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L’azione documentaria tra tracce e responsabilità

CAPITOLO II Testimonianza e colpa

2.2 L’azione documentaria tra tracce e responsabilità

Nel suo studio sullo stile documentario nella fotografia tra il primo dopoguerra e la fine della Seconda guerra mondiale,209 Lugon ha interpretato la tecnica documentaria come un progetto artistico e culturale — fortemente storicizzato —210 teso a «mostrare la pura realtà pur controllandone il significato»211 in un «doppio sogno paradossale di trasparenza e leggibilità».212 L’ideale documentario che attraversa l’arte fotografica dall’Europa a all’America213 determina precise scelte estetiche basate sulla specificità del medium fotografico analogico. Lugon ne individua tre principali: la chiarezza, la nitidezza e l’impersonalità. Mentre i primi due punti riguardano in maniera specifica le potenzialità tecniche del dispositivo fotografico — la luminosità e la definizione dei dettagli determinati dalle lenti e dalla pellicola —, il terzo punto prescrive al fotografo un atteggiamento che coincide con la «riduzione dell’intervento compositivo».214 Le soluzioni stilistiche adottate per la rappresentazione documentaria del soggetto umano, architettonico e paesaggistico, mirano a cogliere la «composizione inconsapevole»215 del reale, producendo, da un punto di vista linguistico, «l’impressione che siano le cose e i soggetti a presentarsi al fotografo anziché il contrario».216 Il «doppio sogno di trasparenza e leggibilità», ispirato dalla specifica natura tecnologica del dispositivo fotografico prima e di ripresa poi, riguarda dunque, in primo luogo, le tracce dell’uomo, il suo corpo e i suoi prodotti.

La ripresa audiovisiva è documento perché condivide con questo oggetto culturale multiforme la capacità «di registrare il dare e l’avere, di trasformare parole volatili in scritti permanenti e di fissare eventi rendendoli oggetti».217 Come sottolinea Maurizio Ferraris, infatti:

209 O. Lugon, Le style documentaire: d’August Sander à Walker Evans, 1920-1945, Macula, Paris 2001; trad. it. di C. Grimaldi, Lo stile documentario in fotografia: da August Sander a Walker Evans, 1920-1945, Electa, Milano 2008.

210 Lo studioso sottolinea con forza come lo stile documentario si sia stabilito, anzitutto, attraverso un confronto con altre correnti artistiche coeve; in particolare, il pittorialismo e il fotogiornalismo istituzionale, la cui esperienza negli Stati Uniti si raccoglie attorno all’ente pubblico della Farm Security Administration (FSA), istituito da Roosevelt nel 1937. Questo ente, fatte salve alcune eccezioni (tra cui proprio Walker Evans), ha avallato e favorito lo sviluppo di una sorta di drammaturgia letteraria della fotografia documentaria, incanalando nella sua estetica gli intenti politici e propagandistici del New Deal.

211 O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia: da August Sander a Walker Evans, 1920-1945, op. cit., p. 71.

212 L’obiettivo ideologico dei rappresentanti dello stile documentario è quello di «ritrovare nella restituzione oggettiva del mondo una forma di leggibilità». La fotografia documentaria, cioè, deve «trovare non solo la presenza, ma anche la lingua della realtà». Ivi, p. 70.

213 Come rende esplicito il titolo del testo di Lugon, i due artisti più rappresentativi di questa corrente sono il tedesco August Sander e l’americano Walker Evans. Entrambi condividono l’idea di ‘opera fotografica’ come mappatura sociologica, ‘in serie’, del reale. La logica della serializzazione accomuna il progetto di Sander, Menschen des 20 Jahrhunderts, e i due lavori più conosciuti di Evans, Let Us Now Praise Famous Men (1942) e Many Are Called (1966). I due fotografi nella loro opera declinano il ritratto nei termini di una ‘posa autentica’ del soggetto di fronte all’obiettivo.

214 Soprattutto attraverso la scelta della frontalità e dell’inquadratura integrale del corpo del soggetto fotografico. Ivi, p. 82.

215 Ivi, p. 86.

216 Ibidem.

attraverso l’iscrizione, la registrazione e la comunicazione (tutte funzioni rese possibili dalla traccia), si perviene alla costruzione di un mondo sociale e, dentro a questo mondo, hanno luogo i significati. Per questo è importante lasciare tracce, e per questo è così naturale [...]. Nella costruzione della realtà sociale [...] attraverso l’iterazione (vale a dire mediante la tecnica in generale) si ottiene altro, e, cioè, il significato. Ma il significato, proprio a causa di questa genesi, è sempre pronto a regredire, come quando da bambini ripetiamo una parola che, alla lunga, perde senso. O come quando, nella depressione, la vita prende l’aspetto di una perfetta iterazione.218

Le funzioni di registrazione, significazione e iterazione della traccia tramite il documento descritte da Ferraris sono potenziate dalla trasparenza dell’obiettivo, dall’impressionabilità della pellicola e dalla riproduzione del movimento che caratterizzano la macchina da presa.

Per Béla Balázs219 il cinema restituisce al corpo umano la sua natura di organo espressivo, atrofizzata da secoli di cultura concettuale fondata sulla scrittura. L’arte cinematografica può rivelare allo spettatore l’uomo, cogliendone la fisionomia, ovvero la sua essenza contemporaneamente vitale e visuale, l’a priori della sua stessa apparizione fenomenica nel mondo. Secondo lo scrittore ungherese, si tratta di una svolta radicale nella cultura occidentale. Se la stampa aveva trasformato le cose in concetti, staccandole dalla loro realtà fenomenica, l’invenzione del cinema può ora restituire agli oggetti e ai corpi la loro viva fisionomia, il loro spirito visibile che precede l’udibilità e la leggibilità della parola.

La filologia moderna e gli studi sulla formazione della lingua hanno appurato che quest’ultima ha le sue origini nel movimento espressivo. L’uomo che inizia a parlare (e così anche il bambino), muove la lingua e le labbra come fa con le mani e i muscoli del viso, quindi originariamente senza l’intento di produrre suoni. I movimenti della lingua e delle labbra sono inizialmente gesti spontanei proprio come altro gesto espressivo del corpo. Il fatto che ne scaturiscano dei suoni è un fenomeno collaterale, che è stato per così dire valorizzato in un secondo tempo. Lo spirito direttamente visibile è stato tradotto in spirito udibile in forma mediata e in questo processo, come in ogni traduzione qualcosa è stato perduto. Ma il linguaggio dei gesti è la vera madrelingua dell’umanità.220

In questo passaggio, che per molti versi sembra anticipare le riflessioni di Merleau-Ponty in Il visibile e l’invisibile,221 Balázs individua nel corpo il motore della produzione di senso che

218 Ivi, 236.

219 B. Balázs, Der sichtbare Mensch oder die Kultur des Films, Deutsch-Österreichische Verlag, Wien 1924, trad. it. di S. Terpin, L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008.

220 Ivi, pp. 125-126.

221 In questo scritto Merleau-Ponty rivendica la necessità di un pensiero filosofico come «superriflessione che tenga conto anche di se stessa e dei mutamenti che essa introduce nello spettacolo, che quindi non perda di vista la cosa e le percezioni grezze, e che infine non le cancelli, non recida, attraverso una ipotesi di inesistenza, i legami organici della percezione e della cosa percepita, e assuma viceversa il compito di pensarli, di riflettere sulla trascendenza del mondo come trascendenza, di

caratterizza l’uomo. Il corpo, che ci inserisce nel mondo anzitutto come un potere di espressione muto, è il fondo dei significati che la parola addomestica e organizza secondo valori d’uso e astrazioni concettuali. Nell’esperienza artistica della rappresentazione, in particolare nel cinema, l’uomo ritrova dunque la profondità infantile e primitiva del proprio ‘contatto muto con le cose’, rivede, appunto, le loro fisionomie;

Il bambino conosce bene queste fisionomie, perché ancora non vede le cose esclusivamente come oggetti d’uso, strumenti, mezzi per raggiungere un fine, elementi su cui non ci si sofferma. Egli vede in ogni cosa un essere vivente autonomo, con una propria anima e un proprio volto. Il bambino vede tutto ciò, e come lui l’artista, che pure non vuole utilizzare le cose bensì rappresentarle.222

Grazie alla presa diretta il cinema documentario moderno fa incontrare il corpo e la parola del soggetto, mostrandoci l’adesione o lo scarto tra questi due ordini di produzione del senso. In questo ancoramento della parola nel gesto e nella voce dell’individuo, il film documentario rivela il proprio specifico potere di orientare le tracce in un ordine testimoniale. In modo affine alla giustizia e alla religione, anche nel cinema è il corpo a garantire la testimonianza. Alla forma documentaria propria dell’immagine fotografica, il cinema aggiunge, tramite l’illusione del movimento, una durata. Il documentario temporalizza così le tracce del reale, le cala in un movimento vitale e, soprattutto, le restituisce — diversamente dal film di finzione classico —

223 alla loro costitutiva ‘passeità’ e, quindi, alla loro natura memoriale.224 Secondo Cati, il cinema del reale, in quanto luogo di interazione e sedimentazione di tracce, di eventi e di traiettorie, può costituirsi come un mediatore performativo del ricordo, cioè, come un medium capace di «rendere conto della continuità tra rappresentazione del mondo e dell’altro, da un lato, e dei vissuti emozionali e delle esperienze intersoggettive di trasmissione del ricordo [...]

parlarne non secondo la legge dei significati delle parole, inerenti al linguaggio dato, ma grazie a uno sforzo, forse difficile, che impiega questi significati per esprimere, al di là dei significati stessi, il nostro contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora cose dette». M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, op. cit., p. 63.

222 B. Balázs, L’uomo visibile, op. cit., p. 189.

223 Il cinema di finzione classico, che per Deleuze si articola attorno al concetto di ‘immagine-movimento’, si basa su un processo di astrazione del tempo reale che viene di norma ridotto alla linearità dell’azione narrativa. Per rendere ‘leggibile’ il racconto finzionale, l’arte cinematografica sopprime la sostanza dell’esperienza temporale del soggetto. Come ha evidenziato Deleuze, riprendendo Bergson e Proust, il tempo esperito, a differenza del tempo spazializzato, non procede linearmente da un passato a un presente secondo una dinamica di causa-effetto, ma si dà piuttosto come una traiettoria di senso che congiunge ricordo e desiderio. La linea retta del tempo non è che un effetto dell’abitudine, cioè una modalità di semplificazione della temporalità in base ai valori d’uso assegnati alle cose e ai fatti dall’esperienza. È nella tensione tra ricordo e desiderio che si sviluppa la nostra soggettività, ovvero l’unicità irriducibile del nostro punto di vista. Cfr. G. Deleuze, Image-mouvement:

Cinéma I, Éditions de Minuit, Paris 1983; trad. it. di J. P. Manganaro, L’immagine-movimento. Cinema I, Ubulibri, Milano

1984.

224 Sulla fenomenologia temporale della traccia come tensione infinita tra passato e presente si rimanda alle riflessioni di Ricoeur sulla traccia in P. Ricoeur, Temps et récit I, II, III, Seuil, Paris 1984-1985, trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto I,

dall’altro».225 Il discorso documentario, proprio in virtù dell’essenza tecnica del mezzo cinematografico, può partecipare con efficacia e in maniera critica alle pratiche sociali e alle performance rituali e culturali che preservano la memoria umana dall’oblio. L’azione testimoniale del documentario moderno, di cui ci occuperemo in questa ricerca, si gioca tra i poli della definizione dell’immagine fotografica — l’unione di chiarezza e nitidezza come espressioni del potenziamento percettivo intrinseco ai dispositivi di ripresa e di proiezione — e l’imprecisione che caratterizza, invece, l’immediatezza della trasmissione radio-televisiva e la registrazione e fruizione digitale del prodotto audiovisivo a partire dagli anni Ottanta.226

Per quanto concerne il tema centrale di questa ricerca, la rappresentazione documentaria del colpevole e della colpa, il potere di svelamento delle immagini risulta contemporaneamente essenziale e problematico. Come raccontare una verità nevralgica, complessa e sfuggente come quella della colpa in modo responsabile verso il mondo e responsabilizzante verso lo spettatore? Come farsi carico, attraverso i mezzi tecnici e discorsivi specifici del cinema, di un impegno testimoniale moralmente e politicamente fondato? Si tratta, come abbiamo visto, di organizzare la visibilità e la dicibilità del colpevole, della vittima e del testimone in un’azione comunicativa sincera e impegnata. Lo spettatore deve essere messo nella posizione di poter «credere alle immagini, al loro potere associativo e creativo e, al tempo stesso, credere al loro potere di ricreare un legame tra sé e il mondo».227

Daniele Dottorini ha proposto provocatoriamente di sostituire il termine ‘performativo’ con il termine ‘empirico’, derivando il secondo dalle riflessioni estetiche e linguistiche di Pasolini sul cinema, raccolte nel testo Empirismo Eretico. Empirico, nel senso attribuitogli da Dottorini, «non è un discorso, ma un atteggiamento, un metodo persino; un metodo che consente di lavorare/vivere fisicamente sempre al livello della realtà facendo cinema».228 Il dispositivo cinematografico permette al regista di scoprire e sperimentare il mondo empiricamente, di attribuirgli un senso esprimibile all’altro.

Il cinema del reale è [...] necessariamente empirista ed eretico. Un cinema “per” il reale significa un cinema che sperimenta empiricamente le sue forme, collocandosi cioè al livello di una realtà che non smette di chiedere di essere esplorata, ripensata, messa in forma, interrogata, immaginata.229

225 A. Cati, Immagini della Memoria. Teorie e pratiche del ricordo, tra testimonianza, genealogia, documentari, op. cit., p. 104.

226 Il processo digitale di codificazione numerica — con i suoi effetti di pixelizzazione — e, prima ancora, la miniaturizzazione dei dispositivi di ripresa e di riproduzione/proiezione audiovisiva hanno determinato una riduzione della qualità in base a un’alterazione e compressione del segno reale.

227 D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, op. cit., p. 70.

228 Ivi, p. 71.

L’essenza empirista ed eretica del cinema del reale descritta da Dottorini230 presenta affinità sostanziali con l’idea di performance testimoniale che è stata delineata in questa prima parte dell’analisi. La testimonianza come performance che mette in campo — in scena e a rischio — il corpo del soggetto si fonda su un’esperienza vissuta e agisce in funzione sia di una trasmissione — per la memoria collettiva — sia di una trasformazione — per la coscienza collettiva — del reale. ‘Testimoniare’, in questo senso, reso tragicamente concreto dai sopravvissuti della Shoah, può essere interpretato come una particolare declinazione, essenzialmente etica e politica, di quel «vivere fisicamente sempre al livello della realtà»,231 che, per Dottorini, è il perno della filosofia e della poetica di Pasolini.

È opportuno a questo punto tornare su alcune questioni filosofiche introdotte nel primo capitolo per approfondire il legame tra azione e testimonianza all’interno del modello performativo che abbiamo delineato. Hannah Arendt e Judith Butler, come abbiamo visto, hanno articolato le loro riflessioni morali e politiche, rispettivamente, attorno al tema della partecipazione e a quello della sovversione. Ciò che contraddistingue e accomuna queste due prospettive all’apparenza così distanti è, secondo Rosine Kelz, il loro fondamentale contributo alla nozione di «non-sovereign self»232 nella filosofia politica contemporanea.

Hannah Arendt’s work provides a unique understanding of political action that highlights the singularity and non-sovereignty of political agents. Moreover, she enables us to redefine the notion of freedom as decoupled from sovereignty. Judith Butler explores the depth of the vulnerability and opaqueness of the self and the connection between our embodied existence and our lives in language233

Entrambe le autrici, evidenzia Kelz, partono dal riconoscimento dell’impossibilità di fondare filosoficamente l’identità dell’uomo. Per Arendt e Butler, il sé non è né un a priori del pensiero né il mero risultato di un processo evolutivo o storico-sociale come nella dottrina marxista, bensì un’agency. Il soggetto scopre, costruisce e rivela la propria identità nell’azione politica, per Arendt,234 e nella performance corporea e linguistica, per Butler, all’interno, cioè, di una

230 Dottorini dichiara di proporre un’interpretazione del testo Empirismo eretico separata dal dibattito semiologico entro cui di norma viene inquadrato. Ciò che conta per Dottorini è il gesto provocatorio e politico di un cinema che si proclama — nonostante le criticità e le contraddizioni che ne conseguono — lingua alternativa al regime logico-simbolico della scrittura. L’idea di un cinema pensato in analogia alla lingua primitiva, orale o cuneiforme, serve ad affermare il potere specificatamente rivelatore e creativo di questa forma artistica.

231 P.P. Pasolini, Battute sul cinema, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2005, p. 236.

232 R. Kelz, The Non-Sovereign Self, Responsibility, and Otherness. Hannah Arendt, Judith Butler, and Stanley Cavell on

Moral Philosophy and Political Agency, Palgrave, New York 2016, p. 2.

233 Ivi, p. 7.

234 Nell’opera Vita activa, Arendt distingue tre attività umane fondamentali: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire politico. Quest’ultima è definita dall’autrice come «la sola attività umana che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione

relazione di confronto e di conflitto tra il sé e l’altro in cui l’agente si afferma e concretizza contemporaneamente come soggetto e oggetto di diritti e desideri.

La cittadinanza attiva e il corpo desiderante descrivono l’identità in un rapporto di interdipendenza con il mondo. La pluralità, che è premessa e condizione della vivibilità umana, può attuarsi solo nello spazio pubblico. L’accesso a questo spazio, la possibilità di essere riconosciuti e di prendere la parola in esso, è l’obiettivo condiviso — seppure perseguito in modo differente — delle proposte teoriche di Arendt e Butler. La pratica filosofica deve ‘prendere posizione’ nel mondo rivendicando la dimensione politica come necessità dell’uomo legata al suo originario essere-con235 e alla pluralità che fonda la sua condizione. La dimensione politica, che i totalitarismi e il conformismo delle società di massa negano, vive e si riproduce solo tramite l’agire responsabile di soggetti liberi — dove libertà non sta, appunto, per autonomia e sovranità del sé, ma per la capacità di determinarsi in una comunità attraverso un’azione pubblica.

Per Arendt il concetto di responsabilità, nel suo significato per così dire minimo di «attribuzione di un’azione a qualcuno quale suo vero e proprio autore»,236 è distinguibile in base a tre punti di vista differenti: la colpa, la facoltà di giudizio e la capacità di cura.237 Mentre la colpa si colloca a cavallo tra una dimensione morale, basata su un concetto di volontà che «individualizza il colpevole»,238 e una giuridica che rende il soggetto imputabile di fronte a un tribunale, la responsabilità come facoltà di giudizio e capacità di cura dipende, invece, direttamente dalle possibilità di accesso, partecipazione e azione del soggetto nella sfera pubblica. Se il chi del colpevole sul piano morale e giuridico è sempre individualizzato, sul piano, invece, politico e sociale il chi del responsabile appare sfumato e immerso in una rete di interdipendenze e di gerarchie di poteri che mirano a sovrastarlo — sia che il soggetto sociale faccia parte della maggioranza sia che appartenga a una minoranza. Secondo Arendt nella sfera privata, morale e giuridica, la responsabilità coincide con l’obbligo e determina una punizione, mentre nella sfera propriamente politica — basata sulla pluralità — la nozione di responsabilità di cose materiali» e corrisponde «alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo». La pluralità è per Arendt la premessa intuitiva — non ontologica, ma fenomenologica — su cui costruire un’antropologia filosofica come teoria libertaria dell’agire in contrapposizione al totalitarismo e al conformismo delle società di massa contemporanee. H. Arendt, The Human condition, The University of Chicago, Chicago 1958; trad. it. S. Finzi,

Vita activa, Bompiani, Milano 2017, p. 42.

235 In Essere e Tempo, Heidegger differenzia il Dasein (l’esserci) dal Mitsein (l’essere-con). Mentre nel Dasein il soggetto ritrova un sé autentico, confrontandosi con la propria essenza naturale mortale, nel Mitsein il soggetto è immerso in una dimensione sociale, segnata dall’inautenticità, che rimuove la questione della mortalità dell’uomo e nega, di conseguenza, la possibilità di un autoriconoscimento nel tempo.

236 P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris 2004; trad. it. F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 124.

237 Cfr. V. Franco, Responsabilità. Figure e metamorfosi di un concetto, Donzelli Editore, Roma 2015, pp. 92-101.

238 La questione dell’individualizzazione del soggetto colpevole è stata messa a fuoco in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, op. cit.

indica un impegno partecipato e libero con e verso l’altro, che fuoriesce dalla semplice logica della causalità che lega in modo univoco il danno al suo specifico autore. La separazione tra responsabilità morale e politica è motivata, nell’esperienza di studio e di vita della filosofa, dall’osservazione «di casi abbastanza frequenti in cui considerazioni politiche e considerazioni morali, oppure norme di comportamento politico e norme di comportamento morale entrano in conflitto tra loro».239 In particolare, i totalitarismi del Novecento,240 sia di stampo fascista sia di stampo stalinista, sovvertendo il diritto costituzionale e pervertendo la capacità di giudizio morale dei singoli con la violenza e la propaganda, hanno operato al fine di annientare tanto la libertà di azione del cittadino (nel suo vivere-con-l’altro) quanto la capacità di coscienza dell’essere umano (nel suo vivere-con-se-stesso). Sul crollo storico della concezione occidentale di responsabilità sia morale sia politica dell’individuo, dimostrato, anzitutto, dai crimini della Shoah,241 Arendt fonda la necessità di una filosofia della pluralità criticamente