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William Bunge Fitzgerald, ovvero, l’importanza di essere nel luogo.

M. Kin Gagnon, 2010, p.44.

3.1 William Bunge Fitzgerald, ovvero, l’importanza di essere nel luogo.

Se finora abbiamo inquadrato e più volte sottolineato la radice statunitense della SEA è perché, oltre alle operazioni artistiche, vi è un approccio di base alla concezione di community, interdisciplinare e “unico”sia a livello di ricerca quanto di azione. Tale approccio è multilaterale e, se da un punto di vista filosofico raggiunge la sua teorizzazione (indiretta) con l’esperienza secondo Dewey, da un punta di vista della ricercazione trova una sua chiara espressione con il lavoro del geografo americano William Bunge. Se da un lato, infatti, una certa interdisciplinarità della pratica artistica nel sociale - con diverse sfumature a seconda che venga chiamata SEA o public art - è ormai riconosciuta, quello che oggi anima il discorso critico è il piano metodologico. L’interdisciplinarità di queste pratiche, ad esempio, è data dall’utilizzo di diversi strumenti/ media e punti di vista: lo strumento questionario utilizzato da Stephen Willats nella sua survey di West London (1973), l’impegno politico con il partito formato da Joseph Beuys e l’azione civile con le operazioni di Mierle Laderman Ukeles (Maintenance Art Performance Series 1973-74). Quello che però rappresenta, a mio avviso, una vera e propria operazione/lezione di metodo non arriva da un artista bensì da un geografo: William Bunge.

Prima di entrare nel merito del suo testo Fitzgerald: Geography of a Revolution (1971) voglio esplicitare il perché di questa mia scelta, ovvero, il perché della scelta di un geografo per la definizione di un metodo di indagine artistica all’interno di una comunità (di una data porzione di realtà). Come cerco di dimostrare in questa tesi, la teoria e la critica della SEA non derivano dal campo artistico propriamente riconosciuto ma sono la messa a rete di una serie di pratiche e discipline unite insieme in una sorta di afflato civile (una sorta di afflato perché il giudizio su cosa sia “migliorativo” è molto soggettivo) che ha visto - in maniera sistematica a partire dagli anni 90 - gli artisti compiere un’operazione di sintesi visuale. Soprattutto, la somma di queste nuove discipline ha rimodellato la figura stessa della critica in maniera attiva e immersiva nei confronti dell’oggetto/soggetto studiato.

Nonostante tutte le particolarità dei singoli casi, contesti e approcci, una costante di base sembra sempre necessaria affinché un intervento possa definirsi impegnato/rivolto al sociale, ovvero, la comunità. Questo mi spinge ad una ulteriore specificazione o divisione all’interno del concetto di comunità, ovvero, la comunità non è lo spazio pubblico. Se non c’è interazione tra organismo e ambiente - come direbbe Dewey - non si ha una comunità e la pratica SEA di cui ritengo Bunge un inconsapevole “fondatore” metodologico si dà nel suo costruirsi in una relazione complessa tra questi due fattori. Sulla scia di Dewey e con la sempre più preponderante attenzione oggi rivolta alle scienze mediche potremmo dire che la comunità che Bunge delinea è un microbioma, ovvero, l'insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi di un ambiente definito.

La definizione di un ambiente e le sue interazioni sono le coordinate metodologiche che Bunge ci ha lasciato. Il concetto di comunità non si esaurisce unicamente attraverso il lavoro di Bunge ma anche attraverso la sua relazione - quasi dicotomica - con il testo di Robert Putnam, Bowling Alone: America's Declining Social Capital, pubblicato sul Journal

of Democracy nel gennaio del 1995 in un contesto “temporale” cruciale per la “sistematizzazione” della pratica SEA.236

Gli studi di Bunge e Putnam, in un certo senso - proprio nella loro diversità di fondo - si completano mettendo in gioco due anime delle stessa nazione. Da una parte Bunge con la sua ricerca periferica e mirata della comunità afro-americana nell’apice della lotta per i diritti civili e dall’altra Putnam con le sue ricerche e statistiche sull’involuzione del senso comunitario della middle class prevalentemente bianca in un momento storico iper- compresso tra fine Guerra Fredda, Guerra del Golfo e l’elezione del presidente Bill Clinton (questo si riferisce solo al momento della prima pubblicazione).

Non solo questi due testi ci offrono metodologie e prospettive sociali differenti ma soprattutto mostrano il percorso che tra gli anni Settanta e i primi Novanta passa dal punto massimo di coesione a quello di disgregazione nel concetto di community restituendoci quello che doveva essere l’ambiente sociale nel momento in cui la SEA ha iniziato a svilupparsi.

All’analisi di questi due testi “non artistici” si accompagnano i testi di Stephen Willats (1973) e Grant H.Kester (1995) che invece mettono in pratica e in critica il discorso sulla comunità partendo dal punto di vista “propriamente” artistico. Le cronologie corrispondono con quelle di Bunge e Putnam e ne rappresentano gli esiti nel campo artistico. Il testo di Willats, The Artist as an Instigator of Changes in Social Cognition and Behaviour ( 1973), crea una continuità con il discorso di Bunge soprattutto per quello che riguarda il dissidio tra bisogni indotti e bisogni reali di una determinata comunità. Willats, pur essendo inglese, condivide la stessa terminologia community-based iniziata da Bunge e la sua ricerca su quattro diverse aree sociali di West London dimostra la stessa attenzione per l’essere-nel-problema portata avanti da Bunge a Fitzgerald. A dispetto della coppia Putnam-Kester quella Bunge-Willats rivela ancora una fase iniziale del rapporto con la comunità nella sua capacità di costruirsi/ricostruirsi rispetto a dinamiche urbanistiche e razziali. In Bunge-Willats vengono messe le basi per una collaborazione attiva tra ricercatore/artista e comunità in un momento in cui la società non è si è ancora massificata e il discorso capitalista e globalizzante sembrava essere ancora “lontano”. Inoltre in questa loro attività pratica Bunge-Willats condividono la stessa fiducia nel fare e proprio grazie alle loro azioni delineano una nuova figura di ricercatore e un nuovo campo di ricerca.

La coppia Putnam-Kester si confronta, invece, con un dato di fatto ovvero il nuovo assetto politico-sociale che la società neo liberista ha messo in atto. Nei loro testi la consapevolezza politica è molto marcata e la comunità è inserita all’interno di un processo di disgregazione in atto. Tale disgregazione della società americana è causa ed effetto del community disangagement - dal momento che le diverse comunità come sosteneva Bunge ne rappresentano l’identità complessiva - e viene esaminata da due punti di vista diametralmente opposti. Dal punto di vista di Putnam il social disangagement dipende da fattori non sistematici mentre per Kester la perdita della fibra sociale è un discorso demagogico portato avanti dall’agenda politica conservatrice con l’intento di “scaricare” le colpe su una certa umanità incapace di auto realizzarsi o per lo meno di compiere quello sforzo necessario per migliorare la propria condizione. Il dato interessante che si può leggere nelle due coppie è il frutto di un cambiamento socio

A questo saggio farà seguito il libro, sempre dello stesso Putnam, Bowling Alone: The Collapse and 236

politico che, se negli anni ’70 immaginava di poter costruire la socialità in maniera partecipata e orizzontale, agli inizi degli anni ’90 si era ampiamente mostrato come verticista ed escludente. In questo passaggio l’attenzione per la comunità diventa sintomatica di un certo atteggiamento di “sussistenza” atto a colmare proprio un vuoto di politiche. Il tema della definizione stessa di cosa sia una comunità acquista poi le sfumature legate soprattutto al concetto di comunità coerente inserita all’interno dei processi urbani dove tematiche precedenti come, etnia, linguaggio, religione, luogo e classe sociale, lasciano lo spazio ad una maggiore consapevolezza ed autodeterminazione.

La comunità della coppia Bunge-Willats è estremamente marcata e collocata. La comunità di Bunge è quella afro americana di un determinato quartiere sotto proletario di Detroit. Quella di Willats è divisa nelle quattro zone di West London è formata da altrettanto specifiche classe sociali (Upper Middle Class, Middle Class, Lower Middle Class, Working Class) che si definiscono a loro volta rispetto al luogo di appartenenza. La comunità di cui parla Kester, invece, è quella con cui gli interventi SEA propriamente detti hanno iniziato le loro pratiche. Vale a dire una comunità multietnica suddivisa a sua volta in micro comunità che hanno definito la loro appartenenza attraverso una teologia negativa nei confronti di un apparato statale che non le riconosceva. Oltre alle costanti comunità etniche, i latini, gli afro americani - per citare le comunità maggiormente “praticate”- iniziano a comparire comunità al margine composte da provenienza etnica e credenza religiosa irrilevante ai fini della loro aggregazione. La comunità carceraria, al pari di quella dei senza tetto e dei malati di AIDS, diventano centrali per una pratica che, mentre inizia a definire le proprie modalità operative, deve fare attenzione alle restrizioni terminologiche che tali operazioni - più o meno in maniera involontaria - possono generare. Inizia così una fase di richiesta di un’analisi critica in grado di riscrivere le modalità d’intervento – nonché i suoi presupposti - all’interno di un contesto che non può né essere targhettizzato né ostentato come spazio monolitico d’azione. Lo spostamento dal monumento al momento partecipato, come indica la direzione della new genre art, non equivale allo spostamento del pubblico della nuova arte contemporanea bensì alla scoperta di nuovi pubblici urbani lontani da un certo tipo di discorso autoreferenziale. La domanda sul ruolo dell’artista come delegato di una determinata comunità (Kester) mette del resto in guardia dall’impossibilità di ogni qualsivoglia facile equazione e trasposizione delle dinamiche studio-art in un contesto community-based.

3.1.1 La ricerca nel quartiere per una geografia controversa.

La figura di William Bunge (1928-2013) è una figura complessa - ancor di più se paragonato a Putnam - presentato spesso come studioso tanto burbero quanto eccentrico, attivista, intransigente e con un quid di complottismo nel sangue. Nick Haynen che insieme a Trevor Barnes ha curato la riedizione del 2011 di Fietzgerald, racconta del curioso messaggio che Bunge lasciò sulla sua segreteria telefonica. Il messaggio diceva: “Maybe you will and maybe you won’t. My name is William Bunge and I am a Communist.”237

Bunge è stato il primo geografo ad interessarsi del concetto di Inner City. Prima dei suoi studi la Inner City (periferia), seguendo quanto “stabilito” dalla Chicago School, rappresentava la così detta “zone of assimilization”: “Immigrants entered in the inner city, socialized, acculturated and then move out.”238 Se questo poteva valere per gli immigrati europei, il discorso era molto diverso per le comunità afro americane che, passate alle grandi città del nord tra gli anni ’40/60, non ne erano più uscite. Inoltre a differenza degli immigrati europei gli afro americani erano già in America da generazioni. Questo che ad oggi sembra un dato di fatto evidente, allora, agli inizi degli anni ’60, non era considerato rilevante ai fini dello studio della geografia urbana. Prima degli anni ’50 lo stesso Bunge cercava nella geografia principi assoluti basati su di una sorta di perfezione matematica. Pur riconoscendo questa sua volontà ordinatrice, Bunge agli inizi degli anni ’60, si dimostrò particolarmente attento e permeabile ad un contesto sociale che stava iniziando ad incrinarsi. Le particolarità concrete, così, presero per Bunge lo stesso valore delle astrazioni universali e attraverso le proteste di quegli anni, Bunge scoprì il concetto di immediacy (urgenza).

Nel 1962 Bunge venne assunto dalla Wayne State University (Detroit) e fin da subito scelse come campo d’azione, per il suo nuovo approccio geografico, il quartiere periferico a maggioranza afro-americana di Fietzgerald dove decise anche di trasferirsi a vivere. Furono però le proteste del luglio 1967 in pieno clima Civil Right ad ispirare Bunge successivamente di fondare - a cavallo tra il 1968-69 - il DGEI (Detroit Geographical Expeditions Institute). Proprio attraverso il DGEI, Bunge inizia a sperimentare una nuova metodologia in grado di fondere, attraverso lo strumento della mappa, il dato geografico con quello soggettivo e vivo di chi abita proprio lo spazio urbano. Un gruppo di ricerca formato essenzialmente da studenti e docenti bianchi in un quartiere nero poteva sembrare l’ennesimo atto di colonialismo culturale nonché un atto di estremo voyeurismo. Gli intenti di Bunge legavano però la sua geografia ai nuovi esiti di una pedagogia radicale che vedeva nell’educazione - in quegli anni Paulo Freire pubblica il testo fondamentale Pedagogia degli oppressi (1968) - il passaggio necessario per una liberazione e auto affermazione. Questa pedagogia sperimentale si dava sul campo attraverso la conversazione, il dialogo e l’ascolto tra residenti e studiosi. Attraverso questa esperienza condivisa l’azione della mappatura inizia ad assumere un valore di partecipazione e co- progettazione. Secondo Haynen e Barnes, proprio questa propensione all’esperienza condivisa come momento trasformativo dimostra un’influenza del pensiero pragmatista americano: “[…] there a strong strains of American pragmatism to his project. For

N.Haynen, T. Barnes, Fitzgerald Then and Now, in, W. Bunge, Fitzgerald. Geography of a Revolution, 237

The University of Georgia Press, Athens and London, 2011 [I ed. Schenkman Publishing Company Inc. 1971], p.2.

Loc. cit. 238

pragmatist, to make it through life successfully, we must be open to new ideas, to be ready to listen and to learn, try new things and experiment.”239

Così, nel 1969, Bunge descriveva DGEI e il ruolo dell’ expedition: “Lo scopo dell’ expedition è quello di aiutare la specie umana nella maniera più diretta possibile. Non si tratta di geografia pulita (nice) né tanto meno di una geografia dello status quo. È una geografia che vuole produrre uno shock dal momento che include la gamma completa delle esperienze umane sulla faccia della terra; non solo le zone di svago e i parchi ma anche quelle degradate; non solo il benessere ma la povertà: non solo il bello ma anche il brutto….è anche democratica in opposizione ad un expedition elitaria. Le persone del posto devono farne parte tanto quanto gli studenti e i professori. Non saranno più sfruttati. Il loro punto di vista avrà la precedenza.”240

Il lavoro di Bunge assume così quasi il ruolo di una missione guidata da una disciplina, la geografia, che viene intesa come mezzo di sviluppo. Come detto Bunge fu il primo ad occuparsi della questione della Inner City e per far questo prese parte alle manifestazioni e alle campagne di Fitzgerald al fine di superare un concezione statica dello studioso e superare il confine dello spettatore. Del resto - in piena sintonia con Dewey - la geografia di Bunge è “hands on”: “La geografia non appartiene ai soli geografi così come la medicina ai dottori. La gente, le persone comuni hanno il diritto di chiedere che le scuole di medicina formino medici competenti. Allo stesso modo il dipartimento di geografia deve essere responsabile delle persone tra le quali vive. I geografi accademici sembrano avere la presunzione di possedere la geografia. Se qualcosa è mal posizionata all’interno della città - la stessa città che ospita un dipartimento di geografia - gli accademici sembrano tuttavia non curarsene e non sentirsene responsabili. Anche nel caso tali malfunzionamenti dovessero interessare i figli degli accademici, cosa potrebbero fare? Perché qualcuno dovrebbe aspettarsi qualcosa da loro?.”241

Bunge non segna una differenza solamente rispetto agli “accademici” ma anche rispetto a quei movimenti artistici at large come Lettrismo e Situazionismo che, a cavallo degli anni ’50/’60 usavano la mappatura e la cartografia come metodologia per una ricostruzione e ricomposizione del soggetto all’interno dei meccanismi urbani.

Bunge, infatti, - non credo abbia avuto una conoscenza diretta di questi movimenti- è all’opposto del Situazionismo per quello che riguarda la cartografia. Non ha volontà decostruttive bensì costruttive, non si lascia sorprendere dalla città attraverso un processo errante e casuale bensì si immerge nelle discussioni e nelle vite di un dato microcosmo urbano.

N.Haynen, T. Barnes, op.cit., p.4. 239

W. Bunge, Fitzgerald. Geography of a Revolution, The University of Georgia Press, Athens and London, 240

2011 [I ed. Schenkman Publishing Company Inc. 1971], p.4. [Traduzione mia] Ibidem, p.5. [Traduzione mia]

3.1.2. Fitzgerald oltre il libro. Cosa lascia a livello di metodo e cosa è stato (indirettamente) ripreso dalla SEA.

Come premessa al testo bisogna riconoscere nella metodologia di Bunge un attivismo sincero e una partecipazione profonda che pervade l’intera struttura all’interno della quale l’oggettività della mappe e dei grafici devono essere letti con coerenza scientifica ma senza anestetizzare la vitalità della narrazione. Quella di Bunge è una vera e propria presa di posizione a favore della comunità afro americana di Fitzgerald permettendogli di andare oltre la geografia e superando anche i confini tra osservato-osservatore tipici dell’etnografia. Bunge più che un osservatore partecipante, infatti, è fulcro attivo esso stesso di dibattito e dialogo arrivando anche a superare il livello dell’empatia per immergersi con appassionata curiosità e lucida volontà programmatica nella vita della comunità. Questo atteggiamento informa poi una metodologia scrupolosa che non avrebbe ragione di essere se non nella completa fusione con l’ “oggetto” studiato. Il dato quantitativo rende chiaro e scientificamente corretto il discorso di Bunge la cui caratteristica principale rimane però l’immersione totale.

Bunge nell’enfasi del narratore-presente a volte “esagera” e cade in facili stereotipizzazioni riguardo alle altre culture: ebrei, italiani, polacchi e giapponesi in particolare. Questo suo atteggiamento funge quasi da monito per tutti coloro che, a partire da una prospettiva accademica, vogliano “cimentarsi” nel sociale: bisogna radicarsi e sposare in prima persona il “problema”anche a rischio di riprodurre determinati schemi. Un aspetto interessante del testo è, infatti, la sua mancanza di finzione. La sua scrittura non è mai diaristica nel senso che Bunge sembra non prendersi un momento - se non fosse proprio per la mappe e i grafici - tra la ricezione e la digestione di un determinato dato/fatto.242 Potremmo dire che la sua ricerca è costantemente sul campo, anzi, sulla strada perché è proprio lì che Bunge posiziona il suo studio. Il livello di immedesimazione con la causa coinvolge tutta la famiglia Bunge, moglie e due figlie una delle quali, Susan, diventa il “simbolo”dell’integrazione scolastica di Fitzgerald. Il tema dell’incontro tra razze/culture diverse viene portato avanti dalla prospettiva della comunità nera e legato - nelle sue derive segreganti - alla composizione stessa del quartiere sia in termini di servizi che in termini di strutturazione urbana e divisione della popolazione. Fitzgerald è l’esempio del ghetto (slum) dove una determinata tipologia di popolazione viene “costretta” per razza e stato sociale, o per meglio dire, una determinata condizione economica accomuna una determinata “razza” rafforzando così la creazione di una narrazione stereotipata senza possibilità di uscita. Il progetto di Rick Lowe Row Houses (1993, si veda capitolo 1) sembra proprio ripartire dalle conseguenze che il ghetto, a livello di impostazione urbana, ha generato sui suoi stessi abitanti.

Fitzgerald. Geography of a revolution, venne pubblicato per la prima volta nel 1971 ma in realtà il processo di pubblicazione non fu né immediato né semplice. Bunge finì la stesura del libro nel 1969 ma, come lui stesso ammise nella prefazione, non fu facile trovare un editore disposto a pubblicare un testo di geografia controversa (“controversial” geography). La controversia non riguardava solo il contenuto ma anche le sue caratteristiche formali. Se da un punto di vista contenutistico Fitzgerald poteva risultare

Anche le didascalie delle foto servono a Bunge per esprimere la sua presa di posizione come, ad 242

esempio, in merito alla questione degrado. La didascalia VIII-8 (Chapter VIII: Fitzgerald Plans) accompagna una foto raffigurante una serie di macchine abbandonate al lato di una strada sterrata. Bungle descrive così la foto: “Junked cars in Fitzgerald. For generations white folks have been junking their cars in black

neighborhoods. White Detroit dumps its garbage, its prostitute seeker, its drug addicts, its pollution on black Detroit; why not its old cars?”, in W.Bunge, op. cit., p.147.

inappropriato in quanto apertamente schierato con la comunità afro-americana nella richiesta di un futuro migliore243 da un punto di vista tecnico la difficoltà era data dall’utilizzo di più “media”: il punto di vista dell’autore, le interviste e il materiale grafico