Capitolo II Nel silenzio
3.1 L’evento e la scrittura
Il capitolo precedente si è concluso ponendo l’attenzione sull’importanza di comprendere il pensiero di Derrida facendo riferimento a quel ri-pensamento del concetto di tempo che si configura come lascito della filosofia heideggeriana; si è già visto d'altronde, per mezzo delle acute riflessioni di Telmon, come l’orizzonte heideggeriano sia irrinunciabile per introdurre un discorso sulla decostruzione.
L’insistenza, nello svolgimento di questo lavoro, sulla lettura da parte di Derrida di diversi autori della storia della filosofia intende essere coerente con il doppio volto, con l’indecidibile natura, della decostruzione che si intende perlopiù, e a ragione, come pratica di scrittura, ma che si svolge anche e indissolubilmente come pratica di lettura; come suggerisce bene la tesi di Carmine Di Martino135 la lettura è, infatti, una forma di scrittura, o, per meglio esprimersi, di ri-scrittura. Ci si potrebbe chiedere se sia davvero possibile definire “etica” una simile modalità di lavoro filosofico e se quest’ultimo abbia ancora a che fare con il rigore del pensiero; per dirimere preventivamente questi dubbi senza risolverli teoricamente, ma tentando semplicemente di restare all’interno e
135 «proprio in riferimento alla pratica di decostruzione, però, si dovrebbe forse mettere in luce come nella
prospettiva metodologica sia ancora più centrale la lettura, a tal punto che potremmo definire l’intera sua opera come caratterizzata da un’etica della lettura. È la tesi che qui si vorrebbe sostenere: la decostruzione, a suo modo, non vuol essere altro che un metodo di lettura e, pertanto, di interpretazione. Inoltre, identificare la lettura con l’attività di decostruzione del testo significa affidare al lettore il compito di tornare a contestualizzare tutta una serie di elementi. Questo sta a significare che ogni lettura, a sua volta, è una scrittura, l’ideazione e la ricostruzione di un testo» (P. D’Alessandro, oltre Derrida per
un’etica della lettura, in AA.VV., Su Jacques Derrida. Scrittura filosofica e pratica di decostruzione cit.,
54 nella coerenza della pratica decostruzionista, può essere utile ricordare che in Margini è chiarito come uno scritto continui a:
«agire e a essere leggibile anche se ciò che si chiama l’autore dello scritto non risponde più di quel che ha scritto, di quel che sembra avere firmato, sia che egli sia provvisoriamente assente, sia che sia morto o che in generale non abbia sostenuto la sua intenzione o attenzione assolutamente attuale e presente, con la pienezza del suo voler-dire ciò stesso che sembra esserci scritto a suo nome»136.
A partire da questi presupposti e prima di addentrarci negli esiti etico-politici del pensiero di Derrida che sono al centro dell’interesse da cui si origina questa tesi, è necessario approfondire un ultimo passaggio del pensiero di Heidegger che Derrida non dimentica di tenere in considerazione e che, in fondo, è stato fin qui presupposto anche se non trattato esplicitamente: la questione dell’Ereignis, dell’evento. Quest’argomento è stato già introdotto a proposito della différance nel momento in cui la decostruzione è stata definita come la legge di ciò che accade o, ancora, quando è stata resa evidente la natura decisiva della critica al tradizionale concetto di tempo in seno alla quale il pensiero dell’evento, già in Heidegger in effetti, si sviluppa; resta da comprendere il modo in cui Derrida eredita il concetto di Ereignis, cosa lascia dietro di sé in questo atto di ereditare e, infine, quali effetti ha nella pratica decostruzionista la sua scelta di pensare l’evento come scrittura.
Per seguire questo percorso è bene tenere presente quanto già esposto in merito alle critiche rivolte da Derrida ad Heidegger, precisando, però, come i toni di questo confronto mutino nel tempo. Si è analizzata nel dettaglio l’argomentazione di Aporie e anche quella di “Ousia” e “grammè” (testi in cui ad essere preso in analisi è principalmente Sein und Zeit) ed è risultato evidente come, secondo Derrida, nonostante
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55 Heidegger avanzi una critica alla metafisica della presenza, il suo pensiero della differenza ontologica non sfugga pienamente alla stessa, ricadendo in una metafisica dell’autenticità e della proprietà e mantenendo in opposizione il piano dell’originario e del derivato nonché la condizione di possibilità del primato della presenza e del presente. Si vedrà, adesso, come a questa posizione sul pensiero di Heidegger, negli scritti di Derrida, ne faccia seguito un’altra, riconosciuta dagli interpreti come «lettura obliqua»137 dell’opera di Heidegger, che permetterebbe di intravedere già nella sua riflessione l’inizio di una decostruzione del proprio e dell’appropriazione.
È il caso, adesso, di indagare il senso in cui la filosofia heideggeriana si mantiene nei pressi della metafisica del proprio, questione su cui Derrida non smette di riflettere e che sviluppa in modo decisivo in più luoghi della sua opera come La différance138 o Fini dell’uomo139. Derrida, infatti, giunge a pensare la scrittura come evento e dono mediante l’approfondimento della questione heideggeriana dell’Ereignis, cioè quel movimento del dare-destinare che si ritrae in se stesso, caratterizzato da quella sottrazione dell’essere nell’ente cui si è già accennato e che – adesso è importante precisarlo – costituisce la strategia di Heidegger per pensare l’essere in ciò che gli è proprio, cioè al di là della differenza ontologica140: «era necessario nello sguardo che
137 C. Resta, La passione dell’impossibile, cit., p. 133. 138
In questa conferenza già citata e risalente al 1968, Derrida analizza Il detto di Anassimandro di Heidegger ponendo al centro dell’attenzione la questione dell’essenza della presenza (das Wesen des
Anwesens) nonché il legame tra presenza e presente. È questo il luogo in cui, intessendo la critica alla
traccia originaria della differenza ontologica, Derrida configura il tema della sua différance così come è stato descritto nel capitolo precedente pur senza riuscire a seguire dettagliatamente i passaggi del testo. (Cfr. M. Heidegger, Der Spruch des Anaximander, in Holzwege, hrsg. von. F. W. Hermann,
Gesamtausgabe, Bd. 5, Frankfurt a.M., Klostermann, 1978; tr. it. di P. Chiodi. Id, Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968).
139 Anche questo testo risale al 1968, ma concerne, oltre a Sein und Zeit, soprattutto M. Heidegger, Zeit
und Sein, in Zur Sache der Denken, Niemeyer, Tübingen 1969; tr. it. di E. Mazzarella, Tempo ed essere,
Guida, Napoli 1980 e M. Heidegger., Brief über den Humanismus, in Wegmarken, hrsg. von. F. W. Hermann, Gesamtausgabe, Bd. 9, Frankfurt a.M., Klostermann 1976; tr. it. di F. Volpi, Id, Lettera
sull’umanismo, in Segnavia, Milano Adelphi, 1987. È questo in luogo in cui Derrida inizia a concentrarsi
sul pensiero dell’Ereignis.
140 Poiché non è il principale interesse di questo elaborato mostrarne le differenze e le affinità fra
differenza ontologica ed Ereignis, per il necessario approfondimento della questione cfr. C. Resta,
56 attraversa il tempo autentico pensare l’essere in ciò che gli è proprio – a partire dall’Ereignis – senza riguardo per il rapporto dell’essere e dell’essente»141
.
Ho già sottolineato come il nucleo dell’argomentazione di Heidegger che interessa a Derrida coincida con il riconoscimento da parte del filosofo tedesco della storicità di senso ed essere, cioè dello scarto tra l’essere e l’essere dell’ente. È a partire da questo scarto che Heidegger pensa l’essere come evento, come invio, separato anche se riferito142 alla sua rappresentazione; è grazie alla configurazione dell’essere come evento storico che, in questo orizzonte, si dà la possibilità del pensiero che si pone, a sua volta, come condizione del rimando originario fra essere ed ente: è il pensiero che è evento e lo è nella parola. Tuttavia, come abbiamo visto, questo evento è impossibile poiché l’essere, non coincidendo con l’essere dell’ente, resta in fondo, in ciò che gli è proprio, inaccessibile. È questa necessaria inacessibilità ciò a cui Heidegger si riferisce nel suo utilizzo di termini come ritiro, sottrazione, raccoglimento, tutti volti a salvaguardare ciò che è proprio dell’essere e deve rimanere tale.
L’Ereignis, in effetti, sembra abitato da due tendenze: una che potremmo definire di appropriazione e che è descritta già nel termine Es dell’espressione Es gibt che Heidegger – gradualmente e in coerenza con un certo tentativo di chiudere con la metafisica dell’oblìo della differenza ontologica – sostituisce al termine Sein; l’altra di espropriazione riferita proprio al non compimento di tipo fenomenologico di questo darsi-destinarsi143. Dunque, l’Ereignis in effetti non avviene mai, anzi è su questa
141 M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, tr. it. di E. Mazzarella, Tempo ed
essere, Guida, Napoli 1980, p. 125.
142 I termini “separato” e “riferito” sono qui utilizzati pensando alla parola tedesca Bezug presente nel
testo heideggeriano ed utilizzata , in particolare, per descrivere il rapporto ermeneutico fra uomo ed essere nonché lo statuto, il compito ed il destino del pensiero, cfr. M. Heidegger, Da un colloquio nell'ascolto
del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia,
Milano 1973, p. 107.
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57 distinzione che Heidegger propriamente insiste quando discosta radicalmente il termine Ereignis dal significato comune di “accadimento”144.
Concentrarsi sul darsi-destinarsi dell’essere come ciò che differisce radicalmente da ogni accadimento in quanto tale, significa porre l’attenzione non sul contenuto ma sull’atto di questo invio145
; l’heideggeriano corrispondersi fra uomo ed essere non ha più il senso di un messaggio che porta in sé una verità, ma è uno spazio aperto in cui a contare è, in effetti, la modalità di questo messaggio stesso che risuona nel linguaggio. Come ho già esposto, la modalità del risuonare e l’orizzonte di appropriatezza del linguaggio rappresentano il punto nevralgico dell’equivoco in cui incorre Heidegger agli occhi di Derrida. Nonostante ciò, la metafora dell’invio (come il filosofo francese ha ragione di considerarla da un punto di vista di interpretazione decostruttiva del testo) è ciò che propriamente egli eredita nella sua riflessione sulla filosofia heideggeriana. In merito a Derrida, infatti, si può parlare proprio di metafora postale146
che senza il pensiero dell’Ereignis non sarebbe stata possibile e che, tuttavia, viene pensata altrimenti.
È il caso, a questo punto, di scindere in due elementi questa eredità heideggeriana, considerando l’Ereignis nella sua tendenza appropriante ed espropriante, sia come invio che come ritiro; se in Heidegger, infatti, questo invio a causa dell’esigenza di salvaguardare la propria unicità (identità, proprietà) si configura come
144 «Noi non possiamo più rappresentare ciò che si nomina nel nome Ereignis seguendo il filo conduttore
del significato corrente della parola, giacché questo intende Ereignis nel senso dell’avvenimento (Vorkommnis), dell’accadimento (Geschehnis) – non a partire dallo Eignen, dall’app-propriare come il dischiudere salvaguardare nell’aperto dell’arrecare e del destinare» (M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 121).
145 In riferimento all’Eregnis mi sembra utile il chiarimento di C. Resta che tiene presente lucidamente
tanto l’opera heideggeriana quanto quella derridiana ed il loro rapporto: «attraverso questo termine – che è impossibile tradurre – Heidegger cerca di pensare l’accadere [Geschehen] della verità dell’essere
altrimenti che come accadere di qualcosa: “Nichts geschieht, das Ereignis er-eignet”. L’essere, dunque,
e-viene, si dà come appropriazione che tuttavia è appropriazione di niente» (C. Resta, La passione
dell’impossibile, cit., p. 133).
146 «nella metafora delle poste, il contenuto degli invii, l’evento inviante, è una scrittura, un essere che
può darsi solo sotto le spoglie della traccia, come sproposito inudibile, o per il pensiero, sotto le spoglie del paradosso o dell’impossibile» (M. Telmon, La differenza praticata. Saggio su Derrida, cit., p 122).
58 un invio vero, che non si avvale di intermediazione tecnica, poiché solo così è dato che rimanga identico a sé e che non si confonda con l’essere dell’ente, per Derrida così pensato esso resta fenomenologicamente impossibile. Bisogna concentrarsi proprio sul termine impossibile perché è su questa determinazione, come si vedrà, che si trova la posta in gioco di questa lettura di Heidegger da parte di Derrida; infatti, se l’evento non può darsi né nel pensiero né nella parola poiché ricadrebbe nell’ordine dell’adeguatezza del linguaggio e perderebbe ciò che gli è proprio, allora bisogna che l’evento disponga della struttura di quest’impossibilità e di questa paradossalità in cui si trova. Ma come? Innanzitutto chiudendo con la prospettiva di senso propria dell’ontoteologia con cui Heidegger non finisce di fare i conti e che Derrida intende decostruire, evidenziando come pensare ad un invio originario dell’essere o alla tecnica come ultimo esito della storia della metafisica o, ancora, parlare di una dimora dell’essere, non faccia che ribadire la logica del chez-soi e della metafisica del proprio.
Questo permette di comprendere il motivo per cui l’epoca della metafisica di cui parla Heidegger in riferimento al suo concetto di Geschick, nell’ottica di Derrida non è un’epoca147; il ritirarsi dell’essere implicito nel suo darsi-destinarsi è l’unica dimensione
in cui è dato soggiornare, perciò l’impossibilità dell’invio non è un esito storico, ma è una circostanza già da sempre attuale come l’unica circostanza che è insieme possibile ed impossibile. Al pensiero dell’invio dell’essere si accosta, allora, quello della disseminazione del senso, così per Derrida, ciò che è dato pensare non è l’invio, che nella sua unicità istituisce nuovamente il sistema ontoteologico della metafisica, ma gli invii, cioè il riconoscimento del fatto che il senso può darsi solo come traccia non- riferibile, sotto forma di scrittura paradossale ed impossibile; è questo che, - usando le parole di Telmon - secondo Derrida, Heidegger ignora: «quel potente fattore della verità
147 «A partire dal principio postale, dalla destinalità, orizzonte che lo stesso Heidegger faceva risuonare in
Geschick, Derrida mostra precisamente la fine dell’epoca del destinale, intesa come una epoca, per
59 che è la scrittura»148
. Al concetto heideggeriano di “destinale”149
si sostituisce, allora, nell’ottica derridana, quello di «destinerranza»150
, che non si comprende senza fare riferimento alla scrittura di Nietzsche. Per indagare a fondo quanto appena anticipato, bisogna rivolgere l’attenzione a due luoghi del pensiero di Derrida: Sproni151
e Envois152
.
In Sproni, testo del 1972, si può intercettare la prima sostanziale variazione di interpretazione riguardo alla figura di Heidegger nel rapporto con la metafisica del proprio. L’opera prende le mosse dal Nietzsche153
di Heidegger e si focalizza specialmente sull’ultimo capitolo di questo complesso testo, in cui Derrida rintraccia ciò che, a suo parere, Heidegger non avrebbe colto della scrittura nietzschiana e che lo avrebbe portato a relegare Nietzsche – in parte erroneamente – nei limiti della metafisica e del suo rovesciamento. Queste pagine vertono su alcuni temi complessi, come quello dello stile e del femminile154
, ma si condensano nel discorso sulla scrittura che conduce, in particolar modo, alla derridiana declinazione dell’evento come scrittura. Da un lato, infatti, in Sproni, Derrida pone in evidenza il limite dell’interpretazione heideggeriana di Nietzsche, dall’altro lato egli svincola tanto il testo di Nietzsche quanto quello di Heidegger da un tipo di lettura univoca che ne ricerchi il senso ultimo, offrendo, in effetti, l’esempio pratico dell’effetto che la scrittura pensata come evento produce. In particolare, in Sproni, si rende evidente l’operazione di démontage, di
148 Ibidem.
149 Questo termine è di consueto utilizzato nelle opere su Heidegger per fare riferimento al pensiero del
filosofo tedesco della storicità dell’essere; esso si lega alla parola Geschick che nel linguaggio comune indica il destino.
150 M. Vergani, Jacques Derrida, cit., p. 69. 151
J. Derrida, Éperons. Les styles de Nietzsche, Paris, Flammarion, 1978: tr. it. di G. Cacciavillani, Id.,
Sproni. Gli stili di Nietzsche, Milano, Adelphi, 1972.
152 J. Derrida, Envois, in La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, Flammarion, Paris 1980, tr. it. a
cura di S, Facioni e F. Vitale, Id, Invii, in La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, Mimesis, Milano 2017.
153
M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, 2 voll.; tr. it. di F. Volpi, Id., Nietzsche, Milano, Adelphi, 1994.
154 Non è nelle possibilità di questo lavoro analizzare nel dettaglio questi temi fondamentali per
comprendere la posizione di Derrida, perciò si rimanda a I. Pelgreffi, Scrittura e filosofia. Jacques
60 smantellamento, cioè quel prestare cura alle parole di un testo e alla familiarità delle stesse con altri testi, anche distanti nell’orizzonte di senso a cui fanno riferimento, ed il cui confronto produce sempre nuovi significati.
Ciò che appare come riduttivo del modo in cui Heidegger si approccia al testo di Nietzsche è il suo tentativo di interpretarlo univocamente ed a partire dalle parole fondamentali del suo pensiero: è esattamente con questo paradigma del senso e della verità che Derrida intende rompere, affermando che: «non c’è una verità di Nietzsche o del testo di Nietzsche»155
. Secondo il filosofo francese, Nietzsche offre nella sua opera un’importante analogia fra la donna e la scrittura156
che Heidegger non avrebbe constatato157
finendo per non comprendere la scrittura nietzschiana in cui si rivela che non esiste il proprio dell’Ereignis, poiché il suo proprio è la scrittura e precisamente la scrittura di Nietzsche. Ma che cosa significa questo? La scrittura di Nietzsche è innanzitutto frammentata e plurale, cioè caratterizzata dalla pluralità degli stili; in essa si mostra come la verità sia una non-verità, l’impossibilità del raggiungimento di un senso ultimo del testo che pretenda di basarsi ancora sul concetto di identità a sé. In Nietzsche, la scrittura si mostra come ciò che è, quella pratica che, come osserva S. Agosti, «disarticola il discorso per farne risaltare la trama testuale e, per questa via, decostruire il luogo stabile, rassicurante, di un senso pieno, di una verità, di un’origine o di un telos»158
.
155 J. Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche, cit., p. 94.
156 Come chiarisce C. Resta, nel pensiero di Nietzsche, la questione del femminile si incrocia – ed è per
questo motivo che interessa nell’economia di questo discorso – essenzialmente con quella del proprio: «Derrida mostra come la donna per Nietzsche, rappresenti il punto iperbolico e vertiginoso in cui il dare e il prendere, il dono, l’abbandono e il possesso si rovesciano continuamente l’uno nell’altro, così come verità e finzione, fino a fare della donna l’istanza di questa infinita pervertibilità, a causa della quale la stessa differenza sessuale, in quanto opposizione di generi, appare un gioco di maschere o di specchi. Ad essere messa fuori gioco, secondo Derrida, è la stessa logica (metafisica) del proprio» (C. Resta, La
passione dell’impossibile, cit. p. 131).
157 La questione del femminile è assente nell’interpretazione che Heidegger offre di Nietzsche.
158 S. Agosti, Colpo su colpo, Introduzione a Sproni, Corbo Fiore, Venezia 1976, tr. it. di Éperons.
61 L’intervento di Derrida non si limita a questa critica dell’approccio ermeneutico heideggeriano, ma va oltre e giunge a portare alla luce – ecco la lettura obliqua che è il riconoscimento di ciò che Derrida definisce «movimento obliquo»159
presente in Heidegger – una sorta di tendenza decostruttrice della metafisica del proprio che sarebbe in qualche misura già all’opera in Heidegger, precisamente nel suo pensiero dell’Ereignis, e che lo avvicinerebbe sorprendentemente alla posizione di Nietzsche, che pure egli non aveva pienamente compreso. Nello specifico, Derrida si sofferma sul fatto che in Heidegger il proprio dell’essere si configura come Ab-grund (origine senza fondo) in cui la dinamica del velamento e dello svelamento, in realtà, non si distinguono nettamente160
, così come si rendono convertibili l’appropriazione e l’espropriazione:
«la proprietà e la propriazione del proprio viene precisamente denominata ciò che è proprio a niente, e quindi a nessuno, ciò che non decide più dell’appropriazione della verità dell’essere, e rinvia nel senza-fondo dell’abisso della verità come non-verità, lo svelamento come velamento, l’illuminazione come dissimulazione, la storia dell’essere come storia nella quale nulla, nessun essente si produce, ma solo il processo senza fondo dell’Ereignis, la proprietà dell’abisso (das Eigentum der Ab-grundes) che è necessariamente l’abisso della proprietà e anche la violenza di un evento che si produce senza essere. L’abisso della verità come non-verità, della propriazione come appropriazione/a-propriazione»161.