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Capitolo II Nel silenzio

2.1 La scrittura e la differenza

All’inizio di questa esposizione si è fissato l’obiettivo di comprendere l’accezione di decostruzione o decostruzioni usata per riferirsi all’opera di Jacques Derrida; è necessario, adesso, iniziare a perseguire questo compito a partire dall’espressione che definisce la decostruzione come “filosofia della differenza”, cioè, a partire dal tema difficile ed assolutamente centrale nel pensiero di Derrida che porta il nome di différance.

Nella tesi di laurea di Derrida dal titolo Il problema della genesi nella filosofia di Husserl85 si trova il concetto di contaminazione originaria che, seguendo

l’interpretazione di Telmon86, consideriamo come la prima forma in cui si è presentata

nel suo pensiero la figura della différance. Nello specifico, l’analisi dell’emergere e dello svilupparsi di questo termine permette di cogliere il ruolo centrale che la scrittura assume nella pratica decostruzionista e di comprendere in che cosa quest’ultima precisamente consista.

Seguire il passaggio dalla configurazione di contaminazione originaria a quella di différance è necessario per capire fino in fondo il progetto filosofico dell’autore in cui la posta in gioco è la condizione di possibilità di un pensiero che – come si è tentato di evocare nei primi paragrafi – pensa la vita o l’alterità senza escludere il loro

85 J. Derrida, Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, Presses Universitaires de France,

Paris 1990, tr. it. a cura di V. Costa, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992.

86

27 costitutivo movimento che sconfina nei rispettivi termini oppositivi (in questo caso la morte e l’ipseità).

In quest’analisi sarà necessario intrattenersi con alcuni interlocutori privilegiati da Derrida e con i quali egli si è mantenuto in un confronto costante: Hegel e Husserl innanzitutto, ma anche Nietzsche, Lévinas, Freud ed Heidegger. La prima fonte da prendere in considerazione, sia per ragioni storiografiche che di senso, è Hegel la cui lettura è giunta a Derrida mediante la visione di Alexander Kojève87, circostanza non

trascurabile se si considera la portata heideggeriana dell’interpretazione che il filosofo russo fornisce della Fenomenologia dello spirito88

.

Per molto tempo, nel dibattito storiografico su Derrida, si è ritenuto adeguato attribuirgli la posizione di “anti-dialettico”; tuttavia il confronto con Hegel non può essere facilmente ridotto ad una forma semplice, anzi, oltre ad essere largamente attestato nel corso della produzione del filosofo89

, risulta come un elemento fondamentale per la sua costituzione che merita, dunque, paziente attenzione. Il primo nome che Derrida utilizza, infatti, per riferirsi alla contaminazione originaria è proprio

87 Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. leçons sur la "Phénoménologie de l'esprit"

professées de 1933 à 1939 à l'École des hautes études, Gallimard, Paris 1947, tr. it. a cura di G. Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996. È bene precisare che il campo della ricezione

francese di Hegel si è determinato proprio a partire dai lavori di Koyré e Kojéve, che attraverso il discorso hegeliano filtrano le esperienze dell’esistenzialismo e della fenomenologia tedesche, con un’evidente influenza esercitata dall’opera di Heidegger (specialmente dalle riflessioni sulla temporalità sviluppate in

Essere e Tempo).

88 G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Gesammelte Werke Vol. IX, hrsg W. Bonsiepen e R.

Heede, Rheinisch-Westfälichen Akademie der Wissenschaften, 1980; tr. it di V. Cicero, Id., La

fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000.

89A parte i testi direttamente dedicati ad Hegel (come Dall’economia ristretta all’economia generale. Un

hegelismo senza riserve (1967); Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel (1968), Timpano (1972); Glas (1974)), «il confronto con Hegel è attestato fin dagli anni della formazione di

Derrida: nel ’60-’61 tenne alla sorbona un seminario intitolato “Le Présent (Heidegger, Aristotle, Kant, Hegel, Bergson)”, che, sembra lecito supporre, presenta il primo materiale per Ousia e grammé; un anno dopo, sempre alla Sorbona, un seminario su “Spinoza e Hegel”; nei primi anni settanta un ciclo di quattordici sedute su “La famille de Hegel” (1971-1972) all’ENS, Oxford e Johns Hopkins. Tale confronto si protrae anche dopo gli anni ottanta: nel febbraio del 1987 tiene un «seminaire restreint» intitolato “Hegel”; un mese dopo un altro intitolato “Blanchot-Hegel”; un anno dopo ancora un altro dal titolo “Hegel”» ( S. Soresi, Derrida e Hegel. Linee per un confronto, in J. Derrida, Le temps des adieux.

Heidegger (lu par) Hegel (lu par) Malabou, in «Revue Philosophique de la France et de l’étranger», n. 1,

28 quello di dialettica che finisce per dileguarsi del tutto nei lavori successivi dell’autore; ciò proprio in riferimento alla sua riflessione sui limiti del sistema hegeliano:

«Il nome filosofico con cui caratterizzavo con maggior frequenza tale contaminazione originaria, era il nome di dialettica. Questo nome è scomparso nei miei testi. Via via che andavo avanti mi trovavo costretto a mettere in questione lo schema, il grande schema dialettico della filosofia… Si trattava allora… di un indizio del percorso: mentre lo schema della contaminazione originaria è rimasto assolutamente imperturbabile, la determinazione, l’interpretazione, di questa contaminazione originaria come dialettica è precisamente ciò che lungo l’itinerario è cambiato»90

.

Derrida riconosce ad Hegel il grande merito di essere stato il primo nella storia della filosofia occidentale ad aver mostrato che essa è interamente fondata sul concetto di presenza che elude da sé e dal suo campo d’azione ogni riferimento alla negatività, all’alterità, alla differenza; per questo motivo Hegel risulta come il primo filosofo ad essersi aperto alla storia ed al divenire. Pur assumendo questa posizione eccezionale, tuttavia, Hegel non riesce, agli occhi di Derrida, a farvi fronte fino in fondo, infatti, le opposizioni che per la prima volta vengono da lui portate alla luce sono altresì rimosse nel movimento della Aufhebung91; nel sistema hegeliano la differenza è posta come condizione del movimento dialettico, ma Hegel non ha la forza di riconoscere questo movimento stesso come punto originario.

Al contrario, l’interesse di Derrida è interamente rivolto al movimento mediante cui si producono i poli dell’opposizione; risiede qui il motivo cruciale dell’abbandono del termine dialettica: la sua différance non intende nominare solo la necessità di introdurre il movimento nello sviluppo del pensiero, come suggerisce il concetto di

90

Colloquio con Jacques Derrida, a cura di M. Telmon, in « Paradosso », 2/1992, p 187.

91 «Aufhebung è rilevare, nel senso in cui «rilevare» vuol dire ad un tempo spostare, sollevare, sollevare,

rimpiazzare e promuovere in un solo e unico movimento» (J. Derrida, Fini dell’uomo, in Marges – de la

philosophie, Paris, Minuit, 1972; tr. it. di M. Iofrida, Id., Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997,

29 contaminazione originaria in riferimento alla dialettica di Hegel, ma nutre l’esigenza di radicalizzare questo problema stesso, di portarlo ad un livello più originario riconoscendo che la contaminazione originaria, configurata come différance, è essa stessa un’attività, come si evince dalla desinenza francese ance e che non può essere sinteticamente risolta.

Una simile radicalizzazione può avvenire solo all’interno dell’orizzonte del pensiero heideggeriano già presente, come si accennava, nell’interpretazione kojèviana dell’opera di Hegel; Derrida è fermamente convinto, infatti, che pensare la differenza dopo Hegel sia possibile solo a partire da Heidegger. Questa convinzione si basa sul fatto che Heidegger è colui che porta alle estreme conseguenze la speculazione hegeliana e con essa l’intero pensiero occidentale dal momento che, nell’indagine sulla differenza ontologica, si incammina verso la differenza originaria. Derrida è interessato soprattutto al gesto heideggeriano per eccellenza che è un gesto distruttivo92 rispetto alla

tradizione filosofica che nel suo orizzonte di pensiero può essere identificata con la metafisica; Heidegger, come è noto, svela che il sistema onto-teologico della metafisica si basa su una scorretta ed incompleta interpretazione del tempo a partire da cui ha preso avvio la sovrapposizione fra il presente e la presenza, da lì in poi pensata nel pieno oblio della differenza ontologica.

Al di là della complessità e della portata del pensiero heideggeriano sulla metafisica, che qui non è il caso di esaminare nei suoi intrecci e dettagli, basti concentrarsi sul fatto che per Derrida, una volta constatato con Heidegger che l’essere è inaccessibile in quanto è ciò che differisce dall’ente, proprio tale differenza si pone

92 È necessario specificare che definire come distruttivo il gesto heideggeriano nei confronti della

metafisica non coincide, qui, con l’intenzione di riferire un concetto di valore negativo allo stesso; infatti, in Heidegger, non vi è la pretesa di tralasciare la tradizione metafisica piuttosto il proposito di realizzarne il compimento a partire dalla piena assunzione di quest’orizzonte stesso. Non si riscontra alcuna distruzione della tradizione metafisica nel senso di una sua rimozione o cancellazione nel pensiero heideggeriano, che, anzi, intende concentrarsi sulla storia del pensiero a partire dal movimento destinale dell’essere. È esattamente questo l’elemento in cui si condensa l’ingente credito che Derrida riconosce al filosofo tedesco.

30 come il solo elemento che rimane possibile pensare a patto che la si riconosca come un movimento di ritiro e di sottrazione dall’Essere. Tuttavia – ed è questo il punto focale – l’intuizione heideggeriana consiste nell’affermare che questo movimento di ritiro e sottrazione si dà nel linguaggio inteso come un’apertura privilegiata in cui giunge la destinazione storica dell’essere. Cercando di semplificare il più possibile, si può affermare che il merito straordinario di Heidegger è per Derrida aver determinato che il pensiero della differenza si concretizzi nella decostruzione del senso dell’essere come presenza così come si è manifestato per tutto il corso della storia della filosofia occidentale; questo comporta la necessità di rivolgersi alle determinazioni storiche e linguistiche in cui si è reso evidente questo modo di darsi dell’essere come presenza e che Derrida riconosce, per ragioni che vanno gradualmente indagate, nei testi metafisici.

Il pensiero heideggeriano apre, pertanto, la breccia nella cui direzione la pratica decostruzionista prende le mosse; è utile, però, prima di procedere nell’analisi dell’eredità heideggeriana, fare un ulteriore riferimento per cogliere gli altri due importanti contatti che, proprio in relazione alla lingua come sistema di differenze, Derrida ha con la riflessione strutturalista93

, in particolare con la linguistica saussuriana, e con la filosofia di Husserl.

Riguardo a Saussure – di cui Derrida analizza particolarmente il Cours de linguistique generale94

– l’autore si concentra specialmente sul riconoscimento del carattere arbitrario e convenzionale del segno da cui consegue che non può esistere una gerarchia fra parola e scrittura poiché entrambe condividono l’istituzione non-naturale di un segno. Il secondo elemento della linguistica saussuriana che Derrida pone in questione è l’assenza di termini “pieni”, cioè il pensiero secondo cui quest’ultimi si

93 Per approfondire il contesto di critica allo strutturalismo cfr. J. Derrida, Forza e significazione, in

Violenza e metafisica, cit., p. 36.

94 F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1950, tr. it. A cura di T. De Mauro, Corso

31 costituiscono solo a partire dai rapporti di differenza che intrattengono vicendevolmente; questo permette a Derrida di affermare che nella lingua non si trovano differenze concettuali o foniche. Ciò significa che un segno non è determinato dalla sua natura grafica o concettuale, ma soltanto dalla rete di rinvii in cui è inserito.

Prendendo le mosse da questi assunti strutturalisti, Derrida pensa che il sistema onto-teologico della metafisica si sia chiuso alla differenza configurandosi come Logocentrismo, cioè rimuovendo mano a mano la scrittura come forma della differenza e identificando la voce come simbolo immediato della presenza. Lo strutturalismo giunge, invece, a stabilire l’indissolubilità di linguaggio e scrittura e pertanto riconosce la differenza come fenomeno originario; è interessante in questo senso notare che la parola francese différance è una parola idiomatica, cioè si scrive différance ma si pronuncia différence senza che si riesca ad avvertire questa differenza a meno di introdurre il piano della scrittura95

. Pur tuttavia, il limite dell’approccio strutturalista consiste, per Derrida, nella ricerca di una struttura della lingua che appare impossibile dal momento che il linguaggio è stato definito come gioco di differenze; in proposito Derrida adduce l’opera di Nietzsche come esempio di una scrittura non strutturabile, frammentata e caratterizzata da una molteplicità di sensi.

Considerare il linguaggio come ciò che si sottrae ad ogni struttura vuol dire dover riconoscere che la differenza è all’origine di ogni esperienza di linguaggio e quindi di pensiero; la metafisica – la cui demolizione è stata inaugurata proprio da Nietzsche – può essere indagata come l’insieme dei testi in cui è inscritto il tema della differenza e della sua rimozione. A questo punto, è possibile già chiarire che, proprio in virtù di questi presupposti teorici, rintracciare il grado di metafisicità presente negli autori della tradizione filosofica viene gradualmente a configurarsi come una costante

95 «La différance si riferisce ad un significato passando anche attraverso la grafia. Il significato qui

necessita della grammé oltre che della phoné, senza che si dia un primum, La différance contesta, ma non rovescia semplicemente la gerarchia fonologocentrica» (M. Vergani, Jacques Derrida, cit., p. 38).

32 centrale del metodo derridiano di interpretazione dei testi; questa strategia è portata avanti come una sorta di nietzschiano smascheramento dei presupposti metafisici delle opere, di volta in volta, prese in esame.

È possibile intravedere questa metodologia già considerando il primo ventennio di produzione di Derrida che appare profondamente segnato dal serrato confronto con il padre della fenomenologia che, alla stregua di quello che intrattiene più o meno negli stessi anni Paul Ricoeur96, si configura per i toni fortemente critici. Derrida dedica ad Husserl97

tre importanti scritti: la già citata tesi di laurea Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, l’Introduzione a Husserl, l’origine della geometria98 e da ultimo, per chiudere i conti con quest’autore, scrive La voce e il fenomeno99

. Prestare attenzione al contatto con il pensiero fenomenologico di stampo husserliano dà la possibilità di comprendere lo sviluppo della vicinanza del pensiero di Derrida con la scrittura che di fatto non può essere ridotta ad un semplice tema tra gli altri, ma giunge ad essere uno dei nomi propri della decostruzione. Inoltre, permette di cogliere il senso in cui Derrida recepisce il pensiero heideggeriano della differenza ontologica e riesce altresì a distaccarsene proprio mediante il suo pensiero della différance in cui è riposta tutta l’originalità del suo gesto filosofico.

All’interno della filosofia di Husserl, Derrida individua una sorta di dilemma, egli ritiene, infatti, che questo pensatore abbia, per un verso, rintracciato il movimento

96 Cfr. P. Ricoeur, A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986.

97 Così si esprime Derrida in merito al suo rapporto con la fenomenologia: «Husserl non è stato il mio

primo amore in filosofia. Ma ha lasciato sul mio lavoro una traccia profonda. Nulla di ciò che faccio sarebbe possibile senza la disciplina fenomenologica, senza la pratica delle riduzioni eidetiche e trascendentali, senza l’attenzione portata ai sensi della fenomenalità, ecc. è come un esercizio preliminare a qualsiasi lettura, a qualsiasi riflessione, a qualsiasi scrittura. Anche se, raggiunto un certo punto, credo di dover tornare a mettere in questione i limiti di questa disciplina, i suoi principi, e «il principio dei principi» intuizionista che la guida» (J. Derrida, Au-delà des apparences, France 2002, tr. it. a cura di S. Maruzzella, Al di là delle apparenze. L'altro è segreto perché è altro, Mimesis Edizioni, Milano ‒ Udine 2010, p. 28).

98

J. Derrida, L’origine de la Géométrie, Presses Universitaire de France, Paris 1962, trad. it. a cura di C. Di Martino, Introduzione a Husserl, il problema dell’origine della geometria, Jaca Book, Milano 1987.

99 J. Derrida, La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de

Husserl, Presses Universitaires de France, Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, seconda ed., con

33 della differenza, ma lo abbia altresì ridotto alla dimensione espressiva del segno e del linguaggio al fine di preservare come pura la dimensione più originaria della produzione del senso e della presenza. Ciò che Derrida pone in questione è proprio la purezza dell’origine fenomenologica secondo lui messa in crisi dalle analisi che Husserl conduce sul segno e sul linguaggio. Come è noto, infatti, nel pensiero di Husserl il livello espressivo e coincidente con l’identità pubblica del fenomeno è preceduto da un’esperienza fondante del vissuto basata sulla circostanza per cui la coscienza è immediatamente cosciente a se stessa. Sulla base di ciò Derrida afferma che: «da Parmenide ad Husserl, il privilegio del presente non è mai stato messo in questione»100. Questa prima valutazione generale relativa alla filosofia di Husserl resta quasi del tutto invariata nel corso dello sviluppo del pensiero di Derrida, che definisce con insistenza Husserl come il padre dell’intuizione, della «relazione immediata, sensibile o intelligibile, con la cosa stessa»101

.

Secondo Derrida, il problema nell’impostazione della fenomenologia di Husserl è che il pensiero risulta come immediatamente presente alla coscienza e, solo in un secondo momento, viene esteriorizzato nell’espressione; questo determina un fatto fondamentale: il presente poiché immediato nella coscienza non è attraversato dalla differenza che appartiene, invece, solo alla dimensione espressiva dei segni. Il segno, infatti, implica la distinzione fra sensibilità ed intellegibilità che, finché si mantiene aperta, rende possibile pensare ad un significato pienamente puro ed indipendente da ogni significante.

Si tratta, per Derrida, di un’impostazione gerarchica che gli sembra caratteristica di tutta la tradizione già bersagliata da Heidegger, da questi identificata con il nome di metafisica e che Derrida definisce come tradizione logocentrica; il

100 J. Derrida, Ousia e grammè, in Marges de la philosophie, Les édition de Minuit, Paris 1972, tr. it. di

M. Iofrida, Margini della filosofia, Enauidi, Torino 2002, p. 66.

101

34 termine logocentrismo, così come fonologocentrismo, come si vedrà meglio in seguito, nasce da una lettura della storia della metafisica in cui rientra anche Husserl e di cui Derrida evidenzia il privilegio sempre riservato al logos identificato con la phoné e posto in contrapposizione alla grammè, da cui è conseguita la supremazia della voce rispetto alla scrittura così come dell’intellegibile rispetto al sensibile e dell’anima rispetto al corpo. Quest’organizzazione gerarchica considera, infatti, la verità come istituita nella coscienza, luogo d’origine del discorso; inoltre le affida una posizione di maggiore vicinanza con la phoné piuttosto che con la scrittura.

Non a caso, la voce è descritta nel pensiero husserliano come il medium privilegiato del pensiero, ossia l’intermediario capace di animare e comunicare la purezza del significato; è a partire da ciò Derrida, in La voce e il fenomeno, definisce la voce come concetto strutturale della fenomenologia trascendentale ed è questo l’argomento portante che gli permette di inserire Husserl come l’ultimo tra gli esponenti della metafisica della presenza.

Riproporre infatti, in riferimento alla filosofia di Husserl, il problema del segno e della traccia come problema dell’origine – criticando l’essenzialismo fenomenologico e con la dichiarata intenzione di restituire al segno la sua preminenza e porlo come condizione di ogni genesi – ha innanzitutto il senso di dimostrare che, in questo orizzonte, è stato conferito un ruolo di second’ordine alla scrittura. Derrida ricorda di sovente, infatti, che da Platone102 fino a Husserl è prevalsa una certa interpretazione

102 Derrida dedica al Fedro di Platone un’attenta analisi che ha per tema principale quello della scrittura;

vale la pena, qui, di accennare il senso generale in cui l’autore si approccia al dialogo platonico. Il riferimento è alla circostanza in cui, nel Fedro, il dio Teuth presenta la scrittura come un rimedio (pharmakon) per la memoria del re Thamus. Quest’ultimo, tuttavia, declina l’offerta definendo il rimedio proposto come un veleno (pharmakon). Tutto gira intorno all’ambiguità del termine pharmakon, che rappresenta per Derrida, la produzione di differenza nella lingua come fenomeno più originario rispetto alla costituzione delle opposizioni semantiche. Derrida va oltre e mostra come usualmente si scelga di

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