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IV Capitolo «Vieni»

4.1 La lingua dell’altro

La questione dell’accoglienza a cui, come si è appena visto, il pensiero di Derrida approda mediante la lettura dell’opera di Lévinas, si snoda a partire dall’orizzonte in cui il confronto fra i due filosofi si istituisce: il linguaggio219.

Quest’indicazione si svela particolarmente utile se si considera quel tema centrale per la decostruzione che è la traduzione220

; la scelta di occuparsi, a questo punto, di tale questione si basa, dunque, sull’origine del problema fra Derrida e Lévinas (e in fondo, come è probabilmente ormai possibile intuire, fra Derrida e l’intera tradizione metafisica), ma ha come obiettivo il desiderio, già annunciato in conclusione del capitolo precedente, di delineare le conseguenze di stampo etico e politico inerenti al pensiero dell’autore. Interrogarsi sulla traduzione, infatti, significa chiedersi come rapportarsi alla lingua dell’altro, ma ancor prima cosa si può indicare come lingua dell’altro e cosa può, invece, rappresentare la propria lingua.

219 «I problemi di cui ora tenteremo di chiarire il principio, sono tutti, in sensi diversi, problemi di

linguaggio: problemi di linguaggio e il problema del linguaggio. Ma se il nostro commento non è stato troppo infedele, dovrebbe essere riuscito a persuadere che non vi è nulla, nel pensiero di Lévinas, che non sia di per sé impregnato in tali problemi» (J. Derrida, Violenza e metafisica, in La scrittura e la

differenza, cit., p. 138).

220 Come mette bene in luce C. Resta, il fatto che il tema della traduzione sia al cuore della decostruzione

e risulti come ciò che probabilmente riesce meglio a nominarne il senso e praticarne il gesto, è messo in luce in più contesti da Derrida (cfr. C. Resta, Poetica e politica della traduzione, in La passione

dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, cit.). In questa sede, è interessante specialmente ciò che

l’autore dice in Memorie per Paul de Man, dove insieme è esplicitata la connessione tra traduzione e decostruzione, ma è anche chiarito il motivo per cui la decostruzione è da intendersi al plurale come decostruzioni: «Se mai dovessi arrischiare, Dio me ne salvi, una sola definizione di decostruzione, breve, ellittica, economica come una parola d’ordine, rinunciando alla frase, direi: più di una lingua», (J. Derrida, Memorie per Paul de Man, cit., p. 31).

87 Per addentrarci in questo problema filosofico, è molto utile l’analisi che Carmine Di Martino svolge sull’origine dell’interesse di Derrida al tema della traduzione221, mostrando come esso sia ravvisabile già in una traduzione che l’autore francese compie di un testo di Husserl, l’Appendice III a La crisi delle scienze europee, e che è presente nella versione francese del testo222

. Qui, Derrida si occupa di due concezioni della traduzione e del compito del traduttore: quella di Husserl, il filosofo che sembra protendere verso l’ideale di una traduzione univoca ed assoluta, e quella di Joyce, il letterato che, invece, sembra insistere sull’equivocità della parola e, più in generale, della lingua; per equivocità si intende il fatto che la parola è sempre carica di «intenzioni sepolte»223

e perciò non è mai identica a sé, chiusa o originaria. La concezione di Husserl è tipica di tutta la filosofia e rappresenta la tendenza verso la traducibilità assoluta e l’appropriazione del senso, ma, a sua volta, l’approccio joyceiano, che è emblematico della posizione letteraria, mira ad un’equivocità assoluta che nega l’intelligibilità e dunque la traduzione.

Per Derrida non è in gioco l’opposizione o la scelta fra queste due opzioni, ma piuttosto si tratta di eliminare questa frontiera fra filosofico e letterario che si erge sull’idea di purezza. Ciò, infatti, consente di mettere in questione la filosofia intesa come movimento di appropriazione o addomesticazione del senso, che, come ho già esposto, è uno degli obbiettivi cardine della decostruzione, e permette di farlo ricercando proprio ciò che nel testo filosofico impedisce tale riappropriazione e produce un effetto di alterità, mostrandone i punti di equivocità, in una parola, il resto di ogni testo: ciò che non si lascia ridurre nei termini di una coscienza sovrana. Ciò, come abbiamo già visto, non significa rinunciare alla verità, ma aprire i testi all’equivoco,

221

Cfr. C. Di Martino, Tradurre è necessario, cioè (im)possibile, in Figure dell’evento. A partire da

Jacques Derrida, cit.

222 J. Derrida, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, cit.

223 C. Di Martino, Tradurre è necessario, cioè (im)possibile, in Figure dell’evento. A partire da Jacques

88 all’indecidibilità tra i molteplici sensi che essi comprendono e, così, lasciare aperta la sfida della traduzione che si mostra sempre più simile alla sfida della decostruzione.

Ho già chiarito, infatti, come alla base della decostruzione vi sia un grande interesse nei confronti del segno e come il movimento principale di questo pensiero sia proprio la disseminazione del senso, qualcosa, cioè, che si riferisce al rapporto fra il senso ed il suo prendere corpo; adesso è importante comprendere come, sia nel caso dell’assoluta traducibilità sia nel caso dell’assoluta intraducibilità, il segno perde del tutto la sua significanza ed il rapporto fra il senso ed il segno resta neutralizzato224

. L’unico linguaggio da intendersi come puro potrebbe essere, dunque, quello di una lingua in cui il senso e il segno non siano più dissociabili, ma un simile linguaggio non si dà mai come tale poiché ogni lingua è già una traduzione del senso e non vi è una lingua in cui tutte le altre possono essere tradotte e comprese.

Anticipando provvisoriamente le conclusioni, è per queste ragioni che traducibilità ed intraducibilità risiedono in un legame indissolubile e i testi devono sempre avanzare una sfida di traduzione pur essendo impossibile tradurli del tutto; infatti, grazie al fatto che la lingua non è mai interamente traducibile si dà sempre la possibilità di incontro fra diverse lingue e di conseguenza fra persone appartenenti a lingue e culture diverse; se la traduzione non fosse sempre necessariamente in corso ed insieme sempre interdetta, ogni incontro si neutralizzerebbe nel silenzio della purezza.

Per trattare adeguatamente questo tema complesso, è il caso di rivolgere l’attenzione a due testi: Des tours de Babel225

e Il monolinguismo dell’altro226

. Il primo di questi due saggi, è raccolto in Psyché ed è situato emblematicamente dopo In questo

224 «Vi è dunque lingua, testo, solo là dove vi è una certa separabilità del senso e del corpo, come altro

lato del loro intreccio e della loro originaria coincidenza (l’insorgenza del linguaggio andrebbe pensata, anzi, come l’evento stesso della loro differenza e coincidenza). Perché si diano parole, linguaggio, testo, occorre che si diano ad un tempo separabilità e inseparabilità del significato e del segno, e bisogna che l’una e l’altra non siano assolute» (Ivi, pp. 122-123).

225 J. Derrida, Des tours de Babel, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. 1, cit.

226 J. Derrida, Le monolinguisme de l’autre, Galilée, Paris 1996; tr. it. di G. Berto, Id., Il monolinguismo

89 momento in quest’opera eccomi, cioè a seguito del luogo in cui, come già esposto, la lettura di Lévinas da parte di Derrida si intona, per la prima volta, nel senso dell’accoglienza e dell’ospitalità della sua parola/scrittura. Il titolo Des tours de Babel rimane in francese anche nella versione italiana a dimostrazione del fatto che l’intero testo è una sfida alla traduzione, ben inteso che «la traduzione è un altro nome dell’impossibile»227

.

Prima di entrare più da vicino nel merito del testo di Derrida, vorrei precisare il senso di questa frase; l’impossibile è stato definito come ciò che viene senza richiesta, senza che gli sia stato rivolto appello ed in modo imprevedibile ed incalcolabile, sfuggendo sempre al controllo e soprattutto alla comprensione piena; Derrida ritiene che nell’esperienza della traduzione avvenga proprio ciò che definisce l’impossibile, infatti, nel tentare di tradurre un testo – specialmente un testo di Derrida, e questa precisazione permetterà gradualmente di stabilire se gli espedienti formali a cui egli ricorre sono strategie letterarie oziose o di senso – si incorre sempre nell’esperienza di una perdita, di una mancanza o di un’insufficienza poiché ciò che è evocato nella lingua originale del testo sembra scivolare via, lasciando il traduttore indebitato, obbligato ad apporre aggiunte, note e spiegazioni per cercare di assolvere al suo compito e al suo ruolo.

Il racconto di Babele indicherebbe proprio una situazione simile, questo mito che viene citato fin dalla prima pagina di Des tours de Babel, anzi, a ben vedere, fin dal titolo:

«non forma una figura qualsiasi. Dicendo quanto meno l’inadeguatezza di una lingua rispetto a un’altra, di un luogo dell’enciclopedia rispetto a un altro, del linguaggio rispetto a se stesso e al senso, essa dice anche la necessità della figurazione, del mito, di tropi, dei giri di parole (tours), della traduzione inadeguata per supplire a ciò che la molteplicità ci inter-dice. […] La «torre di Babele» non figura solo la molteplicità irriducibile delle lingue, ma mette in

227

90 luce un’incompiutezza, l’impossibilità di completare, di totalizzare, di saturare, di finire qualcosa che rinvia all’ordine dell’edificazione, della costruzione dell’architetto, del sistema e dell’architettonica. Questa molteplicità degli idiomi pone un limite non solo a una traduzione «vera», una inter-espressione trasparente e adeguata, ma anche a un ordine strutturale, a una coerenza del costructum. C’è qui (traduciamolo) come un limite alla formalizzazione, una incompletezza della con-struttura. Sarebbe facile, e fino a un certo punto giustificato, vedervi la traduzione di un sistema in decostruzione»228.

In questa citazione che si trova in apertura del testo in questione, Derrida chiarisce che il racconto della Genesi inerente al crollo della torre di Babele non è solo indice della molteplicità ed eterogeneità delle lingue che, dal momento della distruzione dell’opera architettonica, viene ad essere la condizione in cui si è obbligati e che spiega la necessità di ricorrere a giri di parole (tours) perché la traduzione a cui si è costretti resta sempre inadeguata. Babele, questo nome proprio e nome comune insieme229, pur restando non tradotto in tutte le varie lingue in cui il racconto è trasmesso, possiede un senso generale che allude a una certa confusione; inoltre, Babele svela anche e soprattutto, l’impossibilità di ogni costruzione, un’incompiutezza necessaria in ogni atto edificante230

. Non a caso, Derrida lega questa figura simbolica all’espressione “un

228 J. Derrida, Des tours de Babel, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. 1, cit., pp. 225-226.

229 Il testo Des tours de Babel inizia prestando attenzione alla natura del nome Babel che rimane non

tradotto in ogni traduzione di questo racconto antico. Derrida si concentra su ciò che Voltaire scrive in proposito nel suo Dizionario filosofico e chiarisce come Babel sia insieme un nome proprio, cioè «il riferimento di un significante puro a un singolo esistente – e a questo titolo intraducibile» e un nome comune, cioè, «riportato alla generalità di senso». Babel, infatti, indica, anche e già nella lingua in cui fu costruita la torre, la confusione in un senso duplice: «confusione ha almeno due sensi: si tratta della confusione delle lingue, sia dello stato di confusione nel quale si trovano gli architetto di fronte alla struttura interrotta, così che i due sensi della parola “confusione” hanno già cominciato a partire da una certa confusione» (cfr., Ivi, pp. 226-227).

230

Al fine di cogliere l’attinenza fra traduzione e decostruzione, è utile sottolineare l’affinità che Derrida esprime fra questo desiderio del conseguimento di un idioma unico e l’atto di edificare, così da comprendere come l’aspirazione intorno a cui ruota l’episodio di Babele ha qualcosa a che fare con il tono presente nella storia della filosofia e della metafisica della presenza. A questo proposito è interessante un intervento di B. Moroncini che si interroga sull’eredità della decostruzione proprio in riferimento al tono della filosofia; secondo quest’interprete il tono che Derrida lascia in eredità è un tono di sconforto (détresse), da intendere come l’ammissione del fatto che, dinnanzi al comando della filosofia di dire la verità (di edificare), bisogna, nel senso che non si può fare a meno di, riconoscere quest’obbligo come l’impossibile e la verità come aporetica, sempre differita e sempre altrove rispetto alla parola/scrittura della filosofia. (cfr. B. Moroncini, Di un tono edificante adottato di recente in filosofia.

91 sistema in decostruzione”; in effetti, nel corso del testo, per riferirsi alla distruzione della torre Derrida utilizza, attuando una vera e propria sostituzione, il termine decostruzione a dimostrazione del fatto che Babele rappresenta quell’origine affine tanto alla traduzione quanto alla decostruzione. Ma che cosa viene decostruito precisamente con il crollo della torre di Babele?

«Prima della decostruzione di Babele, la grande famiglia semitica stava stabilendo il suo impero (che pretendeva universale) e la sua lingua, che tentava di imporre ugualmente all’universo. Il momento di questo progetto precede immediatamente la decostruzione della torre»231.

Ciò che precede e causa il crollo della torre di Babele, metafora della necessità della decostruzione di ogni costructum, è l’aspirazione di realizzare un idioma unico, una lingua pura, un metalinguaggio che permetta la traduzione trasparente da una lingua all’altra, una traduzione senza resto232

; è dinnanzi a questo desiderio che la traduzione viene interdetta, diventando un obbligo a causa dell’eterogeneità delle lingue, ma imponendosi anche come un obbligo insolubile a causa dell’impossibilità intrinseca ad ogni atto di traduzione che, dal momento del crollo della torre in poi, non può essere assolutamente inerente e adeguato a ciò che intende tradurre.

Proprio questa situazione di irriducibile confusione è, però, ciò che fonda la possibilità della traduzione, la sua possibilità come impossibilità nel senso in cui l’aporetica di Derrida insegna a pensare. Ciò significa, nello specifico, che la circostanza emblematica narrata nel mito della torre di Babele permette di pensare diversamente il rapporto tra traducibilità ed intraducibilità. Occorre innanzitutto

Sull’eredità di Jacques Derrida, in AA. VV., L’avvenire della decostruzione, a cura di F. Vitale e M.

Senatore, Il melangolo, Genova 2001).

231 Ivi, p. 227

232 «sogno di una traduzione senza resto, , di un metalinguaggio che assicuri la circolazione sorvegliata

tra quanto viene definito “lingua d’ingresso” e “lingua d’uscita”» (J. Derrida, Sopra-vivere, tr. it. di G. Cacciavillani, Feltrinelli, Milano 1982, p. 221).

92 abbandonare la logica dell’aut-aut, dell’opposizione netta e neutralizzante, per comprendere che proprio l’impossibilità della traduzione, la sua intraducibilità di fondo, la richiede tanto quanto la interdice. Interdire significa, qui, che ne impedisce la saturazione, la totalizzazione, per lasciarla aperta alla sua stessa possibilità come traduzione; se, infatti, la traduzione fosse interamente, univocamente ed inequivocabilmente possibile, cesserebbe la necessità o la richiesta di traduzione. Come spiega bene Derrida:

«un testo vive solo se sopra-vive, e sopra-vive solo a patto di essere ad un tempo traducibile ed intraducibile (sempre ad un tempo, e: “ama”, nello “stesso” tempo»). Totalmente traducibile, sparisce come testo, come scrittura, come corpo della lingua. Totalmente intraducibile, anche all’interno di ciò che si crede essere una lingua, muore subito dopo»233

.

È un double bind ciò che Derrida presenta in questo passo in cui viene alla luce un altro elemento importante per questo discorso, quello della sopra-vivenza; il termine che indica il sopra-vivere (Überleben) si intreccia, infatti, sempre più con quello che indica il tradurre (Übersetzen). Non è un caso che queste due parole siano trascritte in lingua tedesca dal momento che Des tours de Babel procede svolgendosi nel confronto di Derrida con il testo Die Aufgabe des Übersetzers234 di Walter Benjamin che, come spiega Derrida, già nel titolo e precisamente nella parola Aufgabe, annuncia

«la missione alla quale si è (sempre a partire dall’altro) destinati, l’impegno, il dovere, il debito, la responsabilità. Si tratta già di una legge, un’ingiunzione alla quale il traduttore deve

233

Ivi, pp. 43-44.

234 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers (1921) in Gesammelte Scriften IV/1, hrsg. von. R.

Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1991; ed. it. a cura di E. Ganni, Id., Il

compito del traduttore, in Opere complete. I. Scritti 1906-1922, a cura di R. Tiedemann und H.

93 rispondere. Il quale si deve anche sdebitare, e di qualcosa che potrebbe implicare una faglia, una caduta, una mancanza e forse un delitto»235.

Aufgabe nomina quella che Derrida definisce come «legge stessa come traduzione»236

, cioè, quel debito insolubile che riguarda il traduttore, il quale dovrebbe ripagare per ciò che ha ricevuto237

, ma allo stesso tempo è interdetto in questo suo compito perché la lingua gli impedisce la trasparenza assoluta. Il traduttore ha il compito, il dovere o la responsabilità di far sopra-vivere l’opera nel senso che ha il dovere di non lasciarla chiudere nella sua intraducibilità, sebbene non possa tradurla fino in fondo, ed egli ha questo obbligo perché l’opera stessa (provenendo dall’altro) richiede la traduzione per sopra-vivere al di là del suo autore.

La questione al centro della lettura di Derrida del testo di Benjamin è quella del rapporto fra l’originale e la traduzione; mentre Benjamin distingue i due elementi al fine di salvaguardare il diritto delle opere e il diritto dell’autore, Derrida dichiara l’impossibilità di una distinzione simile in quanto già l’opera originale non sarebbe identica a sé, ma soggetta a tutti gli effetti di differimento che ho già trattato in riferimento alla scrittura. Questo permette di comprendere che, se anche l’originale è già sempre in traduzione e perciò stesso esige la traduzione dell’altro, allora la lingua non è una ed identica a sé nemmeno quando si tratta di una sola lingua e la traduzione è necessaria e impossibile anche all’interno della stessa lingua. Viene ad essere questo il senso della decostruzione avvenuta a Babele, ciò che è stato decostruito è l’identità a sé della lingua, di ogni lingua, la sua presunta purezza originaria; se Benjamin resta legato

235 J. Derrida, Des tours de Babel, in Psyché. Invenzione dell’altro Vol. 1, cit., p. 235. 236

J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, cit., p. 14.

237 Sul dono, debito della lingua, afferma Derrida: «colui che scrive, sempre a mano, anche quando si

serve di macchine, tende la mano come un cieco per cercare di toccare colui o colei che potrebbe dover essere ringraziato per il dono di una lingua, per le parole stesse nelle quali egli si dice pronto a rendere grazie. E anche a chiedere grazia» (Ivi, p. 86).

94 all’idea di origine, Derrida si spinge maggiormente verso il concetto di promessa238

da identificarsi come l’essere in corso di traduzione in cui si trova ogni lingua che strutturalmente manca a se stessa e necessita della traduzione dell’altro:

«Una struttura immanente di promessa o di desiderio, un’attesa senza orizzonte d’attesa informa ogni parola. Dal momento in cui parlo ancor prima di formulare una promessa, un’attesa o un desiderio come tali, e mentre non so ancora che mi accadrà o ciò che mi attende alla fine di una frase, né chi, né ciò che attende chi o che cosa, sono in questa promessa o in questa minaccia – che tiene insieme quindi la lingua, la lingua promessa o minacciata, promettente fin nella minaccia e viceversa, tenuta così insieme nella sua stessa disseminazione»239.

Sulla struttura di promessa della lingua – e quindi della scrittura – si concentra Silvano Facioni, che lega le riflessioni sull’idiomaticità del testo e sul ruolo dell’interprete al tema dell’ospitalità della scrittura; in particolare, nel suo intervento240

, si rende chiaro come ammettere che l’originale è già sempre in traduzione significa concepire la scrittura come consegna o dono nel senso già trattato di questa determinazione, ma anche come «spossessamento, abbandono del proprio (e della

238 Sul concetto di promessa e sul pensiero della parola originaria intesa come risposta è possibile

approfondire in più luoghi del pensiero di Derrida; sicuramente, però, questi elementi non sono comprensibili senza il riferimento alla Zusage heideggeriana. Proprio a proposito della non originarietà del discorso e della precedenza assoluta di una certa corrispondenza alla parola dell’altro, è importante riferirsi a ciò che Derrida spiega nella lunga nota di Dello spirito, in cui, volendo tralasciare tutti i riferimenti essenziali per ciò di cui si tratta in questo paragrafo, si nota almeno il gesto della traduzione

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