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CAPITOLO 2 Il piano di city branding

2.4 Errori comuni nei piani

Come è stato più volte rimarcato, il fallimento di alcune azioni di marketing tradizionale applicate alla pianificazione e alla promozione dello sviluppo urbano, ha portato alla ricerca di nuovi approcci di marketing. Nonostante ciò, anche gli strumenti appositamente adattati al city marketing hanno riscontrato degli insuccessi.

I primi piani strategici italiani annotano spesso insufficiente capacità attuativa dei progetti, soprattutto per l’incongruità con i piani di bilancio degli enti e degli attori locali e per la difficoltà di realizzazione dei meccanismi partecipativi (Rizzi, 2008).

Herstein et al. (2013) hanno condotto uno studio sui cinque errori tipici del city branding. Gli autori hanno infatti riscontrato che nonostante molte città si impegnino nel city branding, sembra che molti obiettivi delle campagne non vengano effettivamente raggiunti. Lo studio è suddiviso in due parti: la prima esamina la percezione del city brand da parte dei residenti di otto città israeliane, mentre la seconda analizza il processo di branding attuato dalle città esaminate. I cinque errori comuni nel processo di city branding e rebranding e le relative soluzioni sono:

• miopia, ovvero la mancanza di una prospettiva di lungo termine nella pianificazione. Ne consegue che ci si concentra più sui bisogni dell’amministrazione, piuttosto che in quelli degli stakeholder. Una visione miope risulta anche dalla mancanza di ricerca per la determinazione dell’immagine della città percepita dagli stakeholder.

Tra gli esempi di cattiva gestione del city brand in questo senso ci sono Gerusalemme (etichettata come “città della cultura”, nonostante le sue importanti risorse storiche e religiose e i suoi problemi prioritari) e Liverpool (etichettata come “centro di conoscenza”, anche se l’innovazione e la conoscenza non sono così praticate e i turisti continuano a percepirla famosa per il calcio e per i Beatles). All’opposto, una delle città che si è distinta è stata Tel Aviv, che ha avuto la consapevolezza da subito di dover intraprendere un progetto di lungo termine.

La soluzione al problema della miopia nella pianificazione strategica è l’identificazione della natura del problema, delle capacità finanziarie e delle risorse umane della città.

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Uno dei consigli degli esperti è quello di passare da una logica di prodotto a una logica di marketing focalizzata sui bisogni dei pubblici di riferimento della città;

• mancanza di obiettivi condivisi e di cooperazione degli stakeholder. La maggior parte delle volte questo errore è commesso nei confronti dei residenti, che non vengono adeguatamente presi in considerazione nel processo di city branding. Dallo studio israeliano emerge che spesso gli stakeholder non vengono nemmeno identificati. Le città che si sonno distinte nella formulazione di strumenti adeguati di coinvolgimento degli stakeholder sono Tel Aviv, che ha consultato i residenti, i visitatori, gli imprenditori e altri interessati durante tutto il processo, e Pechino, i cui residenti, in occasione delle Olimpiadi, hanno giocato un ruolo importante imparando l’inglese e la mentalità occidentale per migliorare i servizi di accoglienza e ospitalità. Al contrario, gli autori hanno esaminato come bad practice due città statunitensi, ovvero Chicago, che ha perso l’occasione di ospitare le Olimpiadi del 2016 proprio per non aver saputo coinvolgere i residenti e non aver garantito le giuste infrastrutture e Città del Minnesota, etichettata come “città del buon vivere”, anche se cittadini e visitatori non riconoscono questo merito.

È possibile correggere questo tipo di errore definendo accuratamente il target, basandosi su caratteristiche demografiche e psicografiche al fine di identificare una linea guida tematica che possa raccogliere la voce di tutti i gruppi;

• minimizzazione del processo. Tra le best practice annoverate dagli autori c’è la città danese di Alborg, che ha impiegato cinque anni per lanciare il proprio nuovo brand. Invece, Milano e Città del Messico si sono imbattute in questo tipo di errore. Milano, in particolare, ha sottovalutato il processo, perché non ha avviato alcun dialogo tra gli stakeholder e ha fallito nell’etichettarsi come città sostenibile e dell’arte contemporanea. La soluzione a questo tipo di problemi è assicurare un dialogo aperto tra tutti gli stakeholder durante tutto il processo di branding;

• mancanza di focalizzazione su una posizione di mercato realistica e sostenibile. Molte città si sono posizionate con successo in alcune nicchie di mercato, come New York nello shopping, Francoforte negli affari, Boston negli studi universitari, Las Vegas nel divertimento, La Mecca nella religione, New Orleans nella musica, Firenze nell’arte, ecc. All’opposto, questo errore è stato compiuto da tutte le città israeliane presenti nello studio, tranne da Tel Aviv e Holon. Tutte le altre città hanno infatti scelto un posizionamento che non ne rappresenta realmente l’atmosfera. Al contrario, nel caso di Tel Aviv e Holon l’etichetta scelta (“città che non si ferma mai” la prima e “città dei

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bambini” la seconda) soddisfa i residenti, che hanno orgogliosamente aiutato ad incrementarne la diffusione.

La soluzione a questo problema è collegare le caratteristiche dei residenti alle risorse fisiche e umane della città. Bisogna infatti evitare che i vertici cittadini decidano l’identità della città basandosi sulla semplice intuizione;

• mancanza di comunicazione e commercializzazione del brand. Questo errore viene compiuto spesso perché vengono presi in considerazione solo i media locali e non quelli di più ampia visibilità, come è accaduto in otto città israeliane. Anche in questo caso hanno avuto successo Tel Aviv e Holon, perché hanno lavorato sui tre livelli di comunicazione.

La soluzione è quella di utilizzare tutti i canali media che usino un tipo di comunicazione interpersonale, che ha un grosso impatto nel comunicare genuinamente la città.

Anche Kavaratzis (2007) analizza i problemi più comuni dei processi di city branding. Uno dei problemi riscontrati è il legame tra il nation brand e i singoli brand urbani. Non è ancora ben chiaro se il brand nazionale debba essere trattato come un brand ombrello per quelli urbani o se debbano essere costruiti indipendentemente uno dagli altri. Dopodiché, una delle tendenze negative ha spinto la teoria e la pratica a concentrarsi sulle tematiche inerenti al solo turismo, che è solo una delle priorità per una città. Inoltre, vi è una scarsa integrazione tra le discipline interessate al city branding, come il marketing, l’urbanistica e la politica urbana; la maggior parte delle città fallisce nell’integrazione delle tre dimensioni e finisce per focalizzarsi solamente su una o due di esse. Morgan sostiene che il city branding sia ormai in una fase matura, perché stanno emergendo approcci più critici e che scrutano nuovi aspetti socioculturali e politici, il che complica ancora di più il problema dell’integrazione delle varie discipline. Un altro problema che i vari autori tendono a sottolineare fermamente è dato dalla confusione tra la strategia di branding e le semplici attività promozionali.

Dal punto di vista pratico, il piano strategico non è privo di rischi. L’eccessiva formalizzazione dei processi potrebbe portare alla perdita di vista degli obiettivi, alla mancata considerazione dei mutamenti del contesto e alla reale efficacia o necessità delle azioni. Inoltre, si corre il rischio di trasformare gli obiettivi in routine e, di conseguenza, di dare per scontato sia gli obiettivi che gli strumenti di realizzazione degli stessi. In più, un pericolo è quello di trasformare il monitoraggio dei risultati in un’ispezione, che si limita a constatare e non migliora il processo. Un altro errore spesso commesso dalle amministrazioni urbane è la millantata partecipazione di tutta la popolazione urbana, che maschera una semplice comunicazione unilaterale di decisioni assunte univocamente. Infine, vi è il pericolo che la

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governance concentri gli sforzi più sulla formulazione del piano che sull’attuazione concreta dello stesso.