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M. Kin Gagnon, 2010, p.44.

1.6 Places with Past Operazioni 

Artista - Hann Hamilton Titolo - Indigo Blue

Il dialogo che Hamilton instaura con la città di Charleston è datato 1744, ovvero, quando Eliza Lucas Pickney introdusse l’indaco nella produzione agricola della Sud Carolina portando lo stato a produrre un terzo del valore totale delle esportazioni fino allo scoppio della guerra d’indipendenza americana (1775). L’indaco/blue emerge dalla tonnellate di camicie accatastate in una pila informe all’interno del Mike’s Garage, il luogo che Hamilton aveva scelto per il suo intervento. Qui l’artista  è  intenta in un’operazione di piegatura e  “impacchettamento”  di ogni singola camicia. Il  dialogo  che emerge con la storia e la tradizione è muto ma presente/possente. Così come la forza lavoro manuale, i blue collar, gli impiegati da catena di montaggio che   Hamilton vuole evocare. Sono loro a rappresentare una marginalità  storica soprattutto all’interno di un contesto schiavista come quello della Charleston confederata. Il loro essere semplicemente corpi ne annulla i nomi e di conseguenza ne annulla il ricordo storico individuale per questo, oltre all’atto della piegatura, l’artista inserisce anche quello della cancellazione. Dietro la pila di vestiti, infatti, su di un tavolo disadorno giace un libro di storia. Ognuno  è  chiamato ad usare una gomma da cancellare e la propria saliva per eliminare la narrazione riportata, per cancellare il corso di una serie di eventi dove la marginalità non è contemplata.

A queste due azioni si unisce poi un’installazione presente nel soppalco del Mike’s Garage, il punto dal quale i capi seguivano il lavoro dei loro operai, unendo così  la dimensione del dominio a quella della sottomissione. In questa stanza la riflessione di Hamilton si sposta sul modo agricolo in una sorta di dicotomia con quello industriale giocato anche sul ruolo uomo/ donna. Diversi sacchi di semi di soia sono appesi alla pareti rimandando ad una dimensione dell’accumulo intesa anche e soprattutto come dimensione della cura. Nel suo complesso Indigo Blue offre una riflessione sul tempo sia nella sua coordinata di durata che in quello di narrazione e racconto. In questo lavoro, un punto interessante, e che per certi aspetti troverà una continuità nel lavoro di Suzanne Lacy per Culture in Action, è la scelta di genere del soggetto principale. Così  come Hamilton ha scelto Pickney per raccontare e affermare il ruolo della donna all’interno di un modo/mondo di   produzione economica e industriale prettamente maschile, Lacy non solo imposterà tutta la sua azione Full Circle sulla riscoperta delle donne chiave per la trasformazione sociale americana ma, addirittura, per la realizzazione dei suo bocchi calcarei sceglierà  le  rocce provenienti dalla cava Wapanucka Oolitic Limestone Quarry a Tulsa in Oklahoma una delle poche cave ad essere gestita da donne, Joanne e Ceci Gillespie. Questo porta ancora una volta a riflettere sulle diverse pratiche che hanno portato alla formazione della socially engaged art.

Artista - Liz Magor

Titolo - Hallowed Ground 

Sulla lunghezza d’onda del recupero storico si inserisce anche il progetto di Liz Magor. Il progetto viene sviluppato attraverso la tecnica del reenactment ovvero la riattualizzazione, la riproposizione di un dato evento storico/storicizzato, o comunque apparente ad una certa memoria collettiva, in chiave performativa  at large,  ovvero, teatrale, relazionale, partecipata. Proprio queste due ultime modalità sono importanti per capire lo sviluppo della SEA nel suo utilizzo di diversi meccanismi/pratiche, come per l’appunto quello del  reenactment  che verrà  descritto da Nicolas Bourriad, in merito all’opera di Pierre Hugye (The Third Memory,  2000)  e da Claire Bishop in merito a quella di Jeremy Deller (Battle of Orgreave, 2001). Bourriad e Bishop sono due figure di critici chiave nello sviluppo teorico, rispettivamente, dell’arte relazionale e di quella partecipata e seppur nel critico francese non vi siano rimandi diretti alla pratica SEA, nel testo di Bishop la descrizione del lavoro di Deller

serve anche a delimitare/distinguere un intervento partecipato da uno propriamente di impegno sociale.

Il luogo scelto da Magor fu la Confederate Home sulla 62 Broad Street all’interno del quale riportò  un discorso tanto di genere quanto incentrato sul recupero di una certa marginalità  storica attraverso il  reenactment  della guerra civile americana. Attraverso un ingresso anonimo, lo spettatore veniva accolto da una serie di fotografie appese sui muri e raffiguranti alcuni momenti salienti della guerra civile con tanto di didascalie riprese dal libro The Photographic History of the Civil War in Ten Volumes (1911) di F.T.Miller. Attraverso lo studio di quelle fotografie Magor riuscì a portare alla luce non solo una serie di particolari, ma a mettere anche in gioco il discorso sulla reinterpretazione storica come inevitabile possibilità  del presente. Per questo compito Magor coinvolse un’associazione che si occupava di reinterpretazioni storiche.

Il fenomeno delle società/associazioni di Civil War Reenctament  è  molto diffuso non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. In Italia l’associazione che se ne occupa prende il nome di  14th Louisiana Infantry Regiment, G Co.   Ritengo che, prima di continuare nella 78

descrizione del lavoro di Magor sia importante soffermarsi sulla pratica del reenactment visto la sua vicinanza e il suo utilizzo all’interno di una serie di modalità che nel corso del tempo hanno portato alla definizione della SEA se non addirittura in quanto modalità  riconosciuta dalla SEA stessa come si vede, ad esempio, nell’opera di Paul Chan,  Waiting for

Godot (2007), prodotta da Creative Time. 

Il reenactment all’interno di pratiche SEA assume forme ed espressione come nel caso di Jeremy Deller in grado di comprendere anche le influenza di un teatro sociale - in particolare il teatro degli oppressi Augusto Boal - in quanto non si limita ad una ri-messa in scena teatrale ma sviluppando un soggetto mutuato dalla realtà dei fatti e facendolo reinterpretare ad alcuni dei suoi effettivi protagonisti/testimoni offre una rielaborazione ed una comprensione della storia subita.

Il lavoro di Deller,  The Battle of Orgreave  (2001), descritto da Claire Bishop nel suo  Articial

Hells  (2012) ricrea la famosa rivolta tra minatori e poliziotti avvenuta ad Orgreave nello

Yorkshire nel 1984. 

La questione del contendere derivava da una serie di restrizioni imposte dall’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher nei confronti dell’industria mineraria. Tali restrizioni miravano a ridurre i poteri dei sindacati favorendo un programma liberista e consolidando così l’autorità del governo conservatore. Gli scontri scoppiarono quando un gruppo di 8000 poliziotti caricò  i circa 5000 minatori che protestavano. Deller decise di ricreare quella giornata ma non si limitò  solo al live reenactment. L’estetica dell’evento venne ampliata attraverso un documentario dal titolo The Battle of Orgreave, 2001 a cura di Mike Figgis, la pubblicazione di una raccolta di interviste The English Civil War Part II: Personal Accounts of the 1984–85 Miners’ Strike, 2002, un’installazione/archivio The Battle of Orgreave Archive (An Injury to One Is an Injury to All) e un dipinto I am a Miner’s Son. 79

In tutto questo la componente partecipativa rimane il punto essenziale dell’intera operazione al pari di una sorta di empatia e di una metodologia paragonabile alla field research etnografica. Deller ricreò  lo scontro del 1984 coinvolgendo gli ex minatori e le loro famiglie supportate in questo lavoro, che lascia poco all’improvvisazione, da più di venti associazioni/ compagnie che si occupavano del reenactment di battaglie storiche Tra queste; Sealed Knot, Wars of the Roses Federation, Southern Skirmish Association. Seppur l’operazione di Deller porta con se’ a livello pratico una serie di motivi usati anche nella SEA, per l’appunto nel

http://www.rievocazioni-guerra-civile.it/it/14mo-louisiana-compagnia-g.html

78

Sul lavoro di Deller e la critica di Bishop si veda il capitolo 2.

lavoro di Magor, la lettura che ne offre Bishop tende a ridurre di molto ogni qualsivoglia implicazione d’impegno. Non che l’operazione di Deller nascesse con tale intenzione ma la lettura critica ne ha frenato possibili interpretazioni etichettando così - in maniera indiretta - l’intervento sociale come qualcosa di politico/attivista e dunque estremamente finalizzato al conseguimento di uno scopo. Soprattutto la distanza che Bishop prende dalla SEA deriva dal ruolo assunto da Deller nell’intera operazione, non empatico artista facilitatore bensì  directorial instigator  che mantiene un controllo autoriale sull’intera operazione:  “In contrast to the dominant discourse of socially engaged art, Deller does not adopt the role of self-suppressing artist-facilitator, and has had to counter criticisms that he exploits his vari- ous collaborators.  Instead he is a directorial instigator, working in collaboration with a production agency (Artangel), a film director (Figgis), a battle re-enactment specialist (Howard Giles), and hundreds of partici- pants. His authorial role is a trigger for (rather than the final word on) an event that would otherwise have no existence, since its conceptualisation is too idiosyncratic and controversial ever to be initiated by socially responsible institutions. In short,  The Battle of Orgreave’s potency derives from its singularity, rather than from its exemplarity as a replicable model.” 80

Il replicable model al quale Bishop si riferisce deve essere contestualizzato nel 2012, ovvero in un secondo periodo SEA quando una certa deviazione mainstream ha portato alla creazione di progetti replicabili. Su questo si tornerà  nel capitolo relativo alle attuali esperienze italiane e il concetto di format.

Tornado a Liz Magor e alla fase aurorale della SEA. Come dimostrato dai diversi lavori presentati anche durante  Culture in Action, la finalità  e soprattutto la completa apertura ad uno sviluppo solamente accennato da parte dell’artista segnano la differenza maggiore tra una pratica partecipata e una socially. Tra l’opera di Magor e quella di Deller passano esattamente dieci anni e in questo periodo si può notare come una maggior consapevolezza da parte degli artisti, ed in parte del pubblico stesso, abbiamo definito determinate pratiche. Nel 1991 il reenactment di Magor viene letto e inserito all’interno di una cornice di produzione di un nuovo senso oltre l’arte pubblica. Il suo discorso  è  completamente funzionale ad una lettura alternativa e particolareggiata della storia con un occhio di riguardo verso la dimensione di genere e il ruolo della donna. Nel 2001 il reenactment di Deller, nelle parole di Bishop, rappresenta la definizione ranceriana di meta politica. Nel discorso di Bishop, attraverso una sorta di teologia negativa, possiamo evincere alcune delle caratteristiche principali della SEA: essere un modello replicabile (questo avviene maggiormente nella sua seconda fase), ruolo empatico e di facilitazione da parte dell’artista, rapporto paritario coni vari collaboratori e pubblico.

L’opera di Magor si completava poi con un’installazione formata da palle di cannone. La riflessione si articolava dunque su ciò che rimane della guerra, di ogni guerra, ovvero macerie e munizioni. La riflessione su ciò/coloro che rimangono si intrecciava perfettamente con quella che era la storia della Confederate Houses. Fondata agli inizi del XIX secolo come istituto di carità, dopo essere stata la residenza del Governatore  John Geddes  e successivamente un albergo, venne trasformata nel 1867 nella Home for Confederate  Widows and  Orphans  grazie al lavoro delle sorelle  Snowden. Nell’opera di Magor il dialogo e la riflessione intrecciano diversi momenti storici, da una parte, come anche visto nell’installazione di Hann Hamilton, la storia degli uomini e della guerra, dall’altra quella delle donne e della casa. Anche qui il discorso sulle nove modalità  di rapporto scultura- ambiente si rimodula attraverso quelle diverse influenze che stavano aprendo la strada tanto ad un diverso rapporto con il pubblico quanto ad una diversa concezione dell’autorialità  dell’opera. La tecnica del  reenactment, infatti, come visto si prestava al coinvolgimento di un pubblico non più  spettatore ma partecipante attivo nell/dell’opera, un’opera che, attingendo da uno scenario collettivo non reclama alcun diritto di priorità  di senso o paternità  di creazione. Aver usato come base questa memoria comune significa,

C.Bishop, Artificial Hells, cit., pp.36-37.

pertanto, essere partiti da una base condivisa all’interno della quale l’artista può  solo dirigerne l’andamento ma non ricrearne la storia.  Nel discorso su un diverso approccio alla scultura nello spazio pubblico la tecnica del  reenactment  si pone come storia vivente superando il monumento, il genere scultoreo legato per eccellenza alla storia stessa e preannunciando così una diversa fruizione e operatività tra la città e la sua memoria.

Artista - James Coleman  Titolo - Line of Faith

Altra opera incentrata sul reenactment della guerra civile  è  quella di James Coleman dal titolo Line of Faith. In questa operazione vengono ad unirsi due livelli, quello della storia con la sua rilettura e quella della propaganda/comunicazione nei sui effettivi più  retrivi di disinformazione se non di vero e propria alterazione della realtà. 

Il punto di partenza  è  la famosa battaglia di Bull Run avvenuta il 21 luglio del 1861 in uno snodo cruciale sulla via tra Washington e Richmond e la sua riproposizione nelle cronache del tempo attraverso l’illustrazione di Currier & Ives riportata sul New York Times. L’illustrazione, pubblicata  il 24 luglio raffigurava la vittoria dell’Unione e la conseguente ritirata dei Confederati ma in realtà  quello che successe nella prima grande battaglia terrestre della  guerra di secessione americana fu esattamente il contrario. L’errore  “grafico”  si esplicava fin dai colori, invertiti, delle divise dove i classici pantaloni blu alla zuava portati dagli unionisti erano invece rossi, il colore dei confederati. Anche le didascalie dell’evento risultavano essere sbagliate, le truppe in questione non appartenevano infatti alla 1st Virginia Cavalry bensì  al 4th Virginia Black Horse Troop. Il  reenactment  di Coleman si basò  dunque sulla riproposizione dell’errore e dunque della sua paradossale realtà. Attraverso l’uso di proiezioni sovrapposte l’artista riportò la messa in scena reale di un fatto fittizio, quella che oggi potremmo chiamare a tutti gli effetti una fake news. Gli attori partecipanti diedero vita ad un falso storico che nel momento della sua sua denuncia si auto palesava anche come realtà incontrovertibile. 

In questo caso il dialogo della “scultura”, intesa nel suo display scenico non tanto nella sua forma “fisica”, diventava una menzogna. Attraverso l’uso della tecnica stereografia Coleman inserì  anche il discorso della ridefinizione dell’esperienza ottica e dunque di un nuovo concetto di guardare alle cose. Il  reenactment  ripreso nella location di Middleton Place a Charleston vide impegnati 27 attori e tre compagnie, 2nd South Carolina-Hampton’s Legion, 4th South Carolina-charleston Light Dragoons, 10th South Carolina-Plametto Battalion.

Artista - Cindy Sherman Titolo - Untitled

Sempre sulla linea del recupero della guerra civile americana si pone anche il lavoro di Cindy Sherman,  Unitled. Quella di Sherman  è  tanto una riflessione sulla brutalità  della guerra, partendo dalle atrocità storiche, quando sull’incombenza della morte e dunque su una sorta di familiarizzazione in vita. Anche qui la storia e il presente entrano in contattato attraverso la fotografia di guerra che, sia per ragioni tecniche che per questioni morali, tendeva a presentare la morte, il corpo morto, in una maniera accademica e anestetizzata per non turbare lo spettatore/lettore. Il lavoro di Sherman, è imbevuto invece di un serie di referenze e posture, anche, cinematografie che sono poi, tra l’altro, uno dei riferimenti costanti nella carriera dell’artista. Rispetto ad un’indagine condotta dall’artista quasi esclusivamente sul corpo femminile, in particolare il proprio, l’operazione  Unitled  indaga ciò  che rimane dell’uomo. I resti, le mutilazioni, le ferite sono rappresentate su una linea temporale in cui anche l’immaginazione e la ricostruzione giocano un ruolo fondamentale. Il corpo morto non  è  il vero cadavere bensì  quello che tutti noi immaginiamo sia un corpo caduto in battaglia. La sensibilità  dell’artista consente di prendere una certa distanza dalla

morbosità della documentazione anatomopatologa per lasciare uno spazio ambiguo e dare la possibilità al dialogo di crearsi/darsi proprio in questa incertezza ottica, percezione visiva. In questo distacco gioca un ruolo importante il luogo scelto dalla Sherman, ovvero, il Gibbes Museum of Art che proprio nel suo ruolo di istituzione culturale tende a depotenziare di default la percezione del mondo esterno/reale.

Artista - Ian Hamilton Finlay

Titolo - Battle of Midway - 4 June 1942

Il tema della guerra rientra anche nel lavoro dell’artista scozzese Ian Hamilton Finlay, il suo The Battle of Midway 1942 non si può, però, derubricare alla tecnica del reenactment o al lavoro  site-specific  quando piuttosto deve essere considerato come una lunga meditazione sulla vita. 

La battaglia delle Midway ha una diretta connessione con la vita stessa dell’artista, chiamato alle armi proprio nel 1942. Uno scontro tra esercito americano e giapponese combattuto nell’aperto dell’oceano Pacifico in quella che  è  stata definita come  una battaglia navale anomala: combattuta per mare, ma quasi esclusivamente da forze aeree. 

Per Finlay questo scontro diventa una metafora di vita tanto da riportalo nel suo Little Sparta

Garden, il giardino-studio-museo che l’artista costruì  attorno alla sua abitazione, nel quale

continuò sempre a lavorare e dove sono presenti diverse sculture che richiamano in maniera allegorica e simbolica la forma della porta aerei. Per Finlay la battaglia delle Midway rappresenta il dilemma morale e la brutalità insita nella natura. Le modalità con cui l’attacco si svolse, del resto, sono una metafora abbastanza chiara dell’imprevedibilità  umana. Nell’esatto momento in cui l’esercito nipponico pensava di aver vinto, le truppe americane sferrarono un decisivo e inaspettato attacco che valse loro la vittoria finale.

Per  Places with a Past, Finlay propone la rivisitazione di un primo lavoro sulle Midway dal titolo The Battle of Midway 4th June 1942 (1977).

In quella serigrafia Finlay, che oltre ad essere uno scultore era anche un poeta, proponeva una versione bucolica della battaglia dove le portaerei sono trasformate in alveari in fiamme e gli aerei in uno sciame di api. Ogni alveare-portaerei porta con se il suo nome (Akagi, Kaga. Hiryu, Soryu, Enterprise, Yorktown e Hornet) come una serie di epitaffi adornati al centro da quattro alberi. La grafica stilizzata rimanda ad una certa tradizione giapponese recuperata da un espressionismo tedesco alla Emil Nolde e “vitalizzata” da colori forti e acidi.

La rivisitazione dell’opera del 1977 viene pensata e realizzata sia come scultura per un’opera pubblica sia come poema-scultura. Su di un medaglione di granito viene incisa la frase: “Hic perierunt  Akagi Kaga Soryu  Hiryu  Yorktown, aequoris alvi mel suum flammiferum ea consumpsit unacum examinibus optimis. The Battle of Midway 4th June. Here perished Akagi Kaga Soryu Hiryu Yorktown the sea-hives consumed with their most choice swarms by their own flame-bearing honey.” 81

Finlay, che nella sua estetica ha sempre espresso un certo richiamo al classicismo, si ispira in quest’opera direttamente alle epigrafi di tradizione romana, la traduzione inglese serve come ponte culturale ad unire due diverse dimensioni temporali attraverso un’unica eredità.

La scultura venne posizionata in prossimità  del Patriots Point dove  è  ancorata la portaerei Yorktown (cv 10) costruita nel 1943 per sostituire la Yorktown (cv 5) “caduta” nella battaglia delle Midway. La Yorktown cv 10 venne messa fuori uso nel 1970 e ancorata al Patriot’s Point nel porto di Charleston e trasformata successivamente nel Maritime Museum. La scultura di Finlay che non si recò a Charleston e che non scolpì direttamente il blocco di granito, trova in questo dialogo una sorta di pacificazione nonché un’ode finale capace di cantare non tanto la