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LA GIUSTIZIA IMPOSSIBILE La decostruzione e il pensiero etico-politico di Jacques Derrida

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

LA GIUSTIZIA IMPOSSIBILE

La decostruzione e il pensiero etico-politico di Jacques Derrida

Candidata:

Relatori:

Stefania Guglielmo

Prof. Giovanni Paoletti

Prof. Manlio Iofrida

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A Pamela, a Jessica e a Sacko, a tutti i nomi propri davanti ai quali occorre fare l’impossibile.

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Indice

Introduzione p. I

Capitolo I p. 1

In segreto

1.1 Un’eterodidattica fra vita e morte p. 1

1.2 La costituzione eterologica dell’io. p. 9

1.3 La costituzione fenomenologica dell’altro p. 17

Capitolo II p. 26 Nel silenzio 2.1 La scrittura e la differenza p. 26 2.2 La traccia e la differenza p. 38 2.3 La différance p. 47 Capitolo III p. 53 Incondizionatamente 3.1 L’evento e la scrittura p. 53 3.2 L’impossibile, il dono p. 64 3.3 L’ospitalità incondizionata p. 73 Capitolo IV p. 86 «Vieni» 4.1 La lingua dell’altro p. 86 4.2 Diritto e giustizia p. 105 4.3 Decisione e responsabilità p. 114 4.4 Sovranità e democrazia p. 124 Bibliografia p. 133

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I

Introduzione

Questo lavoro di tesi nasce dall’interesse per l’opera di Jacques Derrida, conosciuta con il nome di “decostruzione”. L’intento di quest’elaborato consiste nel rintracciare il panorama filosofico in cui si sviluppa questo pensiero e nel seguire la sua configurazione originale, a partire dalla convinzione che soprattutto i risvolti etico-politici delle riflessioni di Derrida dimostrino una peculiare attualità e forniscano fertili spunti di pensiero e chiavi di interpretazione adeguate al piano teoretico, politico, giuridico e pratico così come appare e si trasforma ai nostri giorni.

Il primo capitolo ha la funzione di un esordio in cui si è tentato di evocare il tono della filosofia di Derrida prendendo le mosse dal tema della morte, considerato da chi scrive come il centro propulsore della decostruzione. Quest’argomento viene sviluppato in relazione all’amicizia, figura centrale del pensiero dell’autore, e più in generale con riferimento dinamico alla dimensione della vita e del vivente rispetto a cui la morte sembra porsi come ciò che giunge a limitare l’orizzonte del possibile e del potere.

In queste pagine iniziali l’attenzione è già particolarmente rivolta al ruolo centrale che assume l’altro nella filosofia di Jacques Derrida; in primo luogo, infatti, si tratta della morte come morte dell’altro che sembra essere l’unica esperienza della morte concessa all’uomo nel corso della sua vita. Il contenuto principale che emerge in questa prima parte del lavoro è che alla sua origine la costituzione dell’io o di ciò che si chiama ipseità necessita e si struttura a partire dall’altro. Mediante il riferimento a Blanchot, Heidegger, Husserl e Merleau-Ponty si è provato a presentare la decostruzione innanzitutto come la destrutturazione di ogni posizione rigida; non a caso il capitolo si chiude con l’esplicitazione di ciò che nella filosofia di Derrida porta il nome di double bind, coppie semantiche oppositive e non riducibili a mere

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II contraddizioni autoannullanti, piuttosto da assimilare ad uno spazio di indecidibilità in cui resta da pensare la relazione fra i termini e che si rivela l’ambito in cui opera ogni decostruzione.

Pur rimanendo non chiarito, fino a questo momento, cosa ricada esattamente sotto il nome di decostruzione né avendo ancora spiegato il motivo per cui sia per l’autore sia fra gli interpreti si preferisca parlare al plurale di decostruzioni, appare già evidente che il pensiero di Derrida si muove a contatto con pensatori e correnti filosofiche e letterarie eterogenee di cui si è trattato di ricevere l’eredità, nel senso più ampio di questo compito esistenziale.

Nel secondo capitolo emerge più da vicino l’obiettivo di determinare che cosa sia la decostruzione a partire dalla definizione che la associa ad una pratica di scrittura e lettura dei testi. Si è scelto, qui, di analizzare l’origine del concetto di contaminazione originaria e la sua evoluzione nel pensiero di Derrida da cui consegue la coniazione, ricca di senso, del termine différance. A partire dall’orizzonte della filosofia hegeliana e dalla sua successiva ricezione da parte di Heidegger che ricolloca numerosi problemi filosofici fondamentali in riferimento all’elemento linguistico, si è tracciato il cammino di Derrida fra i sentieri della filosofia più o meno contemporanea, con particolare riferimento al debito contratto nei confronti della fenomenologia di Husserl e della linguistica di Saussure. Attraverso questa rete di confronti e rapporti, viene alla luce l’interpretazione di Derrida della tradizione filosofica occidentale sintetizzabile nell’espressione fonologocentrismo. Infatti, l’autore insiste sul privilegio che nel corso del tempo è stato riservato alla phoné, alla voce, a discapito della dimensione grafica della filosofia o più in generale della scrittura. Dietro questa circostanza sussisterebbe una precisa impostazione di senso fondata su un’organizzazione gerarchica, con al vertice il luogo del discorso parlato, che implica il riferimento alla configurazione della

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III verità come istituita nella coscienza, cioè nel luogo più proprio dell’ipseità. Su questo punto interviene l’elaborazione da parte di Derrida dell’apporto filosofico di pensatori quali Freud e Lévinas, oltre ad Heidegger per il quale si è ritenuto opportuno sviluppare un discorso particolareggiato a causa dell’imprescindibilità del suo pensiero per lo sviluppo dell’opera di Derrida. Proprio in riferimento a questi nomi della filosofia contemporanea, il filosofo francese pone in questione l’idea di una coscienza pienamente presente a sé e rende centrale nel suo lavoro il concetto di traccia mediante cui la presenza ed il presente cessano di essere considerati come fenomeni simultanei ed unitari, mostrando nella loro costituzione una certa forma di rinvio, un supplemento che rimane non codificato.

Poiché Derrida dichiara esplicitamente che non è possibile pensare la differenza prescindendo dalla filosofia heideggeriana, si è ritenuto necessario dedicare uno spazio alle divergenze e ai punti di contatto fra la différance derridiana e il movimento della differenza ontologica heideggeriana, anche al fine di mostrare con un esempio determinato il modo di Derrida di approcciarsi ai testi scritti. Solo tenendo conto dell’intreccio fra scrittura e differenza, si comprende il gesto filosofico di Derrida nonché il senso generale della decostruzione in cui la traccia rappresenta innanzitutto ciò che sempre disarticola un testo.

Il terzo capitolo è dedicato all’approfondimento dell’intreccio fra lettura e scrittura nel pensiero di Derrida ed in esso si sviluppano alcuni dei temi fondamentali della decostruzione come quello dell’evento, dell’impossibile e del dono, tutti pensati in riferimento costante alla dinamica di ciò che nella filosofia heideggeriana porta il nome di Ereignis. Senza poter riassumere gli snodi teoretici complessi che riguardano questo discorso, basti dire che emerge un pensiero differente del concetto di proprio e della dinamica di appropriazione e soprattutto il concetto di disseminazione del senso che

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IV Derrida sviluppa a contatto con il pensiero dell’invio dell’essere di stampo prettamente heideggeriano.

In questa terza parte del lavoro si rende maggiormente chiara la logica aporetica che risiede al cuore dell’approccio filosofico di Derrida e, specialmente in riferimento all’opera che porta il titolo di La carte postale, si chiarisce la valenza assunta in questa prospettiva dal testo scritto, dal suo indirizzo (adresse) e dalla sua iterabilità. Inoltre, non è trascurabile il ripensamento del tempo mediante cui Derrida propone una concezione dell’avvenire inteso come ciò che è a-venire, come ciò che viene.

Nel corso dell’elaborato l’oggetto privilegiato della decostruzione si dimostra il concetto di ipseità che accoglie nel suo nucleo più intimo quello di l’alterità. Derrida parla di precedenza dell’altro, in riferimento esplicito alla filosofia di Emmanuel Lévinas a cui è dedicato l’ultimo paragrafo di questo capitolo. La questione dell’altro è stata già per Lévinas ciò che ha rovesciato l’etica e la metafisica tradizionalmente intese; diventa, anche per Derrida, il motivo tramite cui decostruire la figura di una soggettività sovrana introducendo la descrizione, per esempio, della ragione munita di ricettività.

Il quarto ed ultimo capitolo della tesi prende in esame direttamente gli aspetti etico-politici che scaturiscono dall’impostazione teorica fin qui indagata. Nello specifico, si è scelto di esaminare l’elemento della traduzione che permette di cogliere tanto il piano teoretico della decostruzione come strategia di lettura e scrittura dei testi quanto quello pratico, ammesso che una simile distinzione mantenga ancora il suo senso. La precedenza dell’altro emerge all’inizio di questa parte conclusiva in riferimento alla lingua di cui disponiamo, che viene considerata da Derrida come ciò che c’è di più distante da una proprietà rivendicabile. La lingua che è sempre la lingua dell’altro in quanto arriva a partire dalla sua alterità, si svela come luogo emblematico

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V di ospitalità incondizionata, nel senso che questo termine assume anche nella filosofia di Lévinas. Trattare del rapporto fra egoità ed alterità ha significato, nel corso di questo lavoro, prendere in esame temi come la responsabilità, la libertà o la decisione. Proprio nelle battute finali di questo elaborato, si rende chiaro come la decostruzione, spesso definita come “evento dell’altro”, si mantiene in un legame indissolubile con il tema della giustizia. La questione dell’altro, che è in una certa misura la questione della differenza, si svela, infatti, come la questione della giustizia. Per comprendere quest’ultima precisazione è necessario tenere presente la distinzione fra diritto e giustizia, presente specialmente negli ultimi testi di Jacques Derrida ed in cui si condensano le varie questioni di base della decostruzione. Questa giunge così a palesarsi come ciò che opera sempre ai margini fra ciò che è possibile e ciò che è impossibile, nel senso che Derrida fornisce a questa importante parola. Nelle ultime pagine di questa tesi emerge l’apertura in cui la decostruzione colloca il pensiero e si riscontra l’analogia fra questo spazio di autocritica e trasformazione mai conclusa e quello attinente, in ambito istituzionale e politico, a ciò che porta il nome di democrazia. Le ultime opere di Derrida presentano, in effetti, un interesse molto più orientato sulle questioni giuridico-etico-politiche rispetto alle opere precedenti. Senza intendere proporre un’analisi dettagliata di tutti i temi della sua filosofia, in questo lavoro di tesi si è cercato di rendere omaggio al lavoro dell’autore francese e di esporre lo spirito della decostruzione; rivalutare l’aporia, l’arresto, l’indecidibilità, l’im-potenza ad assimilare ed appropriarsi di ciò che è estraneo o straniero sembra, in fondo anche se riduttivamente, l’invito del pensiero di Derrida. Quest’appello risuona perentorio nel clima difficile di un’attualità in cui si percepisce come urgente l’esigenza di apertura e in cui è divenuto più che mai necessario ispirarsi alla giustizia nella gestione di ciò che viene nella ricchezza della sua complessità.

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1

Capitolo I

In segreto

1.1 Un’eterodidattica tra vita e morte

Per iniziare ad esporre l’opera di Jacques Derrida conviene riflettere su alcune affermazioni risalenti al suo ultimo periodo di vita; nel 1998 egli confessava in una lettera indirizzata a Catherine Malabou1 di aver passato la sua esistenza sforzandosi di accettare la morte o, in altri termini, impegnandosi ad acquisire quella saggezza inerente alla vita a cui la filosofia, come philo-sophia, anela. La conclusione di questa tensione faticosa restava, però, ancora la stessa di quella espressa già nel 1993 nel celebre esordio del testo Spettri di Marx2

con la fondamentale questione: «ma imparare a vivere, impararlo da sé, insegnarsi a vivere da sé, non è per un vivente, l’impossibile?»3.

Imparare a vivere si dice in francese apprendre à vivre e la frase completa di Derrida resta non tradotta e risulta «je voudrais apprendre à vivre enfin»4

; in essa si trova un’indicazione temporale di questo apprendre che nella lingua dell’autore significa tanto apprendere quanto insegnare. Fin qui sembrerebbe che la saggezza della vita arrivi enfin o sul bordo della stessa, ma Derrida definisce il termine enfin come una parola d’ordine che indirizza verso ciò che lui stesso confessa:

1 Cfr. C. Malabou - J. Derrida, Jacques Derrida. La contre-allée, Paris, La Quinzaine Littéraire-Luis

Vuitton, 1999.

2 J. Derrida, Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Paris,

Galilée, 1993, tr. it. di G. Chiurazzi, Id., Spettri di Marx, Milano, Cortina, 1994.

3 Ivi, p.3. 4

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2 «la mia vita si consuma a pensare che questa “saggezza” non mi verrà mai, che non vi arriverò mai. Queste parole (“adesso sono pronto”) mi sorprendono come una lingua straniera un bambino smarrito, non mi vengono da me, vecchio codice che non è mai stato mio, vengono su di me – nel rifiuto, la protesta infinita, l’incomprensione radicale del “si deve morire”»5.

La vita, infatti, non è riconducibile ad una disciplina che si può apprendere accanto alle altre, così come la filosofia si scontra con la necessità di riconoscere che di fronte alla morte essa trova il proprio limite, non perché si renda vana, ma poiché è la morte che insegna la vita e non come l’apprendimento di un sapere, ma come un compito interminabile ed interrotto di natura prettamente etica che si tratterà, adesso, di indagare. Derrida parla in proposito di «un’eterodidattica tra vita e morte»6

per dire che, poiché la vita non corrisponde ad una conoscenza autoriflessiva, essa si apprende (didattica) solamente dall’altro e dalla morte o dall’altro sul bordo della vita (etero-didattica), in un luogo cioè che non è la morte né la vita, ma tra queste due.

In «questo luogo di ingiunzione sentenziosa»7, come lo definisce l’autore, avviene l’intrattenimento con i fantasmi o, più in generale, nella dimensione di ciò che nell’opera di Derrida ha il nome di spettrale e di cui è detto innanzitutto che «non è e non è mai presente come tale»8

. Sebbene non sia ancora questo il momento di tematizzare la rilevanza della questione dello spettrale nella filosofia di Jacques Derrida, basti per adesso accennare al fatto che l’autore, subito dopo aver esposto il tema dell’eterodidattica tra vita e morte, descrive l’essere con i fantasmi come il cuore dell’essere con l’altro, del socius e come – anche e non solo – una politica della memoria, dell’eredità e delle generazioni.

Appare chiaro che nel tema della morte si giochi la possibilità di apprendere la vita – cioè di imparare non a vivere meglio, ma a vivere più giustamente (come precisa

5 C. Malabou - J. Derrida, Jacques Derrida. La contre-allée, cit., p. 267. 6

J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.4.

7 Ibidem. 8

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3 l’autore stesso legando a questo discorso il tema della giustizia che sarà centrale nel corso di questo lavoro) – dal momento che tale apprendimento non può avvenire da sé, nella solitudine dell’ipseità, ma solo a partire dall’altro con il quale unicamente nella morte ci è dato di essere-insieme. Cosa significa questo?

Proviamo a comprenderlo a partire da un’altra affermazione di Derrida: «solo un essere finito eredita, e la sua finitezza lo obbliga. Lo obbliga a ricevere»9

. Questo passo del pensiero del filosofo francese si riferisce in primo luogo al fatto che ogni legame ha a che fare con la mortalità, nel senso che ogni rapporto si origina a partire dalla consapevolezza che uno dei due soggetti dello stesso morirà prima dell’altro e, di conseguenza, colui che fra i due sopravvivrà a tale morte ne sarà inevitabilmente testimone. L’affermazione citata appartiene ad un testo che nasce da un’intervista rilasciata da Derrida e pubblicata in Francia nel 2001, in cui l’autore dichiarava di essersi sempre riconosciuto in due figure: l’erede [héritier] ed il legatario [légataire]10

; è proprio in questo luogo che egli dice: «bisognerebbe pensare la vita a partire dall’eredità e non l’inverso»11

.

Si è detto che si può apprendere la vita solo a partire dall’altro e a partire dalla comune finitezza e che proprio l’orizzonte di mortalità in cui i soggetti di un rapporto sono sempre inseriti configura l’uomo come erede [héritier] e legatario [légataire]; approfondendo il senso di tutto ciò si può comprendere che non c’è possibilità di essere sé e di esserlo nella propria vita né c’è possibilità di essere con l’altro se non a partire da quella morte che, prima ancora di essere effettiva, è già presente in quanto può essere

9 J. Derrida, E. Roudinesco, De quoi demain… Dialogue, Fayard/Galilée, Paris 2001, tr. it. di G. Brivio,

Quale domani?, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 17.

10 Per questa questione cfr. S. Regazzoni, L’altro assoluto. Morte e costruzione del legame, in A partire

da Jacques Derrida. Scrittura Decostruzione Ospitalità Responsabilità, a cura di G. Dalmasso, Jaca

Book, Milano 2007.

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4 anticipata ed ossessiona. È ciò che diceva Derrida, già nel 1995, in Memorie per Paul de Man12:

«alla morte dell’altro tutto resta «in me» o «in noi» , «tra noi» ; tutto mi è affidato , ci è lasciato in eredità o dato a ciò che chiamiamo memoria, […]. L’«io» [moi] e il noi di cui parliamo sorgono e si costituiscono in quanto tali solo attraverso questa esperienza dell’altro, dell’altro come colui che può morire lasciando in me o in noi questa memoria dell’altro. […]. Bisogna precisare: la possibilità della morte dell’altro, come della mia o della nostra, istituisce il mio rapporto con l’altro e la finitudine della memoria13

».

La possibilità della morte si pone, infatti, come l’apertura dello spazio del legame intendendo cioè che il legame si origina innanzitutto come reazione all’anticipazione della morte intesa come ciò che slega in modo assoluto; il legame risulta, allora, come il tentativo di esorcizzare questa circostanza stessa. Questo significa che la morte dell’altro è il luogo inaugurale del soggetto, del moi che si scopre insostituibile di fronte alla morte dell’amico cui è chiamato a rispondere, ed indica anche che la struttura di questo legame non necessita che la morte avvenga effettivamente, ma solo che essa sia possibile:

«è sufficiente che lo sappia mortale, ch’egli mi sappia mortale – non si dà amicizia senza una tale coscienza della finitudine. E tutto quanto iscriviamo nel presente vivente del nostro rapporto con gli altri porta con sé, già da sempre, una firma da memorie d’oltretomba»14.

Per la sua natura, il legame mostra che sia l’essere presso di sé che l’essere con l’altro si rivelano un essere con gli spettri nel senso che l’essere con l’altro – unico modo per essere presso di sé – significa essere già in memoria dell’altro, essere già in

12 J. Derrida, Mémoires – pour Paul de Man, Galilée, Paris 1988, tr. it. di G. Borradori e V. Costa,

Memorie – per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia, Jaca Book, Milano 1995.

13 Ivi, p. 41. 14

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5 rapporto con la sua eredità. Derrida va oltre e sostiene che avere un amico implica la possibilità di essere chiamati per nome e già nel nome vi è inscritta l’eventualità dell’assenza, della non-risposta; il nome proprio è ciò che in quanto tale può sopra-vivere all’amico anche quando egli è ormai irrimediabilmente lontano; infatti, «chiamando o nominando qualcuno vivente, sappiamo che il suo nome può sopravvivergli e già gli sopravvive»15

.

Dunque, pensare la vita a partire dall’eredità e non viceversa significa pensare la vita al di là del presente, a partire da quella che Derrida chiama sopra-vivenza per intendere ciò che eccede l’essere effettivo ed il piano dell’empirico, e che, come si è visto, può essere anticipata e disturba, interrompe, disgiunge l’identità tradizionalmente intesa.

Resta da comprendere che i due termini, erede [héritier] e legatario [légataire], non sono semplici sinonimi giustapposti. Invece proprio analizzare il motivo del loro accostamento permette di procedere un passo oltre il punto in cui ci troviamo. Essere erede, si è detto, significa sentirsi responsabili di ciò che viene assegnato già al nascere di un legame, ma Derrida parla della «eterogeneità radicale e necessaria di un’eredità»16

per intendere sia che l’eredità non corrisponde ad un tutt’uno raccolto ed organizzato, sia che ereditare vuol dire sempre fare esperienza di un limite invalicabile, dell’impossibilità di accogliere come intatta un’eredità ed il suo intrinseco segreto17

. Poiché si tratta sempre di riaffermare e non semplicemente di trasmettere l’eredità, l’autore afferma che «l’eredità non è mai un dato, ma sempre un compito»18

o, ancora,

15 Ivi, p.63.

16 J. Derrida, Spettri di Marx, cit. p. 14.

17 «Vi è eredità solamente laddove le assegnazioni sono molteplici e contraddittorie, abbastanza segrete

per sfidare l’interpretazione, per esigere il rischio senza limiti dell’interpretazione attiva. È qui che vi sono una decisione e una responsabilità da assumere» (J. Derrida, Artefactualités, in J. Derrida e B. Stiegler, Écographies de la télévision, Galilée - INA, Paris 1996, tr. it. di G. Piana, Artefattualità, in

Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p.28).

18

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6 che «si eredita sempre a partire da un segreto»19. Se, dunque, l’eredità è ciò di cui non ci

si può appropriare, se su di essa non vi è diritto di proprietà ed, anzi, è implicito nella sua assegnazione il compito di trasmetterla, allora, l’erede diviene già da subito anche legatario, cioè un «locatario dell’eredità»20

, colui che ha il compito di rispondere di ciò che è stato a partire dalla propria singolarità.

«A forza di confrontarmi in modo assiduo con questo concetto o con questa figura del legatario [légataire], sono arrivato a pensare che a prescindere dall’idea di assicurazione di un benessere che si associa un po’ frettolosamente a questa parola, l’erede debba sempre rispondere a una sorta di doppia ingiunzione, a un compito contraddittorio: bisogna innanzitutto sapere e saper riaffermare ciò che viene «prima di noi», e che dunque riceviamo prima ancora di scegliere e di comportarci , in rapporto all’eredità, come soggetti liberi. Sì, bisogna [il faut] (e questo il faut è inscritto nell’eredità stessa che riceviamo) bisogna fare di tutto per appropriarsi di un passato di cui si sa che resta al fondo inappropriabile […]. Che cosa significa riaffermare? Non solo accettare quest’eredità, ma rilanciarla altrimenti e mantenerla in vita»21

.

Si è deciso di partire con l’esposizione del tema della morte perché essa sembra proprio il centro di propulsione dell’opera di Derrida, intesa come opera di decostruzione; in questo lavoro si tratterà di comprendere tra l’altro che cos’è la decostruzione e i motivi per cui si tende più adeguatamente a parlare di decostruzioni, ma in questa fase d’esordio l’intenzione è quella di accostare in modo preliminare la questione della morte, che ritorna con ossessione nelle opere di Derrida, ed il senso più generale del suo lavoro. Mario Vergani, nella sua introduzione a Jaques Derrida22

, propone una serie di citazioni in cui è descritta la decostruzione e che, sebbene in

19 Ivi, p. 26.

20 J. Derrida, Ecografie della televisione, cit., p. 124. 21 J. Derrida, Quale domani?, cit., pp. 14-15. 22

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7 un’altra funzione, si rendono idonee anche qui; in particolare, in Psyche23

Derrida afferma che «prepararsi alla venuta dell’altro è ciò che si può chiamare decostruzione»24

e ancora più emblematicamente in Salvo il nome25

sostiene che:

«la decostruzione è sovente stata definita come l’esperienza stessa della possibilità (impossibile) dell’impossibile, del più impossibile, condizione che essa condivide con il dono, con il “si”, con il “vieni”, la decisione, la testimonianza, il segreto, ecc. E forse la morte»26

.

Tutto il lessico di Derrida sembra intriso di questa questione, ma il suo pensiero della morte è un pensiero, una filosofia, che si scontra con un non-sapere irriducibile, con un limite o, più propriamente, con un segreto; ben lontano dalla ricerca di redenzione o salvezza, questo pensiero è tensione verso l’impossibile della morte così come essa appare dal punto di vista della finitezza. È interessante osservare come Derrida erediti la sua nozione di secret come lascito della filosofia heideggeriana, in particolare del concetto di Geheimnis27, eppure egli la riaffermi distanziandosi dalla prospettiva di velamento e disvelamento, di visibile ed invisibile e dalla visione della verità come aletheia, proprie dell’autore degli Holzwege28

, per parlare, invece, di un segreto assoluto ed incomunicabile, che si tratterà gradualmente di affrontare.

Prima di concludere, è bene sottolineare che il tema della morte prorompe nell’opera di Jaques Derrida sempre sotto forma della morte di un amico; in proposito

23 J. Derrida, Psyché. Invention de l’autre. Tome 1, Galilée, Paris 1997, tr. it. di R. Balzarotti, Psyche.

Invenzioni dell’altro. Vol. I, Jaca Book, Milano 2008.

24

J. Derrida, Psyche. Invenzioni dell’altro, in Psyche. Invenzioni dell’altro. Vol. I, cit., p. 53

25 J. Derrida, Sauf le nom, Galilée, Paris 1993, tr. it. di G. Dalmasso e F. Garritano, Salvo il nome, in Id.,

Il segreto del nome, Jaca Book, Milano 1997.

26 J. Derrida, Salvo il nome, in Il segreto del nome, cit., p. 137.

27 È interessante, inoltre, notare che l’aggettivo misterioso, Geheimnis, mantiene nella lingua tedesca una

profonda assonanza con il termine Heim che significa casa; essa potrebbe essere letta tanto come l’indicazione del carattere misterioso che appartiene sempre alla casa che si abita, quanto come il richiamo del mistero quale luogo in cui autenticamente si è di casa. Nella filosofia heideggeriana una tale assonanza risuona in quella che è stata definita la sua fenomenologia dell’abitare (cfr. V. Cesarone, Per

una fenomenologia dell'abitare. Il pensiero di Martin Heidegger come oikosophia, Marietti, Genova

2008), nel pensiero di Derrida essa è riaffermata nella questione fondamentale dell’ospitalità.

28 M. Heidegger, Holzwege, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 5, Klostermann,

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8 nel 2005, poco dopo la morte dell’autore, è stata curata la pubblicazione del testo Ogni volta unica. La fine del mondo29 in cui sono raccolti lettere di condoglianza, elogi funebri, saggi commemorativi e omaggi di vario tipo, scritti sempre all’evento della scomparsa di un amico e che, pur distinguendosi nei toni e nello stile, hanno in comune di essere «testi del lutto e nel lutto»30

di fatto non distinguibili dal corpus dell’opera del filosofo e messi insieme con il dichiarato intento «di trattare la politica del lutto e nel lutto»31.

Questo ci aiuta a comprendere che l’intrattenersi costante e ripetuto di Derrida con la morte e con i morti non corrisponde ad una passione per tematiche macabre o tristi, piuttosto si pone come il cuore di un pensiero rivolto alla giustizia, a quella giustizia che è radicata nei concetti di responsabilità e di debito che l’uomo, come testimone32, ha nei confronti di quegli altri che non sono più; come lo stesso Derrida ribadisce spesso, infatti, non vi è etica o politica, al di là del loro carattere rivoluzionario, che sembri possibile o anche solo pensabile senza tener conto di questa strutturale forma di eredità.

La morte, allora, è innanzitutto ciò che disloca il soggetto, lo porta al di là del presente e del vivente e lo apre alla giustizia come a quel momento spettrale, fuori dal tempo, in cui è dato chiedersi qualcosa sull’avvenire, infatti:

29

Jaques Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Galilée, Paris 2003, tr.it. di M. Zannini, Ogni

volta unica. La fine del mondo, Jaca Book, Milano 2005.

30 P. Brault e M. Naas, Fare i conti con i morti, Jaques Derrida e la politica del lutto, in J. Derrida, Ogni

volta unica. La fine del mondo, cit., p. 19.

31 Ibidem.

32 Questo termine è utilizzato da Derrida stesso in relazione alla questione dell’eredità ed in esplicito

riferimento ad un verso di Hölderlin che è al centro di un celebre commento di Heidegger (Cfr. M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1998, ed. or. Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, hrsg. von F.W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 4, Klostermann, Frankfurt a.M. 1981). In questo luogo a partire dai versi del poeta, Heidegger indicava il carattere più proprio dell’uomo nel testimoniare attraverso la parola un’eredità; a ciò si lega Derrida nell’affermare: «l’essere di ciò che siamo è innanzitutto eredità» (J. Derrida, Spettri di

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9 «senza questa non-contemporaneità a sé del presente vivente, senza quel che segretamente lo disaggiusta, senza questa responsabilità e questo rispetto nei confronti di quelli che non ci sono, di quelli che non ci sono più o non sono ancora presenti e viventi, quale senso ci sarebbe nel porre la domanda “dove?” “dove domani?” (“wither?”)»33

.

1.2 La costituzione eterologica dell’io

In L’istante della mia morte34

Maurice Blanchot offre un breve racconto autobiografico che Derrida commenta35 con grande attenzione e definisce come corrispondente a ciò che Martin Heidegger scriveva nella sua analitica esistenziale interrotta nel 1927, in particolare nei celebri paragrafi dedicati all’essere-per-la-morte36.

Il racconto è ambientato in Francia, durante la seconda guerra mondiale, ed è il resoconto di qualcosa che è realmente accaduto e che viene testimoniato mediante la scrittura; al centro della vicenda vi è un giovane uomo, che è lo stesso Blanchot, il quale, però, narra questa storia in terza persona, assumendo la posizione di una voce fuori campo che sembra essere la voce di chi ha accompagnato da vicino quel giovane uomo al tempo di ciò che è narrato. Lo svolgimento è abbastanza semplice: il protagonista si trova in casa con la propria famiglia quando, sentendo bussare alla porta e ritenendo che possa essere qualcuno in cerca di soccorso, apre l’uscio e viene irruentemente fatto uscire da soldati tedeschi; questi ultimi, ritenendolo un partigiano, lo accusano e intendono fucilarlo dinnanzi ai parenti, ma egli – all’ultimo istante – viene

33 J. Derrida, Ivi, p. 5.

34 M. Blanchot, L’instant de ma mort, Gallimard, Paris 1994; tr. it. di P. Valduga, Id., L’istante della mia

morte, in Il senso delle parole. Supplemento d’anima, “aut aut”, 267-268, 1995.

35 Per il commento puntuale di Derrida cfr. J. Derrida, Demeure. Maurice Blanchot, Galilée, Paris 1998,

tr. it. di F. Garritano, Id., Dimora. Maurice Blanchot, Plomar, Bari 2001, che corrisponde ad una conferenza pronunciata dall’autore nel 1995.

36 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 2,

Klostermann, Frankfurt a.M. 1977; tr. it. di A. Marini, Id., Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2011, par. 52-65.

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10 risparmiato in quanto, poiché la dimora in cui si trovava portava il nome di “Castello”, viene confuso per un signore e perciò lasciato in vita.

Di primo acchito, potrebbe sembrare che si tratti di una storia comune di momenti di guerra, ma l’analisi che Derrida ci offre permette di cogliere questo scritto in modo più ampio e complesso tanto in relazione all’intera opera di Maurice Blanchot quanto in merito alla questione della morte. Derrida si sofferma innanzitutto sull’espediente narrativo – che comprenderemo non ridursi solo a questo – della narrazione in terza persona; il titolo dell’intervento di Blanchot è L’istante della mia morte ed è insieme la descrizione di ciò che in questo scritto l’autore vorrebbe testimoniare; tuttavia, secondo Derrida, è necessario chiarire che cos’è un istante e come sia possibile la testimonianza di un terzo se, come egli afferma:

«Testimoniare significa sempre farlo di presenza: il testimone deve essere sempre presente alla sbarra senza interposizione tecnica. Non si può spedire una cassetta che testimoni per noi; bisogna essere presenti, alzare la mano, parlare in prima persona e al presente, e testimoniare di un presente, di un momento indivisibile, raccolto in un certo punto nell’istantaneità, in ogni caso in un atomo temporale, perché deve resistere alla divisione. Se il momento in cui testimonio è divisibile, allora la testimonianza non ha più valore né pretesa di verità»37.

Per testimoniare, spiega Derrida, è necessario che si sia sopravvissuti, che si sia cioè vissuti più a lungo di ciò che è accaduto, ma, al tempo stesso, testimoniare della propria morte è impossibile in quanto, se si è sopravvissuti alla stessa, ciò implica che essa non sia avvenuta e non la si possa, dunque, testimoniare. Questa impasse aiuta a comprendere che il fatto che Maurice Blanchot scriva in terza persona, a distanza di cinquant’anni dall’evento che ha vissuto sulla propria pelle, certamente fa parte della

37 J. Derrida, L’istante della mia morte, in Il senso delle parole. Supplemento d’anima, “aut aut”,

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11 scelta letteraria di un uomo che non vuole esporsi direttamente, ma è innanzitutto indice di una divisione che si è creata, in quel preciso istante, nella sua identità, dal momento che è stato «impedito a morire dalla morte medesima»38

.

Come spiega Derrida, infatti, questa è la storia di un uomo vivo che racconta di essere morto, che narra l’istante della sua morte, quell’attimo temporalmente indefinibile, in cui la morte stessa gli ha impedito di morire in ultima istanza; questa storia è anche e soprattutto quella di un uomo che racconta che l’istante di quella morte lo ha diviso per sempre così come ha diviso irrimediabilmente anche il suo tempo. L’istante della sua morte ha inserito Maurice Blanchot in un’anacronia insolubile e determinata dal fatto che la morte ha, da quel momento, dimorato dentro di lui come colei che ha solo posticipato un incontro. Derrida fa notare come il verbo dimorare, in francese demeurer, significhi anche rinviare nel senso di rimandare a più tardi, in questo caso di ritardare o differire un incontro che resta, in fondo, impossibile almeno finché si è in vita. Ciò di cui reca testimonianza Blanchot e di cui non può parlare in prima persona perché egli è vivo è, allora, che la morte, dall’istante in cui egli è morto quel giorno di cinquant’anni prima, è rimasta per sempre un’istanza in procinto di sopraggiungere39; la morte è per lui da quel momento solo l’attesa di qualcosa che è già presente, che è incalcolabile e non anticipabile, ma già venuta, Blanchot: «da quell’istante in cui è morto senza essere morto, avrà la morte senza la morte e la vita senza la vita»40.

Durante la conferenza dedicata a questo esile racconto di Blanchot, Derrida lesse al suo uditorio una frase da una lettera ricevuta dall’autore suo amico in cui era scritto:

38

M. Blanchot, L’istante della mia morte, cit., p. 34.

39 Derrida insiste sul termine sopraggiungere anche nel momento subito successivo alla morte effettiva di

Maurice Blanchot, in riferimento al suo concetto di morte impossibile, e così puntualizza: «Queste parole prendiamole, riprendiamole, impariamo la distinzione tra sopraggiungere ed accadere. Diciamo che la morte di Blanchot è innegabilmente sopraggiunta, ma non è accaduta, non accade. Non accadrà mai» (J. Derrida, Maurice Blanchot, in Ogni volta unica. La fine del mondo, cit., p. 291).

40 J. Derrida, Ho il gusto del segreto, in J. Derrida e M. Ferraris, Le Goût du secret, Edition Hermann,

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12 «20 Luglio. Cinquant’anni fa, ebbi il bene di essere quasi fucilato»41; poco più avanti,

Derrida fa notare come, per descrivere l’istante in cui quel giovane uomo stava per morire e credeva che fosse tutto finito, il narratore cinquant’anni dopo utilizzi un «lessico mistico»42. Blanchot, in effetti, usa parole come beatitudine, leggerezza, estasi per dire che egli era stato, forse, quasi invincibile, nel senso di immortale, lì, dinnanzi alla morte. Derrida si sofferma su questo punto per specificare come non si tratti del trionfo della vita sulla morte o di un’esperienza inserita in un orizzonte di salvezza, quanto piuttosto del fatto che in quell’istante il giovane uomo Blanchot era stato immortale semplicemente perché era già morto, la morte non poteva venire da lui poiché era già venuta. Derrida – oltre a spiegare passo passo questo pensiero in cui l’immortalità si dà solo nella morte declinandosi come impossibilità della morte stessa a sopraggiungere perché già attuale – parla di un’inversione tra l’essere morto e l’essere immortale che corrisponderebbe proprio a quel “bene di essere quasi fucilato” di cui scriveva in confidenza Blanchot, e così si esprime:

«sembra l’inversione morto/immortale, ma in questa esperienza di immortalità e fusione estatica, c’è una compassione per tutti i sofferenti, per tutti i mortali, una felicità, questa volta, di non essere immortali, né eterni. Allora può esserci tripudio, leggerezza nell’immortalità della morte; c’è felicità nella compassione della finitezza con gli esseri finiti»43

.

Da quel momento, infatti, Blanchot dichiara di essersi sentito legato alla morte da «un’amicizia surrettizia»44

che, per Derrida, non solo indica che non si dà amicizia senza esperienza della morte, ma che esiste anche un’alleanza, una familiarità con la morte stessa e, proprio quest’espressione di amicizia surrettizia è, secondo lui, la chiave

41

J. Derrida, L’istante della mia morte, in Il senso delle parole. Supplemento d’anima, “aut aut”, 267-268, 1995 p. 45.

42 Ivi, p. 49. 43 Ibidem. 44

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13 di lettura dell’intera opera di Maurice Blanchot45

. Derrida, infatti, sostiene espressamente che Blanchot, finché è stato vivo, non ha mai cessato di pensare alla morte, avendo sempre a cuore l’impegno di ritenerla una morte impossibile, nel senso, già detto, di un’esperienza inafferrabile e per la quale non è dato essere pronti. Come precisa Derrida, però, egli ha sempre amato e affermato solo la vita e nell’impossibilità della morte non ha riscontrato un trionfo sulla stessa o un suo rifiuto, ma «la dolce proibizione di morire»46, «la rassegnazione a ciò che viene a limitare il possibile e dunque il potere»47

.

Il medesimo lessico mistico, di cui si trattava poc’anzi, ritorna anche nel 2003, quando Derrida prende la parola alla scomparsa di Maurice Blanchot, nel momento in cui, per descrivere la loro reciproca amicizia, afferma: «i silenzi, il respiro necessario dell’ellissi e della discrezione, nel corso di queste conversazioni fu anche, per quanto ricordi, il tempo benedetto, senza la minima interruzione, il tempo continuo di un sorriso, di un’attesa confidente e benevola»48

.

All’inizio di questo paragrafo, si accennava al fatto che Derrida tratti di una corrispondenza fra l’essere-per-la-morte di Heidegger ed il caso personale descritto ne L’istante della mia morte di Blanchot; più precisamente Derrida sostiene che il racconto di Blanchot si pone come caso esemplare del contenuto delle pagine che costituiscono il cuore di Sein und Zeit: «tutto quello che Heidegger dice della morte come possibilità dell’impossibile, è descritto da Blanchot in questa storia. In qualche modo non c’è bisogno di aver rischiato la fucilazione per dire la possibilità dell’impossibile»49

.

45

Per un approfondimento della questione dell’amicizia Cfr. M. Blanchot, L’amitié, Gallimard, Paris 1971, tr. it di R. Cuomo e M. Ghidoni, Id., L’amicizia, Marietti 2010.

46

M. Blanchot, Le Pas au-delà, Gallimard, Paris, tr. it. di L. Gabellone, Il passo al di là, Marietti, Genova 1989, p. 107.

47 J. Derrida, Maurice Blanchot, in Ogni volta unica. La fine del mondo, cit., p. 288. 48 Ivi, p. 287.

49

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14 Per comprendere queste affermazioni è necessario seguire almeno in linea generale il discorso che Derrida porta avanti in Aporie: morire, attendersi ai limiti della verità50

, un’opera dedicata alle pagine di Essere e tempo in cui Heidegger si occupa del tema della morte e che vengono rimaneggiate da Derrida non senza violenza, ma in piena coerenza con il progetto della decostruzione, intesa innanzitutto come strategia di lettura dei testi.

L’autore prende le mosse dalla definizione heideggeriana della morte come «la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile»51

del Dasein. Come è noto, per Heidegger la morte non corrisponde semplicemente a ciò cui si giunge alla fine della vita, ma essa è parte dell’esistenza stessa poiché l’esser-ci è già da sempre immerso in questa possibilità che gli è svelata mediante ciò che porta il nome di vordringen, il movimento di anticipazione della morte che «dà anticipatamente accesso al senso del morire»52

. Tradizionalmente, come ricorda Derrida, nell’ottica generale dell’analitica esistenziale, si interpreta questo movimento di anticipazione della morte come la via che conduce all’autentica appropriazione di sé da parte del Dasein; infatti, a partire dalla circostanza secondo cui la morte riguarda sempre l’esserci nella sua singolarità, prende le mosse il celebre discorso heideggeriano secondo cui è impossibile morire al posto di un altro e a nessuno può essere risparmiata la sua morte53

. Questo concetto, racchiuso nel termine tedesco Jemeinigkeit, permetterebbe di comprendere che la morte è proprio ciò che rivela all’io la sua identità come essere unico ed insostituibile.

50 J. Derrida, Apories. Mourir – s'attendre aux “limites de la vérité”, Galilée, Paris 1999, tr. it di G.

Berto, Id., Aporie: morire, attendersi ai limiti della verità, Bompiani, Milano 2004.

51 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 379.

52 J. Derrida, Aporie: morire, attendersi ai limiti della verità, cit., p. 62. 53

Questo discorso viene ripreso da Derrida: «se c’è qualcosa di radicalmente impossibile – e tutto prende senso a partire da questa impossibilità – , è di morire per l’altro nel senso di “morire al posto dell’altro”. Io posso donare tutto all’altro, salvo l’immortalità, salvo il morire per lui al punto di morire al suo posto liberandolo dalla sua morte» (J. Derrida, Donner la mort, Galilée, Paris 1999, tr. it. di L. Berta, Id.,

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15 Derrida, tuttavia, riscontra almeno due problematiche; innanzitutto in questo «tendersi-verso dell’attendersi»54 come egli definisce l’anticipazione della morte, ci si sporgerebbe in direzione di ciò che lo stesso Heidegger definisce sia come possibilità più propria del Dasein sia come la possibilità della sua impossibilità; nel cinquantaquattresimo paragrafo di Essere e tempo leggiamo, infatti, che: «la morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità del Dasein»55

.

Non si tratterebbe, secondo Derrida, soltanto dell’istituzione del paradosso della possibilità di un’impossibilità, ma proprio della declinazione «della possibilità come impossibilità»56; l’aporia consisterebbe proprio in questo e sarebbe un altro nome dell’impossibile57

che Heidegger introduce nella sua analitica esistenziale. In proposito, si esprime chiaramente Derrida:

«se la morte, la possibilità più propria del Dasein, è la possibilità della sua impossibilità, diviene la possibilità più impropria e più espropriante, la più inautenticante. Il proprio del Dasein, nell’interiorità più originaria della sua possibilità, si vede dunque contaminato, parassitato, diviso dal più improprio»58.

Ciò significa che l’essere-per-la-morte pone il Dasein in stretto confronto con quella possibilità che, costituendosi come impossibilità, decreta la fine del suo essere e la fine del suo rapporto con il fenomeno come tale. Nel riscontrare la seconda problematica, Derrida evidenzia come, se è solo mediante la morte che si apre per il Dasein la possibilità della riappropriazione di sé, è anche vero che la sola morte di cui

54 J. Derrida, Aporie: morire, attendersi ai limiti della verità, cit., p. 62. 55 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 378.

56 J. Derrida, Aporie: morire, attendersi ai limiti della verità, cit., p. 61.

57 «Ci sono diversi modi di pensare la possibilità dell’impossibilità come aporia. […] La morte – che e a

cui dobbiamo attenderci – è l’unico caso di questa possibilità dell’impossibilità. Si tratta infatti dell’impossibilità dell’esistenza stessa, non di questo o di quello. Ogni altra possibilità o impossibilità determinata assumerebbe senso solo a partire da questa possibilità dell’impossibilità, da questa impossibilità» (Ivi, p. 63).

58

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16 egli può fare esperienza è la morte dell’altro: «la morte dell’altro, questa morte dell’altro in me, è, in fondo, la sola morte nominata nel sintagma “la mia morte”»59

. Dal momento che non è possibile sperimentare la morte direttamente, bisogna ammettere che l’altro è incluso sin dall’inizio nel punto nevralgico dell’io: solo a partire dall’esperienza della morte dell’altro è dato al Dasein di giungere sino a sé.

È, allora, interpretando la morte come la possibilità dell’impossibilità nel senso di un accesso al morire che resta un non-accesso, un confine impossibile da valicare, che Derrida può affermare la vicinanza fra la morte impossibile di Blanchot e le pagine di Essere e tempo, conscio del fatto che:

«Quando Blanchot dice incessantemente il morire impossibile, l’impossibilità, purtroppo, del morire, nella forma di un lungo lamento e non del trionfo della vita, dice la stessa cosa e insieme tutt’altra cosa rispetto ad Heidegger. Si tratta soltanto di sapere in che senso ( nel senso della direzione e del percorso) si legge l’espressione “possibilità dell’impossibilità”»60

.

È grazie a queste premesse che Derrida può parlare di una costituzione eterologica dell’io, intendendo proprio che non vi è istituzione dell’io che non passi attraverso la morte dell’altro: «noi non siamo noi stessi che a partire da questo luogo di risonanza in noi dell’altro mortale»61

. Questo luogo di risonanza interno all’io è ciò che l’autore definisce come lutto originario, assumendo il termine dagli scritti sull’elaborazione del lutto di Sigmund Freud; si può iniziare ad intravedere il motivo per cui il lutto originario, dal momento che implica costitutivamente l’altro, sia definito da Derrida come un diverso nome dell’amicizia o dell’ospitalità.

59 Ivi, p. 66. 60 Ibidem. 61

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17 Si coglie, forse, “il bene” che risiede nell’essere stato quasi fucilato di cui Blanchot – il filosofo dell’amicizia62 – fa confidenza all’amico Derrida, se si ascolta quest’ultimo quando scrive che: «a causa della morte, e di quest’unico passaggio oltre la vita, l’amicizia ci dà quindi una speranza che non ha nulla in comune, tranne il nome, con ogni altra speranza»63

.

1.3 La costituzione fenomenologica dell’altro

La riflessione sul rapporto io-altro non occupa solo l’ultima fase, ma l’intera opera di Jacques Derrida, venendo a porsi come essenza ed esito della decostruzione che è stata definita, di sovente, come “evento dell’altro”. Finora si è accennato al primo aspetto di questa problematica cioè alla costituzione eterologica dell’io e si è giunti a determinare la stretta contaminazione che si mostra fra io e altro indagando l’origine dell’io. Lo stesso percorso, sebbene a ritroso, si intravede già in La scrittura e la differenza64

, in particolare nel saggio che porta il titolo Violenza e metafisica65

e che interessa particolarmente in questo percorso se si tiene conto del fatto che è dedicato alle critiche rivolte da Emmanuel Lévinas alla concezione dell’alterità nella fenomenologia di Husserl.

Questo nome, Emmanuel Lévinas, come si vedrà, è il nome dell’amico per eccellenza nel percorso filosofico di Derrida ed è anche il nome di colui che ha fornito le parole per la declinazione di molti aspetti del suo pensiero, specialmente in riferimento al tema dell’ospitalità. Il dialogo fra Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida si è svolto per circa trent’anni e tornerà spesso come tema nelle pagine di questo lavoro;

62

J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit. p.56.

63 Ivi, p.12.

64 J. Derrida, L’écriture et la différence, Le Seuil, Paris 1967; tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la

differenza, Einaudi, Torino 1971.

65

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18 pertanto, per trattare adeguatamente dello stesso, è necessario abbandonare, fin dall’inizio, la logica del confronto o della contrapposizione di pensiero, almeno nella versione classica in cui si è soliti intenderla. Il tono con cui i due filosofi si rivolgono la parola, specialmente la parola scritta, impone una cautela che si ottiene pensando alla loro relazione nella forma di un incrocio, come suggerisce lo stesso Lévinas:

«La ridicola ambizione di migliorare un vero filosofo non rientra certamente nei nostri propositi. Incrociarlo sul suo cammino è già una cosa ottima ed è questa probabilmente la modalità stessa dell’incontro in filosofia. Nel sottolineare l’importanza primordiale dei problemi posti da Derrida, abbiamo voluto dire il piacere di un contatto nel cuore di un chiasmo»66.

Questo intervento di Lévinas ci indica due elementi-guida, due tracce da seguire per giungere a quello che lui chiama il cuore del chiasmo, intendendo proprio il luogo di massima vibrazione fra due pensieri che si incrociano. La prima traccia riguarda proprio la dimensione viatica del pensiero e rimanda all’orizzonte comune senza cui quest’incrocio resta impensabile: il Denkweg heideggeriano. Come si proverà a comprendere più a fondo nel prossimo capitolo, il pensiero di Heidegger – e ancor prima quello di Husserl – rappresenta il luogo in riferimento al quale questo contatto avviene e da cui si muovono molte delle interrogazioni che i due pensatori si rivolgono o si pongono individualmente. In secondo luogo, Lévinas ci offre un’immagine, quella del chiasmo, invitandoci a guardarla spinti, non da forze centrifughe, ma centripete; egli ci propone, cioè, di osservare nel chiasmo l’incrocio, anziché la fuga. Che quest’incrocio sia un cammino si rende manifesto anche considerando i testi che attraversa; Jaques Derrida, infatti, si rivolge ad Emmanuel Lévinas in modo fondamentale tre volte in trent’anni: nel 1964, con Violenza e Metafisica; nel 1980, con

66 E. Lèvinas, Tutt’altrimenti, in Nomi propri, tr. it. Di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p.

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19 In questo medesimo momento in quest’opera eccomi67

; nel 1997, con Addio a Emmanuel Lévinas68.

Violenza e metafisica, il più intransigente fra i tre interventi, è il testo che Derrida pubblica a seguito della lettura di Totalità e Infinito69 di Lévinas ed è quello su cui conviene, per il momento, riflettere maggiormente al fine di cogliere gli aspetti fondamentali della questione che interessa. Nel testo, Derrida non si propone di avanzare delle obbiezioni, bensì di approfondire fino in fondo le domande di Lévinas; egli intende, qui come altrove, procedere in modo radicale, sempre a partire dall’interno del pensiero lévinassiano, conducendolo alle sue estreme conseguenze.

La questione ruota tutta intorno alla Quinta meditazione cartesiana70

di Husserl che Lévinas commenta, in toni critici, segnalando la violenza esercitata dal padre della fenomenologia che attua, ai suoi occhi, una completa neutralizzazione dell’alterità dell’altro mediante una sua totale riduzione al piano del medesimo:

«stando a Lévinas, Husserl, facendo dell’altro, soprattutto nelle Meditazioni cartesiane, un fenomeno dell’ego, costituito per appresentazione analogica a partire dalla sfera di appartenenza propria dell’ego, avrebbe mancato l’alterità infinita dell’altro e l’avrebbe ridotta allo stesso. Fare dell’altro un alter ego, dice spesso Lévinas, vuol dire neutralizzare la sua alterità assoluta»71.

Nello specifico, le accuse che Lévinas muove a Husserl riguardano due elementi: il concetto di costituzione dell’altro presente nel metodo fenomenologico e la

67

J. Derrida, In questo medesimo momento in quest’opera eccomi, in Psyche. Invenzione dell’altro Vol. 1, cit.

68 J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997, tr. it. Di S. Petrosino, Addio a Emmanuel

Lévinas, Jaca Book, Milano 1998.

69 E. Lévinas, Totalité et infini, Nijhoff, La Haye, 1961; tr. it. di A. Dell'Asta, Totalità e infinito, Jaca

Book, Milano 1980.

70 E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Husserliana I, a cura di S. Strasser,

Nijhoff, Den Haag 1950, tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, Bompiani, Milano 2002.

71

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20 riduzione dell’alterità alla dimensione dell’egoità; Derrida si concentra proprio su queste due critiche per mostrare il fraintendimento in cui incorre Lévinas.

La prima questione riguarda il concetto di costituzione e sembra problematica a Lévinas in quanto, a suo avviso, affermare con Husserl che l’altro è costituito tramite appresentazione analogica a partire dall’ego significa considerarlo un mero alter-ego e, pertanto, annullare la sua alterità; per tali ragioni, come scrive Derrida, Lévinas «direbbe senza dubbio come Sartre: “l’altro lo si incontra, non lo si costituisce”»72

. Derrida si impegna, invece, a spiegare come, nella fenomenologia di Husserl, il termine costituzione non indichi una sorta di produzione o creazione dell’altro da parte dell’io, ma rimanda, piuttosto, al problema che Husserl chiama Urtasache, archi-fattualità, cioè il fatto che l’esperienza ha la sua radice irriducibile nell’ego:

«perché la forma essenziale, irriducibile, assolutamente generale e incondizionata dell’esperienza come uscita verso l’altro è ancora egoità? Perché è impossibile, impensabile una esperienza che non sia vissuta come la mia (per un ego in generale, nel senso eidetico-trascendentale di queste espressioni)? Questo impensabile, questo impossibile sono i limiti della ragione in generale»73.

La circostanza messa a fuoco nella ricerca fenomenologica è, quindi, secondo Derrida, che l’altro si manifesta sempre nello spazio di un’esperienza che è mia, che appartiene, cioè, ad un ego in generale e che sarebbe impossibile pensare altrimenti e senza tale riferimento; l’ego è perciò la condizione della manifestatività dell’altro ed è solo in virtù di questo suo ruolo irriducibile che Husserl parla di costituzione, rimanendo, quindi, lontano dall’intento di neutralizzante assimilazione che gli afffida Lévinas.

72 Ivi, p. 56. 73

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21 Per evidenziare come un procedere filosofico rigoroso non possa ignorare questa circostanza originaria, Derrida ribadisce come «è evidente, di una evidenza essenziale, assoluta e definitiva che l’altro, come altro trascendentale (altra origine assoluta, altro punto di orientamento nel mondo) non può mai essermi dato in modo originario e in persona, ma solo per appresentazione analogica»74

. Questo significa che l’altro non può presentarsi in maniera immediata proprio perché è altro dall’io; quindi, è necessario che si presenti facendo ricorso a forme mediate di intenzionalità come l’analogia: la mediazione è, infatti, attestazione dell’irriducibilità dell’alterità dell’altro, cioè l’esatto contrario di una sua semplice assimilazione.

L’appresentazione analogica indica, in Husserl, una percezione per analogia che, com’è noto, si riferisce al fatto che l’alter ego non è dato direttamente, ma mediante il suo corpo; l’ego percepisce come presente il corpo fisico (Körper) dell’alter ego e, constatandolo come somigliante al suo corpo vivo, riesce a percepire per analogia anche corpo vivo (Leib)75 dell’altro. Quindi, percependo il corpo fisico dell’alter ego come un corpo che si muove e agisce come il proprio, l’ego gli attribuisce anche una soggettività, sebbene essa non gli si possa presentare direttamente.

Quest’operazione, descritta da Husserl, è proprio ciò che agli occhi di Lévinas rappresenta un atto di violenza nei confronti dell’alterità che, come già detto, gli sembra ridotta alla dimensione del medesimo, dell’ipseità; Derrida, tuttavia, chiarificando le intenzioni metodologiche della fenomenologia di Husserl, dimostra come non si possa parlare di violenza in senso pieno, poiché, se anche si intende questa circostanza come violenta, essa si pone come ciò che, di fatto, apre l’unico accesso possibile all’altro:

74 Ivi, p 157. 75

«io esperisco i corpi vivi che mi stanno difronte nella loro presenza originaria, come le altre cose, esperisco invece l’interiorità dello psichico attraverso l’appresenza. Dunque, nel mio mondo fisico circostante io trovo corpi vivi, cioè cose materiali del tipo di quella cosa materiale che è «il mio corpo vivo», costituito nell’esperienza solipsistica, e li apprendo come corpi vivi, cioè io attribuisco loro per via entropatica un soggetto egologico» (E. Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, cit., p. 102).

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22 «questa violenza trascendentale che non procede da una risoluzione o da una libertà etiche, da una certa maniera di accostare o di oltrepassare l’altro, instaura originariamente il rapporto tra due ipseità finite. In effetti la necessità di accedere al senso dell’altro (nella sua irriducibile alterità), a partire dal suo viso, vale a dire dal fenomeno della sua non-fenomenicità, dal tema del non tematizzabile, o, in altri termini, a partire da una modificazione intenzionale del mio ego, la necessità di parlare dell’altro come altro o all’altro come altro, cominciando dal suo manifestarsi-a-me-come-quello-che-è: altro (manifestarsi che dissimula la sua dissimulazione essenziale, che lo porta alla luce, lo denuda e nasconde ciò che nell’altro è il nascosto), questa necessità è la violenza stessa, o meglio, l’origine trascendentale di una violenza irriducibile, se supponiamo, come dicevamo più sopra, che possa avere un senso il parlare di violenza pre-etica. Perché questa origine trascendentale, come violenza irriducibile al rapporto all’altro, è nello stesso tempo non-violenza, dato che apre il rapporto all’altro. È una economia. Proprio essa permetterà, attraverso questa apertura, a quell’accesso all’altro di determinarsi, nella libertà etica, come violenza o non-violenza morali»76.

Dalla Quinta meditazione cartesiana si evince, quindi, che il rapporto con l’altro è possibile solo mediante la percezione dell’altro come analogo di ciò che è proprio per l’ego; per Derrida, però, questo non significa eliminarne l’alterità quanto piuttosto salvaguardarla. Infatti, questa costituzione fenomenologica dell’altro è la garanzia della custodia dell’alterità dell’altro rispetto al medesimo, in una parola, del suo segreto; lo afferma chiaramente Derrida sostenendo che: «il tema della trasposizione appresentativa traduce il riconoscimento della separazione radicale delle origini assolute, il rapporto degli assoluti assolti e il rispetto non-violento del segreto: il contrario della assimilazione vittoriosa»77

.

A dimostrazione del fatto che la tematica del rapporto tra io e altro non cessa di occupare il pensiero di Derrida, è interessante notare come la questione della difesa dell’appercezione analogica di Husserl ritorni in un testo molto successivo dal titolo Il

76 Ivi, pp. 162-163. 77

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23 toccare, Jean-Luc Nancy78

e precisamente nelle pagine dedicate a Merleau-Ponty. Anche qui, Husserl viene utilizzato in difesa del segreto dell’altro, della sua inaccessibilità, ma, stavolta, contro una tendenza diversa da quella di Lévinas; se, infatti, Lévinas rischiava di incorrere nel pericolo che proiettava in Husserl, cioè l’ assimilazione dell’alterità nell’ipseità, Merleau-Ponty si situa in una situazione anche peggiore, intendendo sciogliere l’enigma del rapporto io-altro attraverso l’introduzione di una coincidenza originaria. Inoltre, Merleau-Ponty ritiene di riflettere a partire da ciò che sarebbe riconoscibile come il vero senso delle riflessioni di Husserl, il quale avrebbe pensato, a suo avviso, all’accesso al corpo altrui e al proprio corpo come altrettanto originari:

«la mia mano destra assisteva all’avvento del tatto attivo della mia mano sinistra: non diversamente si anima davanti a me il corpo altrui, quando stringo la mano di un altro uomo o quando soltanto la guardo. Apprendendo che il mio corpo è «cosa senziente», che è eccitabile (reizbar) – il mio corpo, e non solo la mia «coscienza» – , mi sono preparato a comprendere che esistono altri animalia e possibilmente altri uomini. Si deve riconoscere che in ciò non c’è né comparazione, né analogia, né proiezione o introiezione»79.

Merleau-Ponty disconosce il carattere indiretto della percezione del corpo vivo dell’altro per favorire la riappropriazione dell’alterità rispetto a come essa gli appare pensata in Husserl; egli si muove così in direzione di una confusione originaria80 che, nel corso della sua puntuale analisi, Derrida ritiene inammissibile. Egli replica semplicemente, ma efficacemente che la confusione originaria di cui parla Merleau-Ponty dà luogo alla circostanza per cui è del tutto possibile una sostituzione tra io e altro

78 J. Derrida, Le toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000, tr. it. di A. Calzolari, Il toccare, Jean-Luc

Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007.

79

M. Merleau-Ponty, Signes, Gallimard, Paris 1960, tr. it. Di G. Alfieri, Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 221.

80 «la corporeità alla quale appartiene la cosa primordiale è piuttosto corporeità in generale; come

l’egocentrismo del bambino, lo “strato solipsistico” è anche transitivismo e confusione dell’io e dell’altro» (Ivi, p. 228).

(32)

24 e, perciò, Derrida riconosce che, in questa ontologia, ciò che viene sacrificato è precisamente il segreto della singolarità, ceduto per la predilezione della coincidenza alla non-coincidenza e nel pieno tradimento della fedeltà ai fenomeni di stampo fenomenologico-husserliano.

Ciò che appare chiaro, quindi, nel confronto che Derrida intrattiene con Lévinas e Merleau-Ponty a partire dalle posizioni di Husserl, è la necessità del riconoscimento dell’evidenza secondo cui l’altro si manifesta sempre nel suo rapporto allo stesso nonché della responsabilità filosofica di non sciogliere questo rapporto e custodirlo, invece, come enigma. Tanto l’eterologia lévinassiana quanto la confusione originaria di Merleau-Ponty si aprono, infatti, a suo parere, al rischio della più grande forma di violenza che fa venir meno l’alterità dell’altro: «se l’altro non fosse riconosciuto come alter ego trascendentale, sarebbe per intero nel mondo e non, come me, origine del mondo. Rifiutare di vedere in lui un ego in questo senso è, nell’ordine etico, il gesto stesso di ogni violenza»81.

L’altro va riconosciuto, pertanto, come un io, simile a me, altrimenti rischia di essere ridotto ad una dimensione priva di egoità, simile a quella della pietra; infatti, anche quando l’intenzione è, come nel caso di Lèvinas, salvaguardarne l’irriducibilità, negando l’alter-ego dell’altro si corre il rischio di portarlo ad una condizione di totale estraneità e di non-assimilabilità, simile a quella in cui versano le cose. Derrida propone, invece, il mantenimento di una simmetria eidetico-trascendentale tra ego e alter-ego da porre come garanzia dell’irriducibile dissimmetria etico-empirica in cui risiede il nucleo più segreto dell’alterità82; egli parla, in proposito, di un’economia fra

singolarizzazione ed universalizzazione che non va in alcun modo neutralizzata.

81 J. Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 159.

82 Per un approfondimento di questo tema cfr. C. Di Martino, Le figure dell’evento. A partire da Jacques

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