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M. Kin Gagnon, 2010, p.44.

2.3 Etico Vs Estetico

Una polemica necessaria: Bishop vs Kester: Artforum 2006

La partecipazione relazionale di Bishop: ovvero partecipare ma non toccare. Quando la partecipazione rimane nel limite della sua concessione.

Sul versante statunitense, la critica SEA non è mai stata svincolata dalla sua pratica e fin dai primi anni ’90, basti pensare al testo di Suzanne Lacy Mapping the Terrain o semplicemente al catalogo di Culture in Action, il discorso si è costruito in maniera attiva. A partire dagli anni Duemila, quando ormai una serie di pratiche avevano per così dire sedimentato e creato le basi per lo sviluppo di un nuovo discorso, si è iniziata a sviluppare una critica complessa legata anche agli sviluppi sociali del momento che non potevano non tenere in conto, tra le altre cose, di un ritorno importante dell’attivismo. Si è venuta a creare così una sorta di scissione in merito al pensiero sulle pratiche che oscillava tra il valore estetico dell’opera finale e la portata etica dell’intervento in tutto il suo processo. A questa critica ha fatto seguito anche una volontà di storicizzazione volta all’inserimento della SEA all’interno di un quadro storico artistico. Le figure di Grant H.Kester e Claire Bishop, rispettivamente per il versante etico e per quello estetico summarizzano queste due tendenze.

Partiamo dunque dall’articolo che ha maggiormente portato alla luce - anche per l’eco che ha saputo creare - questa nuova tensione interna. Nel febbraio del 2006 Claire Bishop pubblica The Social Turn: collaboration and it discontents sulla rivista Artforum innescando un interesse molto forte in merito alla svolta sociale nel suo rapporto con il nuovo approccio etico e la continua necessità di darsi come opera estetica. L’approccio molto diretto e affermativo della critica inglese ha portato alla risposta di Grant Kester innescando poi a sua volta una successiva contro risposta (maggio 2006). A “scontrarsi” non sono solo due formazioni storiche-filosofiche-critiche differenti, bensì due mo(n)di opposti che posizionano il punto di partenza delle loro teorie su punti che sono inconciliabili e irriducibili ad una reciproca mediazione. L’ethical imperative che per Bishop moralizza la critica artistica, per Kester rappresenta quasi una responsabilità, una condizione che diventa essa stessa opera-totale proprio nel momento in cui deve informare l’intero processo di creazione partecipata. C’è un’irriducibilità di fondo, che del resto emerge immediatamente dalla risposta di Kester, a dimostrazione di come nessuno dei due critici sia pronto a contrattare una posizione di incontro.

Se possiamo individuare in maniera, per così dire, generale le maggiori differenze tra arte relazionale e arte partecipata nel rispettivo rapporto che instaurano con l’istituzione e con il pubblico, possiamo notare come, invece, Bishop tenti un’azione di bilanciamento tra le ragioni dell’istituzione-interna-estetica e quelle della necessità di un’apertura partecipata- esterna. Nelle parole di Bishop prevale, però, un atteggiamento maggiormente conservativo in linea con il recupero di una certa linearità storica artistica che trova le sue basi, in particolare, nel rapporto instauratosi tra artista e pubblico durante il periodo delle avanguardie storiche. Del resto l’atteggiamento di Bishop verso le pratiche sociali assume fin dal suo titolo una connotazione, se non del tutto negativa, di certo non empatica. Il turn di cui parla la critica può essere letto, infatti, non tanto come svolta quanto piuttosto come ripiegamento verso una tendenza che, agli inizi degli anni 2000, si stava sempre più rafforzando fino ad arrivare, da li a pochi anni, ad un livello main stream. Questo turn può essere letto poi come il tentativo di riportare il discorso seppur partecipato, verso una dimensione maggiormente estetica, ovvero, richiamare l’arte alle sue particolarità intrinseche, anche e soprattutto problematiche, che si disvelano tramite/nell’opera.

L’operatività e la processualità, nel discorso della critica inglese, non devono svilire l’estetica dell’artista e la sua scelta autoriale. Proprio su questi due punti si instaura la querelle/polemica con il critico americano Grant H. Kester. Per Bishop, infatti, lo spostamento dell’arte all’interno di un regime etico anziché estetico comporta una serie di aggiustamenti che privano, in una costante tensione alla negazione-relazione- partecipazione, l’arte stessa di una sua certa autonomia. Questa autonomia, viene da sé, garantisce in un certo qual modo l’indipendenza e allo stesso tempo giustifica la necessità della critica come atto dipanatore e creatore di senso. L’atto critico, proprio quello che Bishop esercita in questo suo scritto, tende a diluirsi soprattutto a livello mono-metodologico in una arte allargata e partecipata dove entrano in gioco una serie di capacità e comportamenti che prescindono dal mondo accademicamente artistico, difficili da giudicare con il solo strumento della scrittura critica. L’ethical imperative entra nella creazione artistica e di conseguenza si pone come forma di giudizio sull’opera/ operazione stessa. Questo testimonia come tale spostamento si riveli/compia una rottura nell’autonomia dell’arte e della sua critica nel momento esatto in cui mette sul tavolo una serie di atteggiamenti che investono l’artista innanzitutto come essere umano: “What serious criticism has raisen in relations to socially collaborative art has been frame in a particular way: The social turn in contemporary artis prompted an ethical turn in art criticism. This is manifest in a heightened attention to how a given collaboration is undertaken. In other words, artists are increasingly judged by their working process - the degree to which they supply good or bad models of collaboration - and criticized for any hint of potential exploitation that faille to “fully” represent their subjects, as if such a thing were possible. This emphasis on process over product (i.e., means over ends) is justified as oppositional to capitalismi’s predilection for the contrary. The indignant outrage directed at Santiago Sierra is a prominent example of this tendency, but it has been disheartening to read the criticism of other artists that also arises in the name of this equation: Accusation of mastery and egocentrism are leveled at artists who work with participation to realize a project instead of allowing it through consensual collaboration.”130

C’è un cambio di paradigma che formalizza la domanda che si poneva durante Places with a Past Mary Jacob nel 1991. A nome di chi parla l’artista? Il paradigma della questione del pubblico, inteso nella sua attività agente, era stato messo in movimento dalle azioni SEA dei primi anni ’90 e ora inizia ad essere affrontato da una prospettiva critica opposta che cerca una definizione proprio lì dove sembra non esserci data la complessità interdisciplinare del campo d’azione. Il pubblico non più spettatore, nel discorso di Bishop, si sostituisce all’esperto, tanto l’artista quanto il critico, privando il discorso di un suo metalinguaggio basato sull’auto referenzialità di un mondo eminentemente storico-artistico.

Bishop pone la questione, dunque, in maniera dicotomica separando nettamente il momento della produzione da quello della fruizione adottando la metodologia storica comparativa per un qualcosa di estremamente vivo e complesso e toccando punte di un certa nostalgia “reazionaria”. La cronologia degli interventi SEA mostra, invece, la convergenza di tali pratiche con lo sviluppo e la svolta digitale, lo sviluppo globale di internet e successivamente la nascita di piattaforme di broadcast e social capaci di creare una mentalità in cui il fare e il fruire vengono messi su di uno stesso piano creando nuove

C.Bishop, The social turn: collaboration and its discontents, Artforum International, febbraio, 2006, p.

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capacità cognitive che a loro volta hanno influenzato le pratiche. Nel j’accuse di Bishop verso la collaborazione e la partecipazione intese come pratiche anti estetiche si potrebbe notare una volontà di ricomposizione teorica non più adeguata. Quello che si evince da questo articolo è una difesa dell’estetica messa sotto scacco da una società che nel momento in cui decide di riprendersi o creare spazi di interazione sociale piega l’estetica stessa a dinamiche ad essa estranee come per l’appunto la questione morale/ etica. All’interno della SEA, come dimostrato dagli esempi americani, l’eticità dell’intervento diventa un pre-requisito necessario per confrontarsi con il sociale.

Il punto di vista di Bishop è mono-settoriale, prettamente critico-artistico e sembra non prendere in esame le teorie di quelle pratiche che vedono un netto spostamento delle operazioni artistiche verso una dimensione antropologica, etnografica e sociologica. Anche da un punto semplicemente storico, il lavoro di Stephen Willats già nei primi anni ’70, si proponeva di indagare il ruolo dell’artista come istigatore di un cambiamento cognitivo e per far questo l’artista inglese si avvalse spesso di questionari e diagrammi desumendoli da una certa indagine tipica della ricerca sociale.

Negli esempi che la critica inglese riporta, la ricerca di qualità estetica rimane sempre come sottofondo costruttivo della sua teoria creando, a mio avviso, un discorso pregiudiziale su una serie di operazione che evidentemente non sono affini al suo gusto personale. Quello che Bishop esprime attraverso la costruzione del suo discorso è esattamente il limite che rimprovera alle pratiche collaborative e partecipative nel momento in cui esse si appiattiscono sul solo piano sociale, diventando così a-critiche e buoniste e dunque non esprimendo, di fondo, un criterio di giudizio: “The discorsive criteria of socially engaged art, at present, drawn from a tacit analogy between anticapitalism and the Christian “good soul”. In this schema, self-sacrifice is triumphant: The artist should renounce authorial presence in favor of allowing participants to speak through him or her. This self-sacrifice is acchompaneid by the idea that art should extract itself from “useless” domain of the aesthetic and be fuse with social praxis.”131

Secondo Bishop tale modalità sarebbe incapace di far riflettere o creare contraddizioni venendo meno al principio espresso dal filosofo Jacques Ranceire, che lei stessa cita, per il quale il sistema dell’arte occidentale si basa proprio su sulla costante confusione e contraddizione tra l’autonomia dell’arte e la sua eteronomia.

Sono emblematici, del resto, i casi studi che Bishop usa per spiegare/descrivere tale divisione e sottolineare, così, le lacune di quegli artisti che, dedicati ad un lavoro di impegno sociale, denigrano o per lo meno non mettono in risalto la valenza estetica. Da una parte, per il “regime” degli estetici, abbiamo Jeremy Deller quasi eletto a modello da Bishop, e dall’altra il collettivo delle artiste turche Oda Projesi.

I due casi studio, a mio avviso però, dimostrano un vizio di forma iniziale se così si può dire, ovvero, provengono e vogliono arrivare a due sfere completamente diverse di significato e di pubblico.

Oda Projesi (in turco stanza progetto) è un gruppo formatosi nel 2000 composto da tre artiste, Özge Acıkkol (1976), Günes Savas (1973) e Secil Yersel (1975), le quali usarono il loro appartamento nel quartiere Galata, a Istanbul, come piattaforma per l’attivazione di progetti con il vicinato e con la comunità locale. I loro lavori si basano soprattutto su

C.Bishop, The Social Turn, op. cit., p.183.

laboratori per bambini, incontri, scambi e tavole rotonde. L’appartamento è stato usato come spazio indipendente no profit fino al 2005 quando le artiste, come loro stesse scrivono sul loro blog, hanno ricevuto lo sfratto a causa del processo di gentrificazione che aveva portato all’aumento dei costi di affitto.132 La loro ricerca, potremmo dire, è stata improntata alla perifericità da un certo tipo di sistema d’arte contemporanea. Dal 2005 non avendo più lo spazio fisico dell’appartamento come punto centrale della loro ricerca, le artiste hanno iniziato a condurre una serie di ricerche nomadiche continuando sempre ad interessarsi di temi politici e sociali, dalla gentrificazione - sfociata poi proprio ad Istanbul nel movimento di Gezy Park - al tema della maternità legata alla produzione artistica e a quello dell’immigrazione.

Jeremy Deller, artista londinese classe 1966, invece, parte proprio dal linguaggio codificato dell’arte, in particolare performance e scultura, per sviluppare un discorso circolare che, pur inglobando contesti diversi con pratiche partecipative, si conclude e si esprime all’interno del mondo dell’arte. Non potremmo inserirlo a pieno titolo all’interno di una nuova ondata di institutional critique, in quanto molte delle sue operazione avvengono al di fuori del museo stesso, ma di certo potremmo definirlo come un artista attento ad un determinato linguaggio ambiguo in grado di essere trasportato, in alcuni casi criticandolo, all’interno dell’attuale sistema dell’arte contemporanea. Nel 2004 Deller ha vinto il Turner Prize, il premio al miglior artista britannico, nel 2009 un suo lavoro è stato prodotto da creative Time e nel 2013 ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia.

È quindi difficile trovare una coerenza nell’applicazione dei criteri di Bishop ad un gruppo come Oda Projesi, che come riporta la stessa Bishop in seguito ad un’intervista con le artiste, ritengono la parola estetica pericolosa e dunque cercano di non farla entrare in gioco nelle loro azioni: “Indeed, because their practice is based on collaboration, Oda Projesi considera aesthetic to be “a dangerous word” that should not be brought into discussion.”133

Bishop ha messo di fronte due tipologie di artisti completamente differenti perpetrando così la classica dicotomia tra dentro fuori e, in questo caso particolare, tra militanti e sistemati/sistemici (nel senso di inseriti in un certo tipo di discorso). Oda Projesi a sua volta è inserito in un sistema, quello per l’appunto della critica e pratica artistica su base sociale-civile che si è venuto a creare proprio a partire dal consapevolezza di una serie di determinare pratiche che, sempre più a partire dagli inizi degli anni 2000, hanno costruito una loro rete fatta di spazi alternativi, critici di riferimento e città di produzione. Un sistema, insomma parallelo a quello in cui Jeremy Deller muove i suo passi e dal quale viene riconosciuto. È come dire, per brutalizzare al massimo la questione e rendere palese il nocciolo della questione, che Bishop analizzi due sistemi diversi basandosi su di

Oda Projesi is an artist collective based in Istanbul; composed of Özge Açıkkol, Güneş Savaş and Seçil

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Yersel who turned their collaboration into a project in 2000. From January 2000, their space in Galata functioned as a non-profit independent space, hosting projects, gatherings and acts up until march

16th2005, when Oda Projesi was evicted from the apartment due to the process of gentrification. Since then

Oda Projesi has a mobile status and not any more space based; continues to raise questions on space and place creating relationship models by using different mediums like radio stations, books, postcards, newspapers or giving form to different meeting points; depending on and respecting to the creativity of Istanbul and its citizens.

http://odaprojesi.blogspot.com/search?updated-max=2009-05-24T03:40:00%2B03:00&max- results=100&start=39&by-date=false

C.Bishop, The Social Turn, op. cit., p.180.

un unico paradigma come a dire che le regole del calcio e quelle del basket sono le stesse solo perché sono sport basati sull’uso di una palla. Un punto di convergenza tra questi due mondi, ma al momento in cui Bishop scrive l’articolo non si era ancora verificato, è quello riferito a Creative Time. Creative Time è un agenzia di produzione artistica americana, attualmente diretta da Nato Thompson (2018), che realizza e cura progetti pubblici e partecipati. Rappresenta per certi aspetti il lato main stream della SEA, la sua diffusione globale nonché la sua politica di esposizione culturale. Nel 2009 Creative Time ha prodotto il lavoro di Jeremy Deller It Is What It Is così come Oda Projesi è stato invitato a prendere parte al summit Creative Time Summit (Confronting Inequity, New York, 2012).

Tornando alla questione estetica, in chiusura della descrizione del lavoro di Oda Projesi e dopo avere citato la loro intervista Bishop si pone la domanda, “se l’estetica è pericolosa non sarebbe, allora una ragione in più per interrogarla?” A mio avviso questo dimostra come a priori Bishop non veda interrogazioni estetiche pericolose all’interno di lavori partecipativi e collaborativi dal momento che non si accorge che, seppur in mancanza del sostantivo estetica questa tipologia di interventi rivela una serie di problematiche all’interno delle quali la stessa estetica acquisisce, anche in virtù di un suo certo rifiuto, un ruolo molto importante. Non definirsi/essere estetici non significa il disinteresse verso l’argomento ma la consapevole rinuncia a tale termine.

Una volta messo in luce questo pregiudizio il discorso della Bishop si costruisce attraverso l’esempio di lavori dove la tematica del sociale viene sempre rappresentata e simboleggiata e mai indagata sul suo piano reale. Rappresentata, per l’appunto, e mai agita in presenza. Il passaggio estetico che, secondo Bishop, l’arte partecipata e collaborativa deve compiere sta in una sorta di simulazione del reale in un sua rilettura attraverso l’arte e con i linguaggi dell’arte per rimanere, così, in un costante equilibrio con le ragioni di un estetica insita e latente negli stessi processi politici e sociali.

Non è si può indagare il sociale senza estetica, né tanto meno lo si può fare in assenza di prossimità ed empatia. È compito dell’arte rendere evidente l’implicito del sociale e del politico a patto, però, di restarne a distanza. È proprio questa politica della distanza (di sicurezza) che divide nettamente la critica di Bishop da quella di Kester che, come si vedrà nella sua risposta, ragiona su un piano altro basato sull’immersione e propensione allo scambio disciplinare. La costruzione del discorso di Bishop si basa poi, e questo è davvero un ottimo esercizio di critica per capire le definizioni delle varie scuole di pensiero, su di una serie di riferimenti critici e artistici in contrasto con la proposizione di una pratica artistica sul campo, ovvero la ex pratica militante.

Bishop utilizza più volte come riferimento il testo della critica coreana statunitense Miwon Kwon One Place After Another pubblicato nel 2002 così come sul versante artistico sceglie, oltre al citato Deller, Thomas Hirschorn, Phil Collins, Carsten Holler e il polacco Artur Zmijiewski. All’interno di questa mia ricerca dottorale sugli sviluppi e le origini della SEA, dove il 1993 rappresenta l’incipit temporale, gli Stati Uniti quello spaziale e Culture in Action quello “pratico”, Miwon Kwon rappresenta una delle maggiori detrattrici dell’operazione curata da Mary Jane Jacob. Kwon criticò aspramente i criteri della curatrice in merito alla questione della comunità continuando, così, la riproposizione di una critica interna - ovvero quella che condotta attraverso una determinata posizione critica, non dialogica, porta avanti un punto di vista ben determinato e in assenza di corrispondenze verso tale punto tende ad esprimere un giudizio sulle qualità extra artistiche dell’operazione - iniziata già da Hal Foster nel suo Il Ritorno del Reale (1996)

che criticava a sua volta CIA per l’attivazione più o meno diretta di processi di gentrificazione.

Del resto in Bishop in questo suo testo non fa nessun riferimento alle operazioni di CIA che invece sono alla base di pratiche collaborative e partecipative d’impegno sociale spostando la cronologia direttamente agli anni Duemila. L’incipit del suo articolo inizia infatti con la presentazione dei progetti di artisti come: Superflex (1999), Annika Eriksson (2003), Jeremy Deller (2003), Lincoln Tobier (2002), Atelier Van Lieshout (2001), Jeanne Van Hesswijk (2001-2004), Lucy Orta (a partire dal 1995), Temporary Service (2005) e Pawel Althamer (2002). E al primo paragrafo si legge “This catalogue of project is just a sample of the recent sorge of artists interest in collectivity, collaboration, and direct engagement with specific social constituencies.”134

Discorso simile, anche se l’evidenza si sarebbe dimostrato in futuro, quello relativo ad Artur Zmijiewski. L’artista infatti nel 2013 è stato il curatore della Biennale di Berlino, Forget Fear. Il gioco dell’ambiguità estetica è stato in quell’occasione presentato