessuto sociale, quanto piuttosto quelle di favorire la riconciliazione e di rafforzare l’unità e la coesione del gruppo sociale.270

264 Ivi, p. 11.

265 Confessare il proprio amore, secondo Foucault, non è dissimile dal confessare una colpa. Questi due atti introducono, infatti, l’enunciatore in un meccanismo in cui viene assegnato all’altro il potere di trasformare la nostra condizione esistenziale.

266 T. Bene, La verità giudiziaria e i suoi rapporti con il potere, in L. Lupària e L. Marafioti (a cura di), Confessione, liturgie

della verità e macchine sanzionatorie, Giappichelli Editore, Torino 2015, p. 45.

267 M. Foucault, Mal fare, dir vero, op. cit., p. 204.

268 Il percorso storico di Foucault si muove attraverso epoche anche molto lontane tra loro, individuando tre luoghi in cui opera con evidenza un’autorità disciplinare incontestabile dai suoi sottomessi: il monastero, il carcere e l’ospedale psichiatrico. Nei contesti storici e sociali descritti da Foucault nel suo articolato lavoro sulla genealogia del potere moderno, la confessione è chiaramente compressa in una dinamica punitivo-disciplinare in cui colui che confessa ‘si fa’ dipendente dal confessore.

269 N. Selvaggi, Le lezioni di Louvain sulla ‘confessione’ e le trasformazioni dei sistemi penali, in L. Lupària e L. Marafioti (a cura di), Confessione, liturgie della verità e macchine sanzionatorie, op. cit., p. 36.

Altri storici e studiosi di diritto penale271 hanno contestato il monismo del potere essenzialmente punitivo e di controllo che contraddistingue la lettura foucaultiana, confrontandolo con le legislazioni e le teorie penali contemporanee.272 Nel diritto penale italiano,273 ad esempio,

la confessione, nel rispetto del principio del libero convincimento che connota l’intera materia probatoria, non determina un’automatica condanna del confidente, dal momento che essa è liberamente valutabile dal giudice, il quale deve apprezzarne la veridicità, l’attendibilità, la genuinità, cercando riscontro in altri elementi eventualmente raccolti.274

Nelle dottrine e nelle procedure giuridiche delle democrazie liberali contemporanee si riscontra la tendenza a disciplinare e a decentralizzare il valore della dichiarazione confessoria, vietando l’uso di strumenti coercitivi o manipolatori da parte degli inquirenti e rimandando la valutazione della sua genuinità a un contesto processuale in cui la confessione del presunto reo si relaziona con altre prove e testimonianze, oltre che con la coerenza e la tenuta delle tesi sostenute dalle parti. Nella realtà sociale esplorata dai documentari di cui ci occuperemo — europei e statunitensi — la contra se declaratio dovrebbe, dunque, darsi sul piano giuridico come un atto libero e attendibile. Non solo, l’ammissione della colpa all’interno del diritto penale contemporaneo è concepita come un elemento fondamentale per mediare il passaggio del reo dalla punizione, stabilita dalle istituzioni come esercizio della loro funzione compensativa e cautelativa, alla riconciliazione con la vittima e la comunità — che si concretizza nel reinserimento sociale e lavorativo del colpevole.275

271 Circa il dibattito italiano rimando al testo curato da Lupària a Marafioti appena citato, che raccoglie gli interventi del seminario tenutosi all’Università degli Studi di Milano il 29 aprile 2014, dal titolo Confessioni e liturgie della verità e macchine

sanzionatorie. A trent’anni dalla scomparsa di Michel Foucault la traduzione in italiano delle lezioni di Lovanio. Per un

approfondimento sul significato della confessione nel sistema processuale penale continentale e anglosassone si veda, invece, il testo di L. Lupària, La confessione dell’imputato nel sistema processuale penale, Giuffrè Editore, Milano 2006.

272 Che si articola a partire da due fonti eterogenee: l’Habeas Corpus alla base della common law anglosassone e la funzione rieducativa della pena descritta da Beccaria e sostenuta da una vasta parte dell’illuminismo — con la notevole esclusione di Kant — fortemente avverso alla crudeltà del potere. A questo proposito, si noti che nell’Ottavo Emendamento della Costituzione americana — il Bill of Rights promulgato nel 1791 — si dichiara che «excessive bail shall not be required, nor excessive fines imposed, nor cruel and unusual punishments inflicted». In uno studio recente, J. D. Bessler ha messo in luce l’influenza del pensiero di Beccaria sui padri fondatori e sulla genesi del Bill of Rights, in particolare proprio in relazione al divieto costituzionale di infliggere punizioni crudeli e inusuali. Oggi giorno, l’applicazione della pena di morte, l’ergastolo, l’isolamento, il lavoro forzato e l’impossibilità, per i poveri, soprattutto per la popolazione afroamericana, di far fronte alla spesa economica della cauzione per evitare la detenzione preventiva, manifestano il fallimento pressoché totale degli ideali illuministi che hanno ispirato i principi costituzionali. Cfr. J. D. Bessler, The Birth of American Law: An Italian Philosopher

and the American Revolution, Carolina Academic Press, Durham 2014.

273 Come ha sottolineato Ennio Amodio, il codice di procedura penale italiano, con la riforma del 1988, rappresenta un buon modello di mediazione tra le istanze accusatorie della common law e quelle inquisitorie della civil law. Cfr. E. Amodio,

Processo penale diritto europeo e common law. Dal rito inquisitorio al giusto processo, op. cit.

274 Ivi, p. 96.

275 È chiaramente diverso se una confessione è una ammissione di quel che si è fatto accompagnata dal giudizio negativo dello stesso soggetto, oppure è fatta nella consapevolezza del giudizio negativo altrui non necessariamente condiviso. L’oppressione

Come sottolinea Jankélévitch,276 dire il vero riguardo alla colpa commessa, esponendosi così al giudizio e alla punizione, fonda la possibilità del perdono. Possiamo dimenticare o scusare l’azione ingiusta di un soggetto che non si ritiene del tutto responsabile, ma non possiamo, di fatto, perdonarlo.277 L’etica iperbolica del perdono fuoriesce dallo spazio della giustizia, qualificandosi come un atto supererogatorio, ovvero come un dovere al di là del dovere,278 che rifonda il tempo della vittima e del colpevole, liberandoli dal passato e aprendoli al futuro. Per Julia Kristeva,

la colpevolezza, che risulta da una mancanza verso la Legge — l’interdetto o la morale — , impregna profondamente l’esperienza della temporalità coestensiva al processo vitale. Per disfare questo ingranaggio, si rende necessaria un’interruzione: non è l’oblio come lo vuole Nietzsche, ma il perdono. È impossibile disfare quanto è stato fatto, e l’oblio solitario non è possibile in un patto plurale. Ma è accettabile che gli uomini, fra loro e nel cuore della fragilità delle loro azioni, si svincolino dai loro fatti e atti passati [...] precisamente perdonandosi.279

In quanto performance relazionale, il perdono si rivolge, anzitutto, «a qualcuno e non a qualcosa»,280 alla persona e non all’atto, poiché «non si può perdonare l’omicidio o il furto, si può perdonare solo l’omicida o il ladro».281 A tal proposito Ricoeur distingue il ‘perdono facile’ dal ‘perdono difficile’ e descrive il secondo in questo modo:

Il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere [...] il nodo dei danni e dei torti irreparabili. bisogna allora rompere con la logica infernale della vendetta perpetua di generazione in generazione. [...] È qui che il perdono confina con l’oblio attivo, non con l’oblio dei fatti, in realtà incancellabili, ma del loro

del dispositivo confessionale descritta da Foucault non sta tanto nel dover ammettere di aver fatto qualcosa, ma nel doversi giudicare secondo criteri altrui.

276 V. Jankélévitch, Le pardon, Aubier - Montaigne, Paris 1967; trad. it. di L. Aurigemma, Il perdono, I.P.L., Milano 1968. In questo testo il filosofo francese definisce il perdono attraverso la differenziazione con i suoi succedanei, cioè con quelle azioni che producono effetti esteriori affini a quelli del perdono. Distinto dall’oblio, dalla scusa, dall’amnistia e dalla clemenza, il perdono si caratterizza, secondo Jankélévitch, in base a tre caratteri distintivi: esso è un avvenimento puntuale, che si realizza in un tempo e in uno spazio preciso, è un dono gratuito e un rapporto personale con l'altro, un confronto, cioè, tra la vittima e il colpevole. Quest'ultimo tratto, cioè, la natura relazionale del perdono emanato dalla vittima, ha il proprio rovescio nel pentimento del colpevole che si fa parola performativa nella confessione.

277 Dimenticare significa liquidare la colpa nel tempo, ponendosi in una posizione di passività o di superficialità che non appartiene alla dimensione propriamente etica dell’uomo. L’azione di scusare, invece, coincide con una giustificazione, o meglio, col riconoscimento dell’involontarietà della colpa, infatti, «a seguito della scusa non c’è più offesa e, dunque, non vi sono né offensore né offeso. Viene riconosciuta l’infondatezza di un’accusa, poiché non vi è volontarietà nel commettere l’atto, che è frutto piuttosto di un’incomprensione. Si tratta semplicemente di ristabilire lo status quo precedente la colpa», Ivi, p. 87.

278 Cfr. J. Derrida, Pardonner: l’impardonnable et l’imprescriptible, Editions de l’Herne, Paris 2004, trad. it. di L. Odello,

Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.

279 J. Kristeva, La notte della giustizia all’alba del perdono, op. cit., pp. 39-40.

280 Ivi, p. 41.

senso per il presente e il futuro. Accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita. Fare sulla colpa stessa il lavoro del lutto. Ammettere che l’oblio di fuga e la persecuzione senza fine dei debitori sono frutto della stessa problematica. Tracciare una linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito.282

In questo quadro, in cui la confessione è condizione necessaria ma non sufficiente al perdono, il ‘dir vero’ rispetto alla colpa commessa non può, a mio avviso, esaurirsi nella logica disciplinare o punitiva che lega il confessante al confessore, l’accusato all’inquisitore e l’anormale allo psichiatra, come proposto nell’analisi foucaultiana. La confessione fonda, infatti, la possibilità di una relazione comunicativa nuova tra il colpevole e la vittima che dipende dalla sincerità e attendibilità di chi confessa. Confessare significa ammettere quel che si è fatto esponendosi al giudizio negativo dell’altro. Un giudizio che colui che confessa deve in sostanza condividere, se la sua intenzione è quella di comunicare a un pubblico il proprio pentimento, aprendosi alla duplice ipotesi di una vendetta-punizione o di un perdono-riconciliazione con l’altro. In quanto gesto etico la confessione può cooperare a un ideale di giustizia fondato sulla reciprocità; si tratta, allo stesso tempo, di una testimonianza e di una promessa che riafferma il patto fiduciario tra i membri di una comunità.

Marìa Zambrano, nella sua analisi della forma confessione nella storia della letteratura occidentale, sottolinea come la tensione tra passato e futuro caratterizzi questa pratica di narrazione del sé, modulando un bisogno intimo e tragico del soggetto. Per la studiosa spagnola la confessione:

comincia sempre con una fuga da sé. Parte da una situazione di disperazione. Il suo presupposto è quello di ogni partenza: una speranza e una disperazione; la disperazione di ciò che si è e la speranza che appaia qualcosa che ancora non si possiede283

Oggetto ambiguo e al centro di forze violente che legano il colpevole — il suo corpo e la sua coscienza — alle istituzioni e alle vittime, la confessione sembra poter rivelare la verità più segreta e intima della colpa, fornendoci un accesso privilegiato al reale. I documentari che analizzerò nel corso di questa ricerca si confrontano in maniera critica con la parola del colpevole, con il suo portato testimoniale e con il problema della confessione. Nella rappresentazione documentaria del colpevole si riscontra di frequente uno scollamento tra le parole e l’immagine del soggetto. Come abbiamo già detto, la macchina da presa sembra avere

282 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, op. cit., pp. 117-118.

283 M. Zambrano, La Confesiòn: Género literario, Ediciones Luminar, Mexico City 1943; trad. it. di E. Nobili, La confessione

il potere di rivelarci lo scarto tra la parola e il corpo — le sue espressioni, i suoi gesti e la sua voce — del soggetto rappresentato. Lì dove la colpa determina e alimenta la menzogna e il mascheramento difensivo del colpevole agli occhi dell’altro, la pretesa di verità del racconto in prima persona tende a scontrarsi con l’immediatezza del linguaggio corporeo, con la sua difficoltà ad aderire integralmente all’artificio dell’inganno e del calcolo egoistico — che Jankélévitch descrive come una costruzione labile, una «seconda natura bisognosa di una volontà che si risceglie continuamente»,284 inciampando in contraddizioni e fragilità. In maniera affine al giudice istruttore, il documentarista cerca allora «il turbamento rivelatore della falsificazione [...] spia e fiuta gli indicatori più delicati dell’indebolimento»285 di una cattiva coscienza, cogliendo

un’alterazione della voce, un lieve rossore, lo sguardo sfuggente della malvagità, e quel sorriso impercettibile agli angoli della bocca che indica il primo liquefarsi della serietà e tutte le rivincite della spinalità più ingenua sulla simulazione; scova infine le articolazioni dell’innocenza in questa armatura di frode e di mito286

Il lavoro di raccolta e studio che ha preceduto e accompagnato questa ricerca ha fatto emergere una questione tanto ricorrente quanto fondamentale: nella rappresentazione documentaria le parole del colpevole appaiono quasi inesorabilmente segnate dalla falsificazione. In linea di massima, possiamo anticipare che se è raro che di fronte alla macchina da presa il colpevole si confessi, è invece frequente che si tradisca. In virtù della sua natura performativa e politica, il cinema del reale che affronta il tema della colpa sembra più incline a disseminare il dubbio e a mostrare il fallimento della promessa di verità del mentitore287 che ad attestare la veridicità dei soggetti rappresentati.

284 V. Jankélévitch, Du mensonge, Flammarion, Paris 1998; trad. it. M. Motto, La menzogna e il malinteso, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 28.

285 Ivi, p. 30.

286 Ibidem.

287 Derrida nota che «per definizione, il mentitore è qualcuno che afferma di dire la verità promessa». Per essere efficace, infatti, la menzogna deve pretendere di essere riconosciuta come vera dall’altro, ovvero, deve avere “effetti di verità”. Il mentitore, proprio come il testimone e come colui che confessa, si impegna formalmente nei confronti di un altro per cui la verità affermata ha un significato e un valore specifico, di norma dirimente per un giudizio. J. Derrida, Histoire du mensonge, Editions de L’Herne, Paris 2005; trad. it. M Bertolini, Breve storia della menzogna. Prolegomeni, Castelvecchi Editore, Roma 2006, p. 83.

2.4. La colpa e la storia: un confronto con le strategie rappresentative di Ophüls