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Prima di Culture in Action, verso un cambiamento Places with a Past 

M. Kin Gagnon, 2010, p.44.

1.5 Prima di Culture in Action, verso un cambiamento Places with a Past 

Arrivare ad una forma espositiva completa e complessa come quella di Culture in Action ha richiesto naturalmente degli aggiustamenti e delle prove pratiche precedenti. 

Il passaggio verso una dimensione  socially engaged  passa per forza attraverso la rilettura dello spazio pubblico come spazio d’azione e spazio di partecipazione ma ancor prima passa attraverso la rilettura dell’opera, in questo caso specifico la scultura, non più intesa come il fine di un lavoro artistico e la finalità  unica e univoca di una determinata disciplina, bensì  come un processo più  ampio dove molteplici fattori entrano in gioco nell’esatto momento in cui lo spettatore viene sostituito con l’ “essere umano”. 

Grazie al racconto retrospettivo/storico di quei momenti si riesce, attraverso la  “digestione”  temporale di luoghi e nomi, a cogliere le indicazioni delle trasformazioni e i fattori che hanno portato ad un cambiamento. Questo  è  il caso della dimensione dialogica della scultura nel suo attivarsi attraverso le coordinate di memoria e spazio e, dunque, nel suo aprirsi alla relazione con una determinata eredità collettiva comunitaria. In particolare, ritengo, si possa ravvisare questo passaggio con la mostra/operazione Places with a Past organizzata all’interno dello Spoleto Festival di Charleston, South Carolina, nel 1991. Il trait d’union tra le due operazioni risiede innanzitutto nella figura della sua curatrice, ovvero, Mary Jane Jacob. 

Come scrive Tom Finkelpearl: “A pair of urban art initiatives organized by Mary Jane Jacob in the early 1990s constituted a watershed in the history of American socially co operative art: Places with a Past: New Site-Specific Art in Charleston for the Spoleto Festival USA in 1991 and Culture in Action organized through Sculpture Chicago in 1993.”    64

Queste due operazioni sono considerate degli sparti acque nel mondo dell’arte contemporanea perché  sono state in grado di intercettare, e preconizzare, diversi punti di rottura, in particolare con una determinata tradizione neo avanguardista-modernista che si articolava tanto attraverso il punto di vista della produzione quanto quello della ricezione. Un diverso clima culturale giocato, ma non solo, su di una rilettura post coloniale della storia e dunque sulla necessità, tutt’altro che decostruttiva, dell’apertura di un nuovo dialogo, hanno spinto ad una pratica in grado di interrogare innanzitutto lo spazio pubblico attraverso le relazioni e la partecipazione. Questo perché  proprio il discorso centralizzatore di una storia verticista non era più in grado di rappresentare un cambiamento multiculturale così profondo. La relazione che si articola all’interno, o per meglio dire, nell’aperto dello spazio pubblico è una relazione pragmatica proprio nel senso inteso dal filosofo americano William James, ovvero, rappresenta uno spazio di comunicazione pratico. 65

Il fare, che si trasforma in partecipazione, diventa l’elemento corale in grado di veicolare le relazioni con l’altro che mai, come agli inizi degli anni ’90, diventa un altro culturale forte in grado di affermare i propri paradigmi e narrazioni. La possibilità che dunque Mary Jane Jacob coglie curando  Places with a Past  è  quella di una rilettura attiva e partecipata di una storia locale. La dimensione  “locale”, che negli Stati Uniti rappresenta per certi aspetti il nocciolo del concetto stesso di comunità, diventa il punto di partenza per una modalità artistica che vuole esplorare un sub strato di narrazioni marginali che all’improvviso saltano agli occhi di tutti come l’evidenza lampante di una frammentazione sociale ormai incontrastabile. Come la stessa Jacob afferma in un saggio del 2016 riguardo Places with a Past: “Conceptually, it was

T. Finkelpearl, op. cit., p. 51.

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W.James, Pragmatism, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 33, [I ed. 1907], “Un pragmatista volta le spalle

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risolutamente, e una volta per tutte, a una quantità di abitudini inveterate care ai filosofi di professione. Si lascia alle spalle l’astrazione e l’inadeguatezza, le soluzioni verbali, le cattive ragioni a priori, i principi inamovibili, i sistemi chiusi, i pretesi assoluti e le origini. Si volge verso la concretezza e l’adeguatezza, i fatti e le azioni, e verso la possibilità di agire (power). Il che significa la supremazia della mentalità empirista e la resa incondizionata di quella razionalista. Significa lo spazio aperto e la possibilità della natura, contro il dogma, l’artificiosità, il preteso finalismo della verità”.

a ripe time in the arts field to integrate an exhibition into the fabric of the city. Coming at the height of postcolonial critique both in and outside the academy, the idea afforded the chance to commission work that directly acknowledged histories left out of  the canon  that is, experiences left out of  art history as well as absent from broader cultural and national histories.”    66

Lo Spoleto Festival, fin dal suo nome,  è  un chiaro richiamo al Festival di Spoleto ed in particolare a quella mostra del 1962 dove la città divenne il vero palcoscenico per una nuova visione della scultura tanto slegata dall’ambiente accademico quanto legata al suo contesto urbano. La prima edizione dello Spoleto Festival risale 1977 e fu ideata da  Gian Carlo Menotti  e  Christopher Keene  i quali videro, poi, nella città  di Charleston quel giusto mix di conservazione urbana e apertura al mondo per declinarvi un nuovo format del Festival.

L’edizione del 1991 venne affidata a Mary Jane Jacob e, nel clima di un nuovo modo di pensare la public art, l’intera manifestazione fu incentrata sul dialogo con il passato e la tradizione intesa tanto a livello architettonico quanto a livello storico narrativo. Questo 67

dialogo, però, come specifica la stessa Jacob era stato portato avanti nell’ottica postmodernista di decostruzione della storia in favore della riscoperta di una pluralità di storie marginalizzate. Le storie marginali, infatti, proprio nell’atto della loro marginalizzazione, appartengono ad un contesto il più  delle volte (post)colonialista nel senso di un ambiente/ contesto che in nome di una ricerca di unità  totalizzante ha represso le diversità  e le narrazione dell’altro. 

Questo punto pone esattamente una/la differenza tra dinamiche SEA, ad esempio, e una serie di interventi di arte visiva nel sociale portati avanti dal critico Enrico Crispolti negli anni ’70 in diverse provincie italiane. Nonostante determinati richiami e prossimità di pratiche, la SEA in molti casi opera in un contesto marginale con una metodologia transdisciplinare e soprattutto senza una bandiera politica manifesta. Questo perché  la SEA rappresenta una modalità artistica non desunta dall’ideologia bensì dalla pratica e dal confronto quotidiano. 

Un tessuto sociale come quello americano e come quello nord europeo, dove la SEA troverà  un suo riscontro fin dai primi anni  ’90, derivano da luoghi da una parte fortemente “colonizzatori” e dall’altra fortemente “ospitali” verso le diverse comunità migranti. Questo, dunque, a livello pratico e costitutivo, significa una quotidianità  della differenza e dunque rappresenta il terreno più  fertile per una tipologia di pratica che si costruisce sulle relazioni, sulla partecipazione e sulla collaborazione ma che, come visto nel caso di Culture in

Action, non si definisce ne si limita a questi aspetti.

Il contesto italiano degli anni ’70, di contro, era un contesto, e rimarrà tale fino ai primi anni 2000 (i primi anni ’90 hanno mostrato un iniziale cambiamento ma non a livello strutturale ), fortemente omogeneo nella sua identità “etnica”. La diversità  maggiore risiedeva nel regionalismo e la componente politica e ideologica era, in molti casi, il motore di molte azioni

M.J.Jacob, The Curatorial Commons: Places with a Past, in, Asap Journal, n.11, Art and the Commons,

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January 2016, p.152.

In merito al suo procedimento curatoriale Jacob scrisse: “When I curate shows, it is to add value and

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insight to a place and to social issues. Monuments and ancient temples have always been with us, but newly heightened factors propelled public art into the locus of discussion: expanding in space and time outside the museum , as an exercise for artist and audience to connect in the present moment. My interest in public art became official in 1990 when I left museum in order to work in partnership with artist on projects conceived for certain locations - most significantly in 1991 for the Spoleto Festival in Charleston. It was here that I found an embracing discourse in public art: one that moved away from the monument/ historical formula, or the contemporary masterpiece - like an Oldenburg or Calder - toward installations and process. It was art brought dialogue through an incitement of memory”,Mary Jane Jacob, Interview 2002, in, On curating. Interview with Ten International Curators, a cura di Carole Thea, DAP, New York, 2009, pp. 20-21

artistiche che, pur riversandosi nella città, non erano esenti da una certa parzialità di giudizio. La storia americana, invece, seppur nelle sue esacerbanti divisioni è fatta da una pluralità di aspetti caleidoscopici che ruotano in maniera centrifuga rispetto ad un sistema centrale. Proprio, la marginalità, e la “fuga” dalla storia ufficiale sono le direttive con le quali Places with

a Past instaura il dialogo con la città di Charleston.

“The (the artists) did not choose to deal with the heroic view of history nor to enshrine further the usual figure and names that have a continuing presence in Charleston but to focus on those who had been marginalized and whose stories had been forgotten over time. Their sites reflected this as well, as the artists chose buildings not already part of a Charleston tour, but alternative sites they recognized and reclaimed. In focusing attention on these locations, they painted a broader and different experience of Charleston, representing a larger collective memory that impacts beyond city limits.” 68

Gli artisti che presero parte a Places with a Past (24 maggio - 4 agosto 1991) furono: Barbara Steinman, Narelle Jubelin, Ann Hamilton, Christian Boltanski, Chris Burden, Liz Magor, James Coleman, Cindy Sherman, Ian Hamilton Finlay, Antony Gomley, Joyce Scott, Lorna Simpson- Alva Rogers, Huston Conwill-Estella Conwill Majozo-Joseph DePace, Elizabeth Newman, Ronald Jones, Gwylene Gallimard-Jean Marie Mauclet, Kate Ericson-Mel Ziegler, Davis Hammons. 

L’idea della mostra al di fuori dello spazio museuale/galleristico, in quegli anni veniva rafforzata dal nuovo impulso all’occupazione/rimodulazione di spazi preesistenti, una modalità questa che andava a completare quanto iniziato non solo a Spoleto ma anche allo Skulpture Project Park di Munster organizzato per la prima volta nel 1977 da Kaspar K o e n i g e K l a u s B u s s m a n . L a d i m e n s i o n e d e l l ’ a s p e t t o d i a l o g i c o , c h e tornerà successivamente nelle teorie di Grant Kester come punto di partenza per un arte tanto partecipata quanto impegnata, segna una prima differenza tra un’operazione di arte pubblica e una rivolta ad una dimensione di maggiore impegno sociale. 

Pur restando la scultura e l’installazione i medium maggiormente usati, gli artisti si calarono completamente nella realtà di Charleston e le loro opere sono frutto di questo dialogo e della necessaria operazione di ascolto. Come scrisse la stessa Jacob,  Places with a

Past  attirò  artisti con una mentalità  socialmente orientata. Ancor più  importante, ritengo, le

parole di Jacob in merito ai concetti di comunità e appropriazioni che saranno due temi caldi nello sviluppo della SEA:  “Today there is also a shift toward works that has a mission and makes social statement, stalking out a moral position, perhaps in reaction to the prior decade as a period of intensified commercial and shallowness of content. And while Charleston’s subjects and location brought up social and conceptual issues central to art-making today and to the academic arena in general, ethical and philosophical issues arose that gave pause to the artists in their courses of investigation: can artist speak for people of another place with whom he or she does not share a common history or cultural tradition; even if one share shares a heritage, can he or she alone speak for the community; Can a white artist deal with an African-American subject; what rules are operative when working collaboratively with a member of the community; how can a community voice and artistic voice coexist sympathetically; and if the artist collaborates with a member or members of the community, do they speak for the community at large?” 69

L’edizione del 1991, quasi a prefigurare il cambiamento, nasce da un cambio di programma di “forzato”. Quando nel gennaio del 1990, Nigel Redden (che proprio a Spoleto aveva svolto

M.J.Jacob, in, Places with a Past: New Site-Specific Art at Charleston’s Spoleto Festival, catalogo

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mostra, Rizzoli International Publication, New York, 1991, p.17.

Ibidem, p.19.

un internship) chiamò  Jacob per curare l’edizione del festival, il programma prevedeva una esposizione di sculture (sculpture show) nel grande parco di Middleton Place una vecchia piantagione lungo il fiume Ashley. Il cambio di programma fu “imposto” dall’urgano Hugo che nel settembre del 1989 si abbatté  sulle isole caraibiche e nello stato del South Carolina causando diverse vittime e consistenti danni. Con la prima area non più  disponibile si optò per spostare la mostra nella downtown della città con un conseguente spostamento di senso verso una dimensione in grado di aprire un dialogo con la città e i suoi abitanti. 

Influenza importante verso questa nuova dimensione, fu la seconda edizione dello Skulpture Project di Munster (1987). Per questa edizione Kaspar König invitò  64 artisti a visitare la città e, solo in un seconda fase chiese di inviare una proposta per la realizzazione di un’opera. Il progetto intendeva, così, attivare una rivisitazione della storia e delle narrative sociali della città  entrando in contatto non solo con le opere realizzate nella precedente edizione (1977) bensì con quel tessuto urbano fatto non tanto di spettatori quanti di cittadini attivi. 70

L a r i c o s t r u z i o n e d e l l a c i t t à  d i C h a r l e s t o n p o s t u r a g a n o H u g o a v e v a aperto  “interessanti”  spiragli per la ridefinizione di un discorso sullo spazio pubblico e soprattutto aveva scoperchiato una certa idea stessa della città costruita su un passato post- confederato idealizzato. Scrive Jacob: “Likewise, this move to downtown Charleston proved to be practical in a number of ways. It was also opportune. Later, in the years that followed Hugo's retreat, the city became spiffier. Delayed renovations and upgrades (financed by insurance claims) were followed by housing speculation, with the part-time res  ident population growing in the lower peninsula and a housing boom spreading throughout the whole region, along with the construction of gated communities of ersatz Charleston homes on former plantation properties. But in 1990, after the Hurricane, Charlestonians were catching their breaths and regrouping to repair. So we were able to operate freely in this interstiziale time.” 71

Pratica, esperienza e teoria si trovano così ad un turning point, un punto di svolta che doveva darsi nell’aperto del dialogo e della partecipazione.  Places with a Past  diventa in maniera spontanea e urgente un laboratorio per delle nuove pratiche pronte a confrontarsi con il luogo, diverso da sito e spazio, con le sue persone e con le loro storie. Proprio le  stories, intese come intime e personali, iniziano a prendere il  “sopravvento”  sulla  history  intesa, invece, come collettiva e spersonalizzante. L’esperienza diventa, per tanto, un punto di partenza chiave per agire in un determinato contesto.

Lo stesso approccio curatoriale di Jacob andava, del resto, in questa direzione. Gli artisti chiamati non ebbero nessuna indicazione particolare se non quella di realizzare un’opera/ operazione di carattere installativo: “Yet there was no curatorial mandate given to the artists to use, illustrate, or correct Charleston's history. (It seems perhaps surprising now, in retrospect, that it all wasn't more straightforward, but real process never is). Instead, to begin, there was only experience. There was no thesis. No theoretical prospectus or preliminary, discursive platforms to set the stage.” 72

In questo caso per cittadini attivi si intende un livello intermedio tra pubblico artistico e abitanti della città.

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Ovvero, non si intende il concetto di attivismo espresso da molta arte politica degli anni ’70 né quello più contemporaneo nato, in particolare sul finire degli anni ’10 del Duemila con movimenti autonomi di protesta come Occupy Wall Street che a loro volta hanno ridisegnato determinate strategie politiche e artistiche. In questo caso, il cittadino attivo è un cittadino partecipe.

M.J.Jacob, The Curatorial Commons: Places with a Past, cit., pp.152-153.

71

Ibidem, p.155.

Gli artisti stessi furono guidati alla scoperta di Charleston per quasi un anno prima dell’inizio del festival in un  processo aperto e dialogico  in continua ridefinizione.   Charleston 73

diventò  così  il luogo della messa in pratica e allo stesso tempo, in particolare, attraverso operazioni come quella di David Hammons e  Mel  Ziegler/Kate Ericson, segnò  la strada per una pratica socially engaged che troverà il suo culmine due anni dopo in Culture in Action. Sia lo “spettatore” che l’artista vengono ridefiniti nei loro ruoli attraverso un percorso orizzontale di co-progettazione e partecipazione che oggi pur con qualche difficoltà  teorica sembra definito, ma che allora era spontaneo e necessario. Il  commonplace, il luogo comune, del resto  è  un qualcosa che proprio nella sua immediatezza e  “banalità”  non richiede una teorizzazione  “forte”  rappresentando quasi una pratica auto costituentesi. L’esperienza che Jacob rilegge in  Places with a Past  è  del resto proprio l’esperienza di cui John Dewey scriveva nel suo  Art as Experience  e, proprio come le teorie del filosofo americano, risulta talmente immediata da essere data inizialmente per scontata.  74

Questo perché Places with a Past si pone al di fuori del circuito museale, galleristico, se non addirittura di un certo sistema dell’arte contemporanea, andando ad agire nella sfera della quotidianità, del commonplace, che non non necessita una teorizzazione aprioristica ma solo un determinata consapevolezza. Places with a Past, potremmo dire, infatti, non apre la strada della teoria SEA, come avviene con  Culture in Action, bensì  quella della consapevolezza artistica verso una pratica del/nel reale. Proprio su questo piano della consapevolezza l’artista entra in un rapporto completamente diverso con  quelle persone  che fino a qualche anno prima avrebbe definito “semplicemente” come pubblico. Audiences are people too, come da titolo di un testo di Jacob, è questo lo spostamento “copernicano”.  75

Artista e spettatore sono accomunati dal loro essere persone/essere umani nell’atto di vivere un’esperienza comune che poi, nelle teorie di Dewey e nelle pratiche di Jacob, viene circoscritta dalla creazione di un’opera/operazione che trasforma l’esperienza ordinaria in esperienza estetica summarizzando così un processo partecipato: “L’esperienza è il risultato, il segno e la ricompensa di quella interazione tra organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si trasforma in partecipazione e comunicazione”.  In questo fare comune, l’artista perde il  “presunto”  ruolo di creatore per vestire i panni a sua volta dello spettatore/osservatore partecipante della vita degli altri:  “While no outsider can arrive in a place and represent its population, a visitor can listen. In that, you can learn a lot. For residents, the presence of outsiders can offer something, too. There is safety in telling your story to strangers. Perhaps  they are less likely to respond with  reproach  or incrimination; visitors Will eventually leave. And strangers can be recepite, while community members might have already heard the story, maybe many times. Moreover, there us a need to explain  yourself, your home, more fully to strangers to make clear what you care about and matters to you. In doing so, we sometimes hear ourselves for the first time and discorre what is truly in our hearts. These Conversations can be a gift to an outsider who lands for a time and

“ Every artist's visit was a fresh start: new impressions arose from being in the moment and outside

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familiar surroundings. Each conversation l had with artists on the ground motivated the next move. l often ventured from my working list, which focused on artists whose cultural identities and works bore a potential relation to this city's colonial history. Visits stretched out over more than a year of the sixteen months