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IV Capitolo «Vieni»

4.4 Sovranità e democrazia

L’ultimo testo di Derrida su cui vorrei concentrarmi è Voyous328

, in cui ritorna l’argomento della vita e della morte o della-vita-e-la-morte da cui questo lavoro ha preso le mosse. Questa è un’opera integralmente attraversata dal tema della sovranità che viene ripensato al di là del concetto di ipseità. Si tratta di comprendere che connessione esiste fra questi due termini ed in che modo la loro analisi possa apportare qualcosa nella conclusione di un excursus sulla decostruzione.

Della sovranità è detto che essa è un fantasma (fantasme) e questo termine non è da confondere con ciò che indica la parola revenant329

. Se lo spettro è un elemento destabilizzante per ogni processo di assimilazione totale, il fantasma è ciò che vi resiste. Nello specifico, la sovranità è il fantasma di onnipotenza e di autodeterminazione assoluta di sé ed in questo senso si lega all’ipseità. È così che, in Voyous, per parlare della sovranità Derrida sceglie di utilizzare il termine ipseità; da un punto di vista filologico vi è, infatti, qualcosa che lega il potere sovrano e l’essere sé di un sè330

; tuttavia non è questa la via privilegiata della decostruzione.

Nello svolgimento di questo lavoro di tesi la figura dell’ipseità è stata centrale e si è declinata in numerose sfaccettature: come idea di un’identità rigida che ha ceduto il posto al pensiero della contaminazione necessaria fra io e altro; come senso univoco della parola scritta a cui si è scelto di porre come alternativa i concetti di traccia e di différance; come l’architettonica della ragione e il tentativo di riduzione delle lingue

328 J. Derrida, Voyous, Galilée, Paris 2003; tr. it. di L. Odello, Id., Stati canaglia, Cortina, Milano 2003. 329 «Nelle serie di parole quasi equivalenti che designano precisamente l’ossessione, spettro, a differenza

di revenant, dice qualcosa dello spettacolo, lo spettro è in primo luogo il luogo del visibile. Ma visibilità invisibile, la visibilità di un corpo che non è presente in carne ed ossa. Si rifiuta all’intuizione cui si dà, non è tangibile. Fantasma conserva la stessa referenza al phainestai, all’apparire per la vista, al brillare del giorno, alla fenomenalità» (J, Derrida, Ecografie della televisione, cit., pp. 129-130).

330

Derrida rinvia a Benveniste, riferendosi in particolare a É. Benveniste, Problèmes de linguistique

générale, Gallimard, Paris 1966; tr. it. di M. V. Giuliani, Problemi di linguistica generale Milano, Il

125 all’Uno, in contrapposizione ai quali Derrida propone il pensiero di una lingua che non ci appartiene mai. Pragmaticamente si può affermare che l’ipseità si è rivelata come oggetto privilegiato della decostruzione.

In Stati canaglia, Derrida intende decostruire il concetto di sovranità separando la sovranità dall’ipseità del se stesso e del suo potere. Sullo sfondo di questo testo si situano sia le argomentazioni di Politiche dell’amicizia sia il pensiero di Carl Schmitt, anche se la questione della decostruzione della sovranità si riferisce a una tradizione più ampia: la tradizione teologico-politica331

di una sovranità che prevede il diritto di sospendere il diritto, il diritto di decidere d’eccezione ed incondizionatamente332. La decostruzione della sovranità si dimostra come il tentativo di dissociare l’incondizionalità della sovranità dall’incondizonalità dell’ipseità in un senso che bisogna indagare.

«Con ipseità, sottintendo dunque un certo ‘io posso’, o per lo meno il potere che si dà a se stesso la propria legge, la propria rappresentazione di sé, il raccoglimento sovrano e riappropriante di sé nella simultaneità dell’assemblaggio o dell’assemblea, dell’essere-insieme, del ‘vivere insieme’ come anche si dice»333

.

Prima di dedicarmi in particolare alle pagine di Voyous, vorrei inserire due elementi fondamentali di Politiche dell’amicizia: la dialettica identitaria amico-nemico e lo schema fraterno e genealogico della sovranità. In questo testo, infatti, Derrida offre un’analisi dettagliata dello schema di potere che lega tradizionalmente la politica – e

331

«Non bisognava attendere Schmitt per sapere che il sovrano è colui che decide eccezionalmente e performativamente dell’eccezione, colui che conserva o si dà il diritto di sospendere il diritto; né per sapere che questo concetto politico-giuridico, come tutti gli altri, secolarizza un’eredità teologica» (J. Derrida, Stati canaglia, cit., 218).

332 La posizione di Derrida sulla sovranità è molto distante da quella di J.-L. Nancy secondo il quale, ad

esempio, la sovranità non secolarizza l’onnipotenza divina, ma chiude con la teologia politica dal momento che ha origine democratica (cfr. J.-L. Nancy, La Création du monde ou la mondialisation, Galilée, Paris 2002; tr. it. di G. Tarizzo e M. Bruzzee, Id., La creazione del mondo o la mondializzazione, Torino, Einaudi, 2003).

333

126 peculiarmente la democrazia – al modello di amicizia e fraternità, inteso come quel rapporto simmetrico di uguaglianza a cui si alludeva a proposito della legge come diritto. Di questi argomenti intendo mettere in luce solo alcuni aspetti per questioni pratiche e perché sono numerose ed autorevoli le analisi di questo testo che a ragione ha richiamato l’attenzione degli interpreti334

. Per cominciare dal paradigma della fraternizzazione, bisogna ricordare che Derrida ritiene che esso sia stato presente nella tradizione greca come in quella ebraico-cristiana, costituendo un modello su cui il politico non ha mai smesso di fondarsi. Il pensiero di una fraternità naturale è ciò in base a cui l’idea di amicizia si è sempre ispirata, agendo nello spazio politico e democratico.

Il filosofo contesta quest’idea nel tentativo di «snaturalizzare la figura del fratello»335, cioè di porre in questione il fondamento naturalistico o biologistico dell’ideale di un’amicizia virile e fraterna. Come è facile comprendere, a quest’ideale si legano direttamente i concetti di nascita, di natura, di sangue o di nazione, producendo talvolta effetti inquietanti e mostrando l’elemento genealogico di questo schema. L’eugenia, l’autoctonia, l’isogonia ed anche il semplice concetto di uguaglianza che riduce lo spazio politico al calcolo e alla simmetria sono solo alcune delle conseguenze di quest’impostazione; essa è pienamente percepibile ancora oggi nella ricomparsa di nazionalismi ed etnicismi a volte esasperati336

.

In secondo luogo e prendendo in analisi il pensiero di Schmitt, Derrida ricorda come lo spazio del politico si apra in effetti solo là dove vi è la possibilità di distinguere fra amici e nemici, dove cioè può essere attuata l’identificazione con sé e la distinzione

334 Cfr. C. Resta, Politiche dell’ospitalità, in L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, cit. 335 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 190.

336 In Politiche dell’amicizia questo tema, già presente in Schmitt, viene trattato in riferimento alla de-

localizzazione del politico e quella che il filosofo definisce mondializzazione. Se il concetto del politico, infatti, si fonda sull’idea di un territorio stabile e di confini netti, risulta scosso da questa trasformazione dello spazio. Come fa notare C. Resta, il riferimento è qui a ciò che Heidegger, Schmitt o Jünger avevano pensato rispettivamente mediante i concetti di Hiematlosigkeit, Entortug e Mobilmachung (cfr. C. Resta,

127 dall’altro. Per inaugurare una politica dell’amicizia bisogna perciò riconoscere il nemico,

«bisogna sapere chi è chi, chi l’amico e chi il nemico, e saperlo non nella forma di un sapere teorico, ma nella forma dell’identificazione pratica. Sapere consiste qui nel sapere identificare l’amico il nemico. L’identificazione pratica di sé – e di sé con sé – , l’identificazione pratica dell’altro – e dell’altro con altro –, sembrano essere tanto delle condizioni quanto delle conseguenze dell’identificazione dell’amico e del nemico»337

.

In quest’ultima citazione torna il riferimento alle condizioni del politico e, più in generale, della sovranità. Come già precisato, l’obiettivo di Derrida è la decostruzione della sovranità mediante la sua separazione dall’incondizionalità dell’ipseità, cioè dal potere di autodeterminarsi in modo assoluto. Anche in base all’analisi offerta in Politiche dell’amicizia delle forme storiche che la sovranità ha assunto, bisogna ammettere la presenza di una certa indissociabilità fra sovranità ed incondizionalità.

Sia in Stati canaglia che in Incondizionalità o sovranità338, per rendere l’idea di

quest’indissociabilità339, Derrida fa ricorso all’esemplarità dell’Università. Questa può

essere considerata come una figura della sovranità senza condizione cioè assolutamente indipendente, eppure proprio la sua incondizionalità è ciò che la rende anche senza potere e senza difese. L’incondizionalità, infatti, rischia sempre di trasformarsi in una resa incondizionata al potere, tuttavia Derrida mostra come solo in questo caso sia possibile riscontrare un tipo di forza differente, una «forza senza potere»340 o «forza debole»341

, come egli la definisce.

337

J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 140.

338 J. Derrida, Inconditionnalité ou souveraineté. L’Université aux frontières de l’Europe, traduction-

annotation V. Bitsoris, Athénes, Patakis, 2002.

339 Inconzionalità o sovranità è il titolo della conferenza tenuta ad Atene nel 1999, all’Università Pantion;

come mette ben in luce Regazzoni la congiunzione ou ha sia valore disgiuntivo che ne annuncia la scissione, sia valore esplicativo in quanto rende conto della circostanza che la sovranità è sempre incondizionale (cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, cit., pp. 524- 530).

340 Ibidem. 341

128 L’espressione “forza debole” aiuta a comprendere come l’incondizionalità renda senza potere, ma non senza forza; essa espone, rende vulnerabili, ma annuncia al contempo un nuovo spazio ed un nuovo pensiero del politico proprio in virtù di un nuovo concetto di forza.

Il caso dell’Università senza condizione permette di capire che dissociare la sovranità e l’incondizionalità è impossibile, nel senso che «ne va proprio di un altro pensiero del possibile (del potere, dell’io posso padrone e sovrano, dell’ipseità stessa) e di un im-possibile che non sarebbe soltanto negativo»342

. Proprio una certa assenza di potere, un im-potere, è ciò che determina la possibilità di un’«esposizione incondizionale (exposition inconditionnelle)»343 alla venuta dell’altro.

Nel corso di questo lavoro, si sono già presi in esame i motivi per cui l’evento è da considerarsi evento dell’altro ed è incondizionato; se la sovranità è quel fantasma che in quanto tale ha a che fare con ciò che si vede venire e che ha la necessità di sapere chi è chi, chi è nemico e chi è amico, con la decostruzione del modello giuridico-politico della sovranità incondizionata si apre, invece, uno spazio in cui può operare l’incondizionalità senza potere. Per la determinazione di questo spazio aperto, il filosofo fa ricorso all’Università come a quel luogo aperto e le cui caratteristiche sono dovute al fatto che essa è «non solo cosmopolita, ma universale, estesa così al di là della cittadinanza mondiale e dello Stato-nazione in generale»344

.

Derrida distingue tre figure della sovranità incondizionale: il dono, il perdono e soprattutto «l’ospitalità incondizionale»345

che eccede tanto il potere sovrano quanto il diritto e che si pone come principio assoluto a cui ogni etica o politica dell’ospitalità deve ispirarsi. Come già esposto nei paragrafi precedenti, la sovranità ha origine in

342

J. Derrida, Stati canaglia, cit., p. 203.

343 Ibidem.

344 J. Derrida, L’Université sans condition, Paris, Galilée, 2001; tr. it. di G. Berto, Id., L’Università senza

condizione, con P. A. Rovatti, Cortina, Milano, 2002, p. 13.

345

129 ambito giuridico-politico, ma, poiché si può pensare una sovranità incondizionale, bisogna ammettere che essa eccede già sempre il politico e il giuridico così come eccede il campo dell’etica; l’incondizionale della sovranità, che può declinarsi nella figura dell’ospitalità per esempio, apre uno spazio ultra-giuridico, ultra-politico e ultra- etico che ingiunge la trasformazione di tutte e tre queste determinazioni. L’incondizionale ingiunge innanzitutto l’ospitalità senza condizioni dell’altro come tutt’altro, cioè un’ospitalità differente da quella condizionale del diritto. In ciò non è da leggersi la proposta di distruzione o deposizione del diritto in quanto l’eccesso incondizionale è proprio ciò che promuove la trasformazione e l’invenzione del diritto. È grazie a questa precisazione che è possibile non semplificare il pensiero di Derrida come quello di un’ospitalità illimitata e senza rischi; la decostruzione tiene ben presente l’obbligo di calcolare i rischi, ma non intende chiudere con l’incalcolabile.

La sfida all’ipseità, al concetto di proprio e di medesimo, trova la sua configurazione completa nel pensiero di Derrida, quando il filosofo descrive ciò di cui la democrazia è priva:

«è il senso proprio, il senso stesso dello stesso (ipse, metipse, metipsissimus, meisme, medesimo), è il se stesso ciò che manca alla democrazia. La democrazia e l’ideale stesso di democrazia si definiscono attraverso questa mancanza del proprio e dello stesso»346.

La democrazia è priva di un «paradigma assoluto, costitutivo o costituzionale»347

, manca sempre di una forma o di un’identità; la democrazia più che essere definibile in modo determinato, è da pensare come ciò che a livello istituzionale può ricevere forme eterogenee e ogni volta nuove. La democrazia è la figura per eccellenza di ciò che

346 Ivi, p. 64. 347

130 Derrida definisce come auto-decostruzione del politico348

e che si configura come processo di autoimmunità: «quella strana logica illogica per la quale un vivente può spontaneamente distruggere, in modo autonomo, ciò stesso che, in lui, è destinato a proteggerlo contro l’altro, a immunizzarlo contro l’intrusione aggressiva dell’altro»349

. Non limitandosi solo a prendere in prestito questo termine dal lessico biologico, Derrida collega il fenomeno autoimmunitario realizzato degli anticorpi alle caratteristiche virtuose degli immunodepressori; così facendo egli svela il cammino di quella logica secondo cui è necessaria una certa autodistruzione del sé al fine di poter ospitare l’altro senza rigetto. L’andamento di questa dinamica, in cui l’autodistruzione di sé è favorita solo dalla presenza dell’altro e secondo la quale si può ospitare l’altro solo rendendosi assolutamente vulnerabili, a rischio e senza potere, dà forma a quella forza della debolezza a cui si accennava poco sopra e che si pone come condizione necessaria per l’evento dell’altro.

Considerando lo schema autoimmunitario non solo in riferimento alla singolarità, ma in generale al vivente, Derrida fornisce un pensiero della vita – della sua salute e della sua salvezza – come strettamente legata alla sua minaccia e alla sua morte. Ciò non significa che il filosofo insista sul suicidio o il sacrificio di sé nel senso comune di questi termini, ma che nel cuore della vita e di tutto ciò che la riguarda vi è la differenza, la contaminazione che è innanzitutto contaminazione della vita con la morte. Probabilmente è possibile comprendere meglio i motivi per cui questo è stato il tema di partenza del lavoro di tesi e si può intravedere che in ciò consiste il nesso che lega questa struttura della vita a ciò che assume il nome di democrazia. Regazzoni afferma

348 Derrida propone un’analogia fra la funzione della democrazia in ambito politico e il nome χώρα rferito

all’ambito ontologico. Per l’approfondimento di quest’ultimo concetto cfr. J. Derrida, Khora, Paris, Galilée, tr. it. di F. Garritano, Chora, in Il segreto del nome, cit.

349

131 che «la democrazia è prova della morte al cuore del politico»350

. Il senso di questa frase si coglie se si pensa a ciò che è stato esposto a proposito della sovranità: essa è stata definita come fantasma dell’ipseità, del sé, della propria vita da preservare sempre, ad ogni costo, come sana, salva, immune. La democrazia come figura istituzionale emblematica dell’incondizionalità è ciò che rompe il tempo di questa sovranità, ciò che ne disaggiusta il funzionamento egemone; la democrazia destinata originariamente alla propria continua autodistruzione, al proprio costante ripensamento e nella certezza che non potrà far altro che mancare sempre a sé stessa, apre lo spazio all’evento e alla venuta dell’altro.

Il pensiero di Derrida sulla democrazia è stato spesso definito come inconcludente, come se non riuscisse ad apportare alcunché alla filosofia politica classica; in effetti il concetto di democrazia non è definibile neanche come un concetto: la democrazia è ciò per cui «non esiste alcuna idea»351

.

È chiaro che ciò che la democrazia, così come viene presentata da Derrida, offre da pensare è proprio questa strutturale mancanza e questa decostruibilità che fornisce la possibilità di compiere sempre quel passo al di là del possibile, del calcolabile, del già dato. Permette di sentire l’ingiunzione di fare l’impossibile senza la certezza che questo sia possibile, ma non rinunciando all’eccedenza a cui tale ingiunzione espone. La democrazia fa, in ultima analisi, quanto fa la decostruzione dello stesso: porta avanti un compito senza fine, senza sosta e senza determinazioni stabili, che promette l’apertura e l’esposizione radicale a ciò che viene. È per tali ragioni che Derrida non ha più dissociato il termine democrazia dall’espressione “democrazia a venire”.

La democrazia resta a-venire, non ha una fine o un unico fine poiché il suo compito è lasciare venire, lasciare avvenire, restare aperti all’evento, inventarsi e re-

350 S. Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su Jacques Derrida, cit., p. 551. 351

132 inventarsi nei tratti più propri, trasformare le proprie leggi, le proprie istituzioni e i propri valori per tentare costantemente di adeguarli a ciò che viene, a chi viene, sebbene un’adeguazione totale fortunatamente resti sempre impossibile. Fare l’impossibile, dunque, che, come si è ampiamente esposto, significa desiderare la giustizia, rimanere nello spazio aperto in cui essa avviene come evento dell’altro. Ciò che è in gioco in questo pensiero è, allora, preservare l’impossibile affinché non si riduca tutto a mera possibilità opzionale, affinché possa contare ancora la differenza, affinché occorra ancora tremare davanti all’altro, ad ogni altro e a chiunque altro; sentire l’obbligo di rispondergli: “sì, vieni”.

133

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