• Non ci sono risultati.

L’intervista: l’incontro e la costruzione dell’altro

CAPITOLO III La rappresentazione del crimine e del colpevole nel cinema

3.1 L’intervista: l’incontro e la costruzione dell’altro

Nell’ambito delle scienze sociali, l’intervista identifica una metodologia standardizzata di raccolta di informazioni quantitative e qualitative tramite il meccanismo della domanda e della risposta tra due soggetti oppure tra un’istituzione e un campione sociale di studio predefinito. I sociologi inglesi Atkins e Silverman333 hanno studiato l’affermarsi di questa prassi nelle istituzioni e nei media occidentali a partire dalla sua emersione e seguendone lo sviluppo nel campo delle scienze umane e statistiche, da una parte, e nel giornalismo europeo e statunitense

330 L’espressione ‘l’ordine del quotidiano’si rifa a Goffman, secondo cui la socialità moderna si contraddistingue per la diffusione della cosiddetta civil inattention, ovvero una predisposizione comportamentale che tende a una forma, seppur mitigata, di fiducia reciproca per cui «the individual implies that he has no reason to suspect the intentions of the others present and no reason to fear the others, be hostile to them, or wish to avoid them». L’evento criminale e la sua rappresentazione interrompono questa civil inattention, introducendo nel nostro sguardo verso il mondo e l’altro quegli elementi di sospetto, paura, ostilità che nella quotidianità tendono a non entrare in gioco e a rimanere sullo sfondo. E. Goffman, Behavior in Public

Places: Notes on the Social Organization of Gatherings, The Free Press, New York 1963, p. 84.

331 L’idea di approssimazione al reale — che, come abbiamo visto, è caratteristica dell’argomentazione giuridica — è al centro anche della prospettiva di ricerca del lavoro più recente di Stella Bruzzi. Cfr. S. Bruzzi, Approximation: Documentary, History

and the Staging of Reality, Routledge, London 2017.

332 L’intervista è generalmente associata a un tipo di interazione gerarchizzata, determinata dalla rigida dicotomia tra intervistatore e intervistato. Il problema ideologico a cui mi riferisco è legato dal ruolo delle due parti in gioco. Il termine ‘intervista’ verrà qui impiegato in senso lato, per indicare l’interazione discorsiva tra il regista e i soggetti filmati secondo la modalità, più o meno palese, della domanda-risposta.

333 D. Silverman, Qualitative Methodology and Sociology, Gower Publishing Ltd, Aldershot 1985; Paul A. Atkinson, The

ethnographic imagination: textual constructions of reality, Routledge, London 1990 e P. Atkinson, D. Silverman, Kundera's Immortality: The interview society and the invention of the self, in “Qualitative Inquiry”, Vol. 3, 1997, pp. 304-325.

a cavallo tra Settecento e Ottocento, dall’altra. Il paradigma positivista, dominante in questa fase storica, ha ‘garantito’ l’oggettività scientifica di questo mezzo di indagine, istituzionalizzandolo nella formula del questionario, che nega — o meglio dissimula — il punto di vista dell’istanza interrogante, a favore di una gestione computazionale e statistica dell’informazione. Atkins e Silverman hanno evidenziato l’oscillazione del dispositivo intervista, a partire dal pensiero positivista ottocentesco fino alla società dei consumi contemporanea, tra i poli opposti della trasparenza e dell’opacità. I due studiosi, in particolare, hanno messo a fuoco i problemi connessi all’apparente neutralità del formato questionario, che è parte integrante del nostro modo di concepire l’intervista statistica, e ai legami tra l’intervista e le tecnologie di costruzione dell’altro.

Nel testo Qualitative Methodology and Sociology, David Silverman propone di concepire il valore epistemologico dell’intervista fuori dai limiti imposti proprio dall’approccio di stampo positivista alla sociologia. Lo studioso lega il bisogno di ri-fondazione di questo strumento conoscitivo a tre aspetti riguardanti, rispettivamente, l’analisi, la metodologia e la pratica dell’intervista:

Analytically, we cannot put our commonsense knowledge of social structures on one side in the misplaced hope of achieving an objective viewpoint. In an inter-subjective world, both observer and observed use the same resources to identify ‘meanings’.

Methodologically, it should be recognised that a statistical logic and an experimental method are not always appropriate for the study of this inter-subjective world. Random sampling methods and the use of control groups derive from a logic which is not necessarily applicable to a post-positivist universe.

Practically, because we are dealing with an intersubjective world, policy interventions based on a stimulus-response model of change are neither analytically nor politically acceptable. We can no longer, therefore, accept a picture of objective ‘experts’ manipulating ‘variables’ to produce ‘better’ outcomes as tolerable for research practice.334

Per Silverman si deve, come prima cosa, riconoscere il circolo ermeneutico che contraddistingue gli atti interpretativi delle scienze umane e sociali — sociologia, etnologia e antropologia —, in cui il soggetto-osservatore è ‘pre-compreso’ nel mondo osservato. In secondo luogo, lo studioso segnala l’insufficienza metodologica della statistica e del metodo sperimentale nello studio delle relazioni umane e, infine, sottolinea la necessità epistemologica e politica di abbandonare l’uso strumentale dell’intervista, come metodo fondato sul nesso, solo in apparenza oggettivo, di stimolo-risposta che, generalmente, è funzionale a fornire

informazioni utili alla performatività, ovvero al «miglior rapporto input/output»,335 degli apparati di potere e/o di produzione.

All’interno della società dei consumi e dei media, l’intervista si è via via consolidata come mezzo conoscitivo fondamentale per l’individuazione delle variabili socio-relazionali di maggiore interesse per le istituzioni politiche e gli apparati economici. Conoscere le preferenze e le opinioni del cittadino/consumatore significa, in quest’ottica, poter definire aree di azione per l’ampliamento del consenso e del consumo. L’espressione ‘società dell’intervista’, coniata da Atkins e Silverman, sottolinea, in primis, la pervasività di questa metodologia di indagine e di produzione del sapere nella società post-capitalista occidentale. Se pensiamo agli studi di mercato, alla gestione ‘performante’ delle risorse umane nelle aziende, alle tecniche del marketing commerciale e partitico e all’ossessione dei mass media per l’intervista come accesso privilegiato all’altro, riscontriamo diversi profili di rischio connessi alla dinamica della domanda-risposta dell’intervista, che spesso appare come una forma di costruzione eterodiretta del sé, in cui, cioè, le risposte del soggetto servono, in sostanza, a inquadrarlo entro schemi prestabiliti.

Ciò nondimeno l’intervista si presenta in alcuni ambiti comunicativi della modernità e della post-modernità — si pensi banalmente all’ambito giornalistico — come uno strumento dialogico pressoché irrinunciabile per conoscere e rappresentare l’altro e le sue ragioni. Un’intervista giornalistica ‘felice’, nel senso austiniano di questo aggettivo, dovrà rispettare delle condizioni minimali in grado di ridurre i rischi di disturbo o manipolazione della risposta, evitando, quindi, domande inutili, confuse o tendenziose. Così concepita, l’intervista organizza un’interazione comunicativa basata, almeno idealmente, sulla sincerità dei partecipanti e sull’impegno dell’intervistatore alla chiarezza e dell’intervistato alla pertinenza. Si tratta, cioè, di un gioco linguistico definito da regole pre-comprese e condivise dai partecipanti, che, possono, nondimeno, essere infrante o aggirate per gli scopi di una o di entrambe le parti.

Per quanto concerne, nello specifico, l’uso di questa pratica all’interno nel cinema documentario, è stata rilevata da diversi studiosi336 una tendenza storica alla decostruzione di quel rapporto gerarchico tra osservatore e osservato che connota l’intervista nella cultura

335 F. Lyotard, La condizione postmoderna, op. cit., p. 84. Lyotard assegna al termine ‘performatività’ un’accezione molto differente da quella che abbiamo tratto nel primo capitolo, attraverso il confronto con Austin e Butler. Per il filosofo francese, infatti, la performatività coincide con l’ottimizzazione della dinamica input/output per raggiungere il grado massimo di efficienza nei sistemi produttivi e nelle istituzioni.

336 Cfr. G. Gauthier, Storia e pratiche del documentario, op. cit.; S. Moraldi, Questioni di campo. La relazione

positivista. Sulla scorta degli studi di Lévi-Strauss,337 Jean Rouch, fondatore e più noto esponente del Cinéma vérité francese, sviluppa, nel corso degli anni Cinquanta, un approccio documentaristico basato sulla cosiddetta antropologia condivisa. Simone Moraldi ha illustrato in modo accurato il legame tra l’opera del filmmaker francese e lo strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss nel quadro della rivoluzione partecipativa attraversata dalle scienze etnografiche nel dopoguerra. Come scrive Moraldi:

La partecipazione attiva è figlia di uno statuto rinnovato dello studioso in seno alla comunità, che non pone più come l’“osservatore” che deve indagare e studiare gli aspetti della società con un occhio scientifico, ponendosi nei confronti del suo oggetto di studio in una posizione di raccoglitore di dati, quanto piuttosto nella posizione di chi vive in modo problematico l’esperienza del contatto in sé e, nell’affrontare questa problematicità nel e con l’altro, svolge il proprio lavoro. È da questa consapevolezza che trae origine il metodo di lavoro di Jean Rouch, l’«antropologia condivisa».338

In questo passaggio, Moraldi sottolinea lo sforzo di de-gerarchizzazione dello sguardo sull’altro, al centro sia delle ricerche sul campo di Lévi-Strauss tra gli indigeni amazzonici sia nei documentari di Rouch sull’Africa sub-sahariana. La critica al modello etnocentrico occidentale — basato, appunto, sulla distinzione gerarchica tra osservato e osservatore — pone in primo piano la questione dell’autoriflessività nell’incontro con l’altro sociale e culturale.339

Il Cinéma vérité — a differenza del coevo Direct Cinema statunitense e della tecnica del fly-on-the-wall su cui si basa una parte importante di questa corrente documentaria —340 si focalizza sulla rappresentazione dell’incontro umano e del dialogo tra il filmmaker e i soggetti rappresentati. In queste esperienze documentarie la forma intervista abbandona, allora, la logica informativa tipica dell’ideologia positivista e diventa uno strumento flessibile e dialettico capace di far emergere la verità dell’esperienza e dell’incontro partecipato con l’altro, in opposizione alla verità sull’altro del discorso scientifico e autoritario. Coerentemente con la prospettiva storica e teorica delineata entro questa ricerca, mi concentrerò nell’analisi di

337 Il pensiero di Lévi-Strauss influenzerà profondamente il campo degli studi antropologici ed etnografici a partire dalla pubblicazione di una delle prime opere dello studioso francese, Les structures élémentaires de la parenté, Presses Universitaires de France, Paris 1949; trad. it. di L. Serafini, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1969.

338 S. Moraldi, Questioni di campo. La relazione osservatore/osservato nella forma documentaria, op. cit., p. 61. Tale prospettiva si può estendere anche all’ambito delle scienze naturali. Il principio di indeterminazione, formulato da Heisenberg nel 1927 e considerato, assieme al principio di relatività einsteiniano, il fondamento teorico della fisica moderna, pone, ad esempio, l’osservatore come variabile attiva nel processo di misurazione del reale. In particolare, l’osservatore non può conoscere nella sua interezza presente lo stato fisico di una particella elementare. A seconda del punto di vista sperimentale adottato, l’osservatore può conoscere alternativamente la posizione o la velocità della particella. La scelta di un parametro di misurazione, ad esempio, la velocità oraria, pregiudica quindi la conoscenza della sua posizione nello spazio e viceversa.

339 Cfr. C. Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Plon, Paris 1955; trad. it. di B. Garufi, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 2004.

340 L’espressione definisce una tecnica registica incentrata sul divieto per il filmmaker di intervenire nel reale prima e durante le riprese. Per un’analisi e una critica all’invisibilità del documentarista si veda, B. Winston, The Documentary Film as

film che declinano l’intervista in chiave critica, rinunciando, cioè, alla pretesa di identificare l’altro e di nascondere la prospettiva soggettiva e parziale dell’istanza che interroga. Nei casi di studio indagati, i filmmaker aprono la forma intervista a una performance che li implica e mette in gioco il loro punto di vista sul reale.

Nella rappresentazione documentaria del crimine l’intervista svolge un ruolo nevralgico. In particolare, l’incontro e l’interazione tra il regista e il colpevole ci pone di fronte a degli interrogativi di grande importanza per la dimensione etica del documentario che abbiamo descritto nei capitoli precedenti secondo i concetti di responsabilità e di testimonianza. Quali sono i significati valoriali e i rischi connessi alla scelta di dare la parola al colpevole? Che verità ci consegna questa parola? «Criminals always lie», dichiara David Harris, l’assassino accusato dal protagonista di The Thin Blue Line (Errol Morris, 1988).341 Harris è il vero responsabile dell’omicidio per cui Randall Adams rischia la pena di morta. La voce registrata su nastro di quest’uomo che ha ucciso e testimoniato il falso contro un innocente ci dice che la menzogna e il crimine in un certo senso si co-appartengono.

La verità comporta per il soggetto criminale l’ingresso nella dimensione della responsabilità e, di conseguenza, della punibilità. Dire pubblicamente la propria colpa ha effetti precisi e rischiosi per l’identità sociale e per la vita stessa dell’enunciatore. Come sottolinea Jankélèvitch,342 il costo oneroso della verità — che determina la sanzione e la punizione a livello materiale e il confronto difficile con le vittime e con la propria coscienza a livello spirituale — spinge il soggetto criminale a vivere in una condizione di menzogna, che oscilla tra il calcolo egoistico e il rifiuto patologico della propria responsabilità di fronte agli altri. Abbiamo già accennato che, nella sua analisi sulla testimonianza nei media, John Durham Peters arriva a negare l’attribuzione di un qualsiasi tipo di valore testimoniale alle parole del colpevole, poiché, afferma:

341 Randall Adams fu ingiustamente condannato per l’omicidio di un agente della polizia texana nel 1976. Nel 1989, dopo dodici anni di carcere in attesa della propria esecuzione, l’uomo fu scagionato dalle accuse a suo carico, proprio grazie al documentario di Morris sugli errori investigativi e giudiziari che determinarono la condanna di Adams. Nel corso dell’intera vicenda, Adams sostenne che a uccidere l’agente Wood fu David Harris, un giovane a cui Adams aveva dato un passaggio in auto proprio la notte del delitto e che ne era poi stato il principale accusatore. La confessione telefonica rilasciata da Harris a Morris attesta questa verità. Le autorità inquirenti rinunciarono a incriminare Harris, condannato nel 1985 per un altro omicidio e in attesa di essere giustiziato. Harris morirà per iniezione letale nel 2004. Torneremo più avanti su questo film, considerato un pilastro del true crime cinematografico.

342 Jankélèvitch situa la menzogna ‘dolosa’ tra i poli del malinteso e dell’inconfessabile. Per il filosofo francese non vi è menzogna quando «colui che ingarbuglia l’essere e il non-essere vi si ingarbuglia lui per primo, se [cioè] è vittima lui stesso di una illusione e dei giochi di parole.» Al contrario, la menzogna vera e propria si connota come una manovra che «implica che si mantenga il controllo della propria doppiezza e che si giochi con il non-essere secondo finalità egoistiche» Nei casi di studio che esporrò è spesso difficile, se non impossibile, distinguere tra la menzogna come calcolo lucido e l’inconfessabilità della colpa come dimensione patologica della psicologia umana. È proprio nel rapporto problematico tra menzogna e inconfessabilità che si gioca gran parte del valore della performance dialogica tra regista e protagonista che indagherò in questo capitolo. V. Jankélèvitch, La menzogna e il malinteso, op. cit., p. 16.

There is a strange ethical claim in the voice of the victim. Witnessing in this sense suggests a morally justified individual who speaks out against unjust power. Imagine a Nazi who published his memoirs of the war as a ‘witness’ — it might be accepted as an account of experiences, but never as a ‘witness’ in the moral sense: to witness means to be on the right side.343

Per Peters la verità del crimine può appartenere unicamente alla sfera esperenziale della vittima. Il criminale, infatti, non è in grado di rivelare l’atrocità del delitto commesso poiché non ha vissuto la violenza, bensì l’ha eseguita. In questa prospettiva, le parole del colpevole assumono un significato etico solo all’interno del percorso verso la giustizia stabilito dal diritto e dai tribunali. È solo rendendosi disponibile al giudizio altrui e ai rischi connessi, che la performance testimoniale del colpevole può acquisire un senso.344

Se davvero la menzogna contamina alle radici la performance comunicativa del colpevole, mettendo in dubbio la sincerità dell’enunciatore e relegando le sue parole all’irrilevanza rispetto all’azione civile e culturale del testimoniare, quali possono essere le funzioni conoscitive e politiche della rappresentazione documentaria del criminale? Più specificatamente, quali valori ha l’atto di ‘dare la parola’ al colpevole? Quali sono gli obiettivi che il documentarista si prefigge intervistando un uomo o una donna che ha ucciso, violentato o rapito un altro essere umano? Le analisi dei film che propongo in questo capitolo tentano di fornire delle risposte, necessariamente non definitive ed esclusive, a questi quesiti complessi, indicando un percorso cinematografico in cui la rappresentazione del criminale si congiunge in modo esplicito alla volontà dei registi di affrontare una realtà drammatica e di riflettere moralmente e politicamente sulla colpa e la pena che la definiscono.