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Capitolo II Nel silenzio

3.2 L’impossibile, il dono

Nel saggio di esordio di Psyché Derrida scrive:

«Il pericolo per un lavoro di decostruzione, sarebbe la possibilità e il fatto di diventare un insieme disponibile di procedure regolate, di pratiche metodiche, di vie accessibili.

166

Come chiarisce C. Resta: «questa figura retorica indica quel movimento di deviazione dell’oratore e del discorso per il quale, a un certo punto, la parola viene dis-tolta dal suo normale – e impersonale – procedere per essere ri-volta a qualcuno, per indirizzarsi a lui e cos’ interpellarlo, convocarlo e richiamarlo al discorso, tirarlo in ballo, metterlo in causa, implicarlo. L’apostrofe, perciò, indirizzandosi all’altro, rende unico il suo appello, ma per mezzo di un’adresse che è al contempo un détour», (C. Resta,

L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 22)

167 «”la tecnica”, non giunge alla lingua o al poema o alla Dichtung o al canto, intendimi: questo può

voler dire che non arriva a sfiorarli o intaccarli, li lascia vergini non riuscendo a giungere fino a loro, o piuttosto questo può anche voler dire che essa non arriva a loro come un accidente o un avvenimento, poiché ella li abita e li suscita» (J. Derrida, Invii, in La cartolina, cit., p. 206)

168 «Funzionando a condizione di un’assenza strutturale, la scrittura contesta la metafisica della presenza,

fonologocentrica. Condizione di possibilità della presenza è la ripetizione, iterabilità e alterabilità del senso, la sua genesi differenziale» (M. Vergani, Jacques Derrida, cit., p. 72).

65 L’interessante della decostruzione, della sua forza e del suo desiderio, se essa ne ha, sta in una certa esperienza dell’impossibile: vale a dire dell’altro, l’esperienza dell’altro come invenzione dell’impossibile, in altri termini come la sola invenzione possibile»169

.

Nel paragrafo precedente si è iniziato a parlare del confronto di Derrida con il pensiero dell’Ereignis di Heidegger, stabilendo come l’evento mostri la necessità di assumere la struttura di impossibilità e paradossalità in cui solo si dà ed è possibile pensarlo. Secondo l’interpretazione di C. Di Martino, quest’assunzione avviene pienamente nel graduale configurarsi del pensiero di Derrida come filosofia dell’evento. Abbandonando, per il momento l’orizzonte heideggeriano, è possibile rintracciare i tratti salienti dell’evento per Derrida ed in questo modo far emergere gli spostamenti più evidenti rispetto all’Ereignis di Heidegger, che rappresentano, in fondo, il modo in cui Derrida riceve, accoglie e lascia sopra-vivere quest’eredità.

Abbiamo già visto come Derrida insista molto sulla realtà/materialità della decostruzione e dichiari che la decostruzione è già sempre all’opera170

e abbiamo analizzato i motivi per cui nella figura dell’evento si può leggere ad un nuovo livello la decostruzione della presenza, la messa in luce dell’impossibilità della presenza di essere pienamente presente a sé. Bisogna, a questo punto, chiedersi quando opera questa decostruzione o, in parole più semplici, quali sono le condizioni di possibilità dell’evento.

Per Derrida, si può parlare di evento solo quando si è di fronte al superamento delle condizioni di possibilità; ammettere che ad accadere è solo il possibile equivale,

169

J. Derrida, Psyché. Invenzione dell’altro, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. I, cit., p. 28.

170 Al fine di ribadire ancora e meglio quest’aspetto decisivo della decostruzione, è utile quanto chiarisce

S. Regazzoni: «La decostruzione per avere luogo non attende l’operazione, l’atto di un soggetto che verrebbe ad applicarla, dall’esterno, a un qualche oggetto; e neppure attende la modernità o la postmodernità per manifestarsi: momento alessandrineggiante in cui, venuta meno la forza di produrre, si tratterebbe di smontare le forme tràdite di una cultura estenuata. La decostruzione è già da sempre all’opera. Prima ancora che il nome di “decostruzione” sia venuto a nominare, provvisoriamente, ad opera di un pensatore franco-algerino, in una precisa congiuntura storica e geo-politica , ciò che destabilizza il nome, ça operava già» (S. Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su

66 per lui, ad asserire che nulla accade. L’evento ha a che fare con ciò che non è anticipabile, con ciò che eccede l’ordine del previsto, del pre-compreso, del calcolato. L’evento deve inerire all’invenzione, cioè portare alla luce, al livello della possibilità e della realtà ciò che non vi rientra ed è, dunque, da considerarsi come l’impossibile. Il pensiero derridiano dell’evento chiude con ogni orizzonte di attesa nel senso che l’evento, pur essendo pensabile come ciò che e-viene, è al contempo qualcosa che non si può attendere perché non è dato sapere o anche solo anticipare che cos’è che viene o, come vedremo, chi è che viene. In effetti, un evento che sia tale riscrive lo stesso orizzonte di attesa, sospendendolo e riorganizzandolo in modo inedito.

L’evento è anche e strutturalmente una questione di tempo171

; tratto caratteristico dell’evento è di rendere la temporalità scordata, interrotta, sospesa, dis-giunta rispetto al concetto di tempo inteso come continuum. Si può, infatti, affermare che, per Derrida, ciò che avviene propriamente è solo ciò che ricade sotto l’ordine dell’evento; si comprende questo, però, solo se si analizza che significato assume in questo pensiero il concetto di avvenire. Ciò che viene e che può venire (ad-venire) è solo ciò che assume le sembianze della nuova temporalità, dell’evenemenzialità, ciò che non può essere determinato in anticipo, ciò che non si lascia vedere mentre viene. L’evento mette in gioco la possibilità dell’avvenire inteso non come futuro, ma esattamente come ciò che dissesta il futuro cronologicamente inteso: «l’avvenire di cui parliamo non è semplicemente il futuro presente; non è una parousia o una presenza del domani, è un altro rapporto alla presenza di ciò che viene»172

.

171 La questione della temporalità pensata come anacronia indomabile si ritrova, specialmente, in Spettri

di Marx, legata all’espressione letteraria presente nell’Amleto di Shakespeare «The time is out of joint».

Come si vedrà, l’evento ha una certa familiarità con la spettralità ed il politico. Cfr. J. Derrida, Spettri di

Marx, cit.

172 J. Derrida, Cristianesimo e secolarizzazione. Colloquio tra J. Derrida, G. Vattimo, M. Ferraris e V.

67 Dunque, la condizione di possibilità di un evento è rappresentata precisamente dalle sue condizioni di impossibilità, dal fatto cioè che esso non è il possibile perché non è riferibile a qualcosa di calcolabile, anticipabile o prevedibile. Se si pensa, però, all’evento come alla venuta dell’impossibile nel senso di ciò che è inanticipabile e che resta inappropriabile perché sconvolge, interrompe e disgiunge persino il nostro orizzonte di senso, bisogna ammettere che l’evento riguarda in qualche misura tutto ciò che accade – sebbene vada sempre ribadito che non tutto ciò che avviene sia classificabile sotto l’ordine di evento – dal momento che tutto ciò che accade dispone di un tratto di imprevedibilità. Allora, l’evento va, forse, esteso a tutto ciò che e-viene, che viene verso di noi, innanzitutto all’altro, al tu; Il concetto di avvenire pensato come a- venire, si fonda, infatti, sulla constatazione della precedenza dell’altro, nel senso in cui essa è esposta, ad esempio, in Ho il gusto del segreto:

«perché ci sia un avvenire come tale, una sorpresa, un’alterità, bisogna ne plus voir venir, bisogna che non ci sia nemmeno un’anticipazione, un orizzonte d’attesa. E dunque che l’avvenire mi venga addosso – mi avvenga, proprio quando nemmeno lo attendo, non lo anticipo, non lo vedo venire – significa che l’altro c’è prima di me, che mi previene. L’altro non è nemmeno semplicemente il futuro, è, per così dire, il prevenire, il pre-avvenire»173.

Come fa notare C. Resta174, questa precedenza dell’altro non è pensata in senso

cronologico, ma ontologico e mette in gioco un pensiero dell’altro che si sviluppa facendo riferimento alla sua radicale alterità che, poiché non è anticipabile né calcolabile e fa irruzione nel tempo presente, resta e va salvaguardata come inappropriabile. Inoltre, è interessante il suggerimento di Caterina Resta di guardare alla prossimità delle questioni dell’inventio e dell’invenire con i temi del venire, dell’evento e dell’avvenire; infatti, mi sembra, che trattando del pensiero di Derrida – ma

173 J. Derrida, Ho il gusto del segreto, in Il gusto del segreto, cit., p. 101. 174

68 probabilmente questa circostanza non si riduce solo a lui – è necessario non scindere le problematiche e le dimensioni in cui esso opera, poiché il desiderio, la forza della decostruzione, come si chiarisce nella citazione iniziale, consiste nell’invenzione175

di uno scarto scavato nell’idea di un soggetto pieno e in cui si rende possibile l’impossibile: ospitare il pensiero dell’altro, nel senso oggettivo e soggettivo di questo genitivo e anche al di là di questo senso stesso, per non ridurre l’altro ad alter-ego, per salvaguardare sempre il suo ed il mio segreto.

In base a tutte queste argomentazioni, Derrida definisce l’evento e la decostruzione come invenzione e precisamente come invenzione dell’impossibile; è bene cercare di capire il senso di questa definizione chiedendosi innanzitutto cosa sia un’invenzione. Il modo in cui l’autore francese pensa l’invenzione differisce dal modo consueto di intendere il termine riferendosi alla semplice scoperta coincidente con l’operazione di portare alla luce qualcosa che è già presente nell’orizzonte delle possibilità; questo tipo di invenzione si potrebbe chiamare invenzione del possibile176. Al contrario, l’invenzione di Derrida è svincolata dalla sovranità di un soggetto produttore; il concetto di invenzione, nell’ottica della decostruzione, viene ripensato a partire da ciò che non è riferibile allo stesso e a partire da un’alterità indecidibile preventivamente che deve essere lasciata venire. È nell’ottica di un tal modo di pensare

175 Mi sembra utile riportare ciò che scrive Derrida a proposito del carattere inventivo della decostruzione

e che giustifica, forse, il modo di procedere nella lettura dei suoi testi: «la decostruzione o è inventiva o non è; non si accontenta di procedure metodiche, apre un passaggio, è in marcia e marca; la sua scrittura non è solo performativa, produce regole – altre convenzioni – per nuove performatività e non si istalla mai nella sicurezza teorica di un’opposizione semplice tra performativo e constativo. Il suo passo implica un’affermazione. Quest’ultima si lega al venire dell’evento, dell’avvenimento e dell’invenzione. Ma lo può fare solo decostruendo una struttura concettuale e istituzione dell’invenzione che abbia cercato di sottoporre a controllo qualcosa dell’invenzione, della forza dell’invenzione: come se di dovesse, al di là di un certo statuto tradizionale dell’invenzione, reinventare l’avvenire» (J. Derrida, Psyché. Invenzione

dell’altro, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. I, cit., p. 37).

176 «L’invenzione è sempre possibile, è l’invenzione del possibile, téchne di un soggetto umano in un

orizzonte onto-teologico, invenzione in verità di tale soggetto e di tale orizzonte, invenzione della legge, invenzione secondo la legge che conferisce gli statuti, invenzione di istituzioni e conformemente alle istituzioni che socializzano, riconoscono, garantiscono, legittimano, invenzione programmata di programmi, invenzione del medesimo grazie alla quale l’altro fa ritorno al medesimo allorché il suo evento si riflette di nuovo nella favola di una psyché» (Ivi, p. 64).

69 che la decostruzione è definita come invenzione dell’altro; ciò si comprende proprio pensando che, poiché l’invenzione non è mai scoperta del possibile, ma è invenzione del l’impossibile, allora è invenzione dell’altro poiché l’altro è proprio ciò che non si inventa, ciò che viene verso di noi ma per cui non è dato prepararsi, ciò che non può né deve essere pensato in riferimento all’ipseità:

«dico proprio lasciare venire perché se l’altro è giustamente ciò che non si inventa, l’iniziativa o l’inventività decostruttiva non possono consistere che nell’aprire, dischiudere [déclôturer], destabilizzare delle strutture di forclusione [forclusion] per lasciare il passaggio all’altro. Ma non si fa venire, lo si lascia venire preparandosi alla sua venuta. Il venire dell’altro o il suo ritornare non è il sopravvenire possibile, ma esso non si inventa, benché occorra la più geniale inventività che ci sia per prepararsi ad accoglierlo: per prepararsi ad affermare l’alea di un incontro che non solamente non sia più calcolabile ma che non sia nemmeno un incalcolabile, un indecidibile ancora al lavoro della decisione. È possibile? No, naturalmente, ed ecco perché è la sola invenzione possibile»177.

Si tratta dell’esperienza dell’altro intesa come l’esperienza di un ritardo originario fra me e l’altro; è quell’esperienza descritta in L’aforisma in contrattempo178

, un saggio molto affascinante di Psyché e composto da alcune serie di aforismi179

, in cui ritorna la tematica della dis-giunzione del tempo, del tempo che è out of joint e che ricollega – finalmente – il nostro discorso alle tematiche evocate nel primo capitolo. In questo saggio, infatti, il tema dell’evento fuori tempo si collega all’esperienza impossibile della morte (l’impossibile) e anche a quello della scrittura. Abbiamo già detto abbastanza approfonditamente che, per Derrida, la morte non è un accidente, che essa non sopraggiunge, ma è l’impossibile condizione di possibilità del legame con

177 Ivi, p. 65.

178 J. Derrida, L’aforisma in contrattempo, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. I, cit. 179

«L’aforisma o il discorso della dissociazione: ogni frase, ogni paragrafo è votato alla separazione, si rinchiude, lo si voglia o no, nella solitudine della propria durata. L’incontro o il contatto sono sempre affidati al caso [chance], a ciò che cade, bene o male. Nulla è assolutamente garantito, né la sequenza né l’ordine. Un aforisma della serie può arrivare prima o dopo l’altro, prima e dopo l’altro, ciascuno può sopravvivere all’altro – e nell’altra serie», (Ivi, p. 154).

70 l’altro. In questo saggio, è presa in esame l’esperienza di Romeo e Giulietta in cui «l’impossibile ha luogo»180

; la loro storia è una messa in scena di tutti i «duelli/duali»181, infatti, questi due personaggi vedono l’altro morto e si danno la morte a causa, a ben vedere, di situazioni che possono essere ricondotte ad un’«anacronia aleatoria»182 ed esemplare, che può essere rappresentata da una lettera sviata, da un appuntamento mancato piuttosto che un farmaco che si rivela veleno o dall’ironia di un nome proprio. Romeo e Giulietta, entrambi, vivono la morte dell’altro e sopravvivono alla stessa, ma in tempi che sono fra loro scordati; eppure è solo questa sentenza di morte, l’esistenza di questo scarto o ritardo originario, ciò che arresta (arrêt)183 la morte stessa, ne ritarda la venuta e li unisce in un amore e in una promessa:

«Amo l’altro perché è l’altro, perché il suo tempo non sarà mai il mio. […] Posso amare l’altro solo nella passione di quest’aforisma. Che non avviene, non sopravviene come la disgrazia, la mala sorte o la negatività. Ha anzi la forma dell’affermazione più amorosa – è la chance del desiderio»184.

Derrida sostiene che questo dramma si sia trasmesso in varie ri-scritture e rappresentazioni lungo tutta la memoria dell’Europa perché mette in scena l’anacronia come possibilità essenziale, cioè come ciò che rende possibile la riabilitazione del pensiero di alcuni temi, come la morte o il ritardo, non riducendoli più a semplici accidenti e rendendoli la forma di quella discordanza senza cui «non ci sarebbe stato amore, il giuramento non avrebbe avuto luogo, e neppure il tempo né il suo teatro»185. Anche in questo contesto che si è scelto di analizzare più da vicino, ancora una volta,

180 Ivi, p. 159. 181 Ivi, p. 158. 182

Ivi, p. 156.

183 È utile notare come il termine francese arrêt significhi arresto nel senso di sosta o sospensione e

nell’espressione arrêt de mort assuma il significato giuridico di sentenza.

184 Ivi, p. 157. 185

71 ciò che si rende evidente è che «l’altro marca il sé del rapporto a sé»186

, che l’altro è ciò che ci precede. Riflettendoci, si tratta di una precedenza dello stesso ordine di quella su cui si fonda il Principio Postale, la logica aporetica degli invii, che possono essere e sono già da sempre destinati precisamente perché non appartengono al medesimo, ma provengono dall’altro.

La precedenza dell’altro, a cui la decostruzione intesa come invenzione dell’impossibile allude, conduce a considerare l’altro come un debito, ma non un debito dovuto al fatto che ci sia stato uno scambio con l’altro in cui questi ha donato qualcosa che si è chiamati a ripagare, piuttosto un debito che esiste già solo perché l‘altro è altro, è separato da me e questa separazione mi precede. Un debito originario, quindi, che pre- avviene, dal momento che l’altro si dà come altro, si dà a noi, ci si rivolge, viene a noi, ma senza che sia possibile appropriarsene. In qualche misura, questo movimento appropriante/espropriante era già attivo nel pensiero dell’Ereignis heideggeriano che Derrida, come già detto, si sofferma a pensare187 guardando alla sostituzione del Sein con l’es gibt, con il si dà (dell’essere); esso continua a funzionare, con i dovuti scarti, nel pensiero dell’evento di Derrida, specialmente in una delle figure dell’impossibile che è, appunto, quella del dono. Il dono sarebbe un’incarnazione esemplare dell’evento, ma a patto che esso sia un dono aneconomico; così pensato il dono può avere luogo solo in assenza di reciprocità o di debito in senso stretto, infatti, il circolo del ritorno è caratteristico dell’economia e dello scambio. Affinché questo circolo non prenda avvio, però, è necessario che il dono non si manifesti e non sia riconosciuto come tale188,

186 J. Derrida, Memorie per Paul de Man, cit., p. 36.

187 «Zeit und Sein avrà avuto il merito (non Martin Heidegger, non Zeit, non Sein, qualcosa dalle parti di

und, e Heidegger lo dice molto bene), e dunque avrà avuto la potenza di (sapere) (pensare) riallacciare tutto, di pensare a riallacciare tutto di pensare di riallacciare tutto, tutti gli inoltri del cammino, tutto il

Weg possibile e immaginabile, prima dell’essere e del tempo che c’è (es gibt) su quanto c’è da donare»

(J. Derrida, Invii, in La cartolina, cit., p. 37).

188 «Affinché ci sia dono, è necessario che il dono nemmeno appaia, che non sia percepito come dono» (J.

Derrida, Donner le temps, Galilée, Paris 1991; tr.it. di G. Berto, Id., Donare il tempo. La moneta falsa, Cortina, Milano 1996).

72 poiché perché non si restituisca bisogna che non si sia mai contratto un debito; non solo, ma è altresì necessario che anche il donatore non abbia coscienza del suo dono altrimenti il circolo del rimborso si istituisce comunque, configurandosi come auto- riconoscimento189. Il dono aneconomico è, allora, ciò che eccede la soggettività, la volontà o l’intenzione, è l’incondizionato; si comprende, però, come sia in effetti impossibile che abbia luogo un dono simile che non appaia come tale, che non sia percepito come tale e che, tuttavia, resti un dono. Consiste precisamente in questa impossibilità l’eccedenza, l’aporetica del dono che, lungi dal non essere possibile, è qualcosa al di là del possibile190. Il dono aneconomico che Derrida pensa a partire da un breve racconto di Baudelaire dal titolo La moneta falsa, si caratterizza per l’eccedenza e la gratuità assoluta, ma anche per un rapporto del tutto singolare con la temporalità.

Il tempo del dono è esattamente quello dell’evento, dell’evenemenzialità; infatti, se, come si è detto, ogni fenomenologia del dono, ogni sua manifestazione presente, lo rende impossibile, esso, come l’evento, va pensato come non programmabile, come ciò che sfugge ad ogni teoria del dono in quanto sfugge alla ragione e alla rappresentazione. È interessante questo punto, infatti, quanto appena detto conduce a vedere come ogni tentativo di interpretare il dono o l’evento al di là della presenza e della manifestazione fenomenologica dia luogo ad un evento di interpretazione che, in quanto tale, interrompe ogni orizzonte di senso e obbliga alla sopportazione della contraddittorietà e dell’alterità assoluta. Ecco che si arriva all’altro importante passaggio e collegamento; infatti, parlare di evento di interpretazione ha chiaramente ha a che fare con quell’evento, in cui è già sempre all’opera il compito di decostruzione della presenza,

189 È questa la rappresentazione del dono fornita dalla metafisica classica che Derrida intende decostruire;

egli si riferisce in particolar modo agli studi sul dono di Marcel Mauss e Émile Benviste.

190 Questa distinzione fra un impossibile, che sia semplicemente coincidente con ciò che non è possibile, e

l’impossibile come ciò che è al di là del possibile, è resa nelle opere di Derrida dall’utilizzo

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