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Capitolo II Nel silenzio

2.2 La traccia e la differenza

Si è premesso che gli accenni al contatto che Derrida intrattiene con gli autori già citati servono a comprendere la natura della vicinanza del filosofo al pensiero heideggeriano107, in particolare, aiutano ad intravedere i fattori di affinità e quelli di irriducibilità fra la differenza ontologica e la différance.

La convergenza con Heidegger è riconosciuta da Derrida stesso quando afferma che «su una certa faccia di se stessa, la différance non è altro che il dispiegamento istoriale ed epocale dell’essere o della differenza ontologica»108

. Procedendo con ordine, occorre spiegare che ciò che Derrida riconosce come grande contributo del pensiero heideggeriano è, in qualche misura, già implicito in questa citazione. La principale scoperta di Heidegger consiste, infatti, nel riconoscimento del movimento della differenza da cui consegue l’assunzione della storicità del senso dell’essere.

Se – come già scritto – la differenza ontologica corrisponde alla differenza fra Essere ed ente e può essere pensata solo nei termini del ritiro e della sottrazione dell’Essere dall’ente, ciò significa che l’Essere può essere pensato solo a partire dalla forma storica (dell’essente) in cui si dà, di volta in volta, sottraendosi ed occultandosi.

Questo movimento insieme di donazione e nascondimento rappresenta l’elemento del pensiero heideggeriano su cui si focalizza maggiormente Derrida; dalla natura di questo movimento, infatti, consegue che l’Essere è pensato come fenomeno originario, in quanto se l’Essere non si ritraesse non potrebbe apparire nulla né vi

107 L’importanza di questa operazione di confronto è ribadita dallo stesso Derrida quando afferma che: «è

necessario ricordare la sede nietzschiana, freudiana e soprattutto heideggeriana della decostruzione. È soprattutto in Heidegger, dove è in opera una tradizione cristiana, più precisamente luterana, di ciò che Heidegger chiama Destruktion. […] Ciò che mi interessa sempre più, è distinguere la specificità di una decostruzione che non sia necessariamente riducibile a questa tradizione luterano-heideggeriana. Ed è forse ciò che distingue il mio lavoro da quelli che mi sono vicini in Francia ed all’estero. Senza confutare o respingere nulla, vorrei tentare di distinguere ciò che sottrae la decostruzione in corso dalla memoria che eredita, anche laddove ne ribadisce e ne rispetta l’eredità…» (Ivi, p. 21).

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39 sarebbe storia. Per le stesse ragioni, però, l’Essere non può essere pensato come fenomeno prioritario o precedente all’apparizione dell’ente né come origine nel senso classico di fondamento; lo spiega chiaramente Derrida quando afferma che: «non può esserci un ordine di priorità se non tra due cose determinate, due essenti. Poiché l’essere non è nulla fuori dall’essente…, non può precederlo in alcun modo né in ordine di tempo né in ordine di dignità»109

.

Questo è il punto più importante ed insieme il luogo di maggiore contatto fra la differenza ontologica e la différance: entrambe corrispondono ad un movimento che elimina il sistema metafisico dell’origine; è solo a partire da quest’operazione di natura heideggeriana che può essere messo in questione l’apparato onto-teologico della metafisica della presenza.

Come è noto, Heidegger non si è fermato a pensare la storicità del senso dell’essere e, successivamente alla stesura di Sein und Zeit, ha determinato il darsi dell’essere come evento eminentemente linguistico110

e ha dato inizio ad una seconda fase del suo cammino di pensiero che si estende, non a caso, in costante contatto con il linguaggio poetico111

. È prendendo in analisi questo secondo aspetto della speculazione heideggeriana che Derrida se ne distacca e giunge alla determinazione originale della sua différance.

Dal momento in cui Heidegger arriva a comprendere che la differenza è determinata innanzitutto linguisticamente e non solo storicamente, inizia a prestare

109 Ivi, p. 173. 110

Per un approfondimento introduttivo alla questione dell’evento linguistico cfr. G. Vattimo, Essere,

evento, linguaggio, in Introduzione ad Heidegger, Laterza, Bari 1971, pp. 97-142.

111 Come aiuta a comprendere L. Amoroso, il passaggio dall’analitica esistenziale all’ermeneutica può

essere adeguatamente colto solo se riferito alla critica che Heidegger muove nei confronti della metafisica tradizionale, tema centrale per questa esposizione sulla différance in Derrida. «Il pensiero che si rivolge in cerca d’aiuto, per necessità, alla poesia è innanzi tutto il pensiero di Heidegger stesso, la cui prima grande opera, Sein und Zeit, dedicata esplicitamente alla questione dell’essere, non ha raggiunto il suo obiettivo ed è rimasta incompiuta. Secondo quanto Heidegger stesso ha dichiarato tale incompiutezza è dipesa dall’inadeguatezza del linguaggio della metafisica a dire la verità dell’essere» (L. Amoroso, Lichtung.

40 attenzione, con insistenza, alla storia della metafisica, con particolare riguardo per le parole con cui in essa è stata rappresentata la verità dell’essere. Heidegger si pone, così, come il primo pensatore che rivolge lo sguardo alla lingua della tradizione filosofica riconoscendola come il luogo della chiusura logocentrica della metafisica, ma anche come l’unico luogo a partire dal quale è possibile un pensiero della differenza.

Questo importante gesto heideggeriano ha, però, per Derrida, un limite radicale che possiamo definire come un limite di applicazione e che è possibile comprendere solo tenendo presente quanto è stato già esposto sull’interesse di Derrida nei confronti della lingua e del segno determinato dal contatto con lo strutturalismo e la fenomenologia di Husserl.

Heidegger è colui che, per primo nella storia della filosofia, svela il rapporto decisivo fra linguaggio e differenza e, fin qui, Derrida non potrebbe essere più d’accordo: «bisogna anzitutto passare attraverso il problema del linguaggio. Non ci si stupisca: il linguaggio è proprio il medium di questo gioco della presenza e dell’assenza»112

.

Tuttavia – come si rende evidente in Unterwegs zur Sprache113

– Heidegger si riferisce al linguaggio come voce; è questo il punto di irriducibilità con Derrida che, invece, pensa al linguaggio come scrittura riconoscendola come luogo in cui materialmente opera la differenza114

.

È a partire da questo elemento che Derrida muove ad Heidegger l’accusa di complicità con la metafisica della presenza:

112

J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 16.

113 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache (1959), hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd.

12, Klostermann, Frankfurt a.M. 1985; tr. it. di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2011.

114 Il termine francese usato da Derrida è différance scritto volutamente con la “a” al posto della “e”, una

sostituzione che, come già detto, a livello fonetico non produce alcuna variazione. Questa scelta ci aiuta a comprendere il carattere materiale del concetto, nel senso che ci aiuta a vedere come: «la concettualità della différance – come dice Derrida – è interamente compresa nella sua scritturalità» (Cfr. S. Maruzzella,

La traccia…supplemento d’origine, in J. Derrida, Al di là delle apparenze. L’altro è segreto perché è altro, cit., p. 11).

41 «il pensiero heideggeriano, non farebbe crollare, al contrario ristabilirebbe, l’istanza del logos e della verità dell’essere come ‘primum signatum’ significato in un certo senso trascendentale implicato da tutte le significazioni determinate, da ogni lessico e da ogni sintassi, dunque da ogni significante linguistico che non si confonde semplicemente linguistico che non si confonde semplicemente con alcuno di essi, che si lascia precomprendere attraverso ciascuno di essi, che resta irriducibile a tutte le determinazioni epocali che esso tuttavia rende possibili, prendo così la storia del logos ed esso stesso non essendo che per mezzo del logos: cioè non essendo nulla prima del logos e fuori di esso»115.

A ben vedere, in effetti, la critica rivolta ad Heidegger è della stessa natura di quella rivolta, più in generale, all’intera tradizione filosofica e cioè riguarda il legame fra logos e phoné. Come è noto, infatti, nel pensiero heideggeriano, è spesso affermato che il linguaggio parla per intendere che esso non è riducibile a una mera attività dell’uomo e si configura, invece, come spazio della differenza. Il principale intento heideggeriano diventa, pertanto, dagli anni ’40 del ‘900 in poi, quello di favorire un’esperienza del parlare del linguaggio116

finalizzata a riavvicinare l’uomo alla sua essenza di custode del Dire, inteso come luogo in cui si manifesta la differenza ontologica. Quest’esperienza tuttavia non è immediatamente sperimentabile nel linguaggio comune e quotidiano, pertanto Heidegger ne rintraccia la possibilità in quella che egli definisce come parola pura: una parola, cioè, sempre già-detta ma al fondo inudita e che giunge a coincidere con la parola poetica per natura evocativa e legata al suono, alla voce. Afferma Heidegger:

115 J. Derrida, De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967; tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, C. Contri, G.

Dalmasso, A. C. Loaldi, Id., Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969, pp. 23-24.

116 Il termine esperienza in riferimento al pensiero di Heidegger non è da intendersi come un accadimento

soggettivo o programmato, quanto piuttosto come un «provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso» (M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 127). Per una tale esperienza il filosofo non usa mai il termine tedesco Erlebnis che indica ciò che ha a che fare con il vissuto e con l’interiorità, ma preferisce la parola Erfahrung che si riferisce innanzitutto ad un movimento, al mantenersi in un cammino in cui nulla è stabilito ed in cui le cose possono autenticamente accadere.

42 «il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato. Il parlare non finisce in ciò che è stato detto. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito. […] Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché prendere a caso una parola qualsiasi, prendere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire, che carattere costitutivo della parola detta, si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la parola poetica»117.

Dinnanzi a questa posizione heideggeriana, Derrida mostra, però, come ciò che resta inudito nella parola pura così pensata da Heidegger è proprio la differenza ontologica, quel movimento di donazione e sottrazione che caratterizza la dinamica fra essere ed ente; ciò che resta inudito è l’origine della parola che non si manifesta mai come tale, ma sempre sotto forma di supplemento. Il problema, in parole più semplici, è che in Heidegger l’Essere resta inaccessibile poiché anche nell’esperienza del linguaggio propone al suo posto un significante; allora, anche Heidegger rientra in quella tradizione metafisica che ha avuto a cuore la custodia della differenza fra significato e significante e che, in coerenza con tale obiettivo, ha prediletto l’oralità alla scrittura.

Per tali ragioni, Derrida, anche se accetta la soluzione heideggeriana secondo cui un’esperienza del linguaggio è possibile solo mediante la vicinanza ad una parola già detta, non pensa, come Heidegger, che l’eccezionalità di una parola simile sia dovuta al fatto che in essa risuona la pienezza dell’essere; egli è convinto, diversamente, che si possa considerare parola già detta solo la parola scritta che niente ha a che fare con il risuonare o con la voce né può essere riferita ad un significato trascendentale.

Pertanto, nonostante Heidegger segni la chiusura dell’epoca dell’onto-teologia, agli occhi di Derrida, egli è trattenuto all’interno della stessa in quanto il suo sistema resta fonologocentrico e rimuove ancora la scrittura dall’orizzonte di azione di una

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43 parola piena. Così, pur ammettendo che anche la parola parlata, come ha mostrato Heidegger, è abitata dalla differenza118, Derrida ritiene che è nella parola scritta che la différance mostra maggiormente il suo gioco, rendendo effettivamente evidente il suo movimento e lo fa specificatamente lasciando tracce.

La traccia è il segno di qualcosa che è stato presente ma, adesso, si assenta; era già stata riconosciuta da Heidegger in riferimento alla parola parlata, ma, per Derrida, è nella parola scritta che essa propriamente si esemplifica. La parola parlata fa, infatti, ancora riferimento ad un soggetto cosciente che agisce su di essa conservandola sotto il suo controllo; questo tema è ben articolato in La farmacia di Platone, quando viene discusso che la parola viva (espressione che si usa consuetudinariamente per riferirsi alla parola parlata a dimostrazione del fatto che il logos è tradizionalmente collegato alla presenza poiché viene proprio inteso come ente vivente) ha sempre un padre, nel senso che è sempre espressione di una coscienza soggettiva. La parola scritta è, invece, strutturalmente passiva – come si spiegava già in riferimento alla scrittura psichica di Freud119

– e rinvia sempre a qualcos’altro senza che questo possa essere rintracciato in modo univoco. Derrida definisce la parola scritta come strutturalmente orfana, sopra- vivente e testamentaria; essa è sempre utilizzata per rappresentare qualcosa che non è direttamente presente; di conseguenza, al contrario della voce, essa sopravvive all’assenza dell’autore (del padre, per seguire la metafora derridiana). In questo senso, la scrittura come segno sostituisce sempre qualcosa di diverso da sé e che resta difficile rintracciare: la scrittura è davvero traccia di un’origine assente, ma che, a differenza

118 «Il linguaggio ospita la differenza che ospita il linguaggio» (J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p.

21).

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«Freud, nei momenti decisivi del suo itinerario, fa ricorso a modelli metaforici che non sono presi dalla lingua parlata, dalle forme verbali e neppure dalla scrittura fonetica, ma da una grafia che non è mai subordinata, esterna e posteriore alla parola. Freud fa appello a segni che non intendono trascrivere una parola viva e piena, presente a sé e padrona di sé» (J. Derrida, Freud e la scena della scrittura, in La

44 della voce, poiché non è riferibile ad un significato trascendentale, si configura effettivamente come traccia cancellata.

È vero, dunque, che il legame fra la traccia e la differenza è stato scoperto da Heidegger, per il quale – come è stato esposto – l’origine è già una traccia cancellata (e qui risiede la natura decisiva del suo contributo per il pensiero di Derrida), tuttavia il filosofo tedesco non ha colto il legame fra la presenza e la traccia scritta e perciò non ha pensato, pienamente e al di fuori della metafisica, il movimento di questo tracciare. Proprio la scrittura è, infatti, secondo Derrida, il luogo in cui si dà la differenza come traccia e come traccia non rintracciabile, non riferibile ad una presenza ultima. È in questo senso che Derrida definisce la scrittura come sinonimo della differenza, dal momento che può essere pensata solo come movimento differenziale:

«questo cancellamento della traccia deve essere tracciato nel testo metafisico. La presenza, allora, lungi dall’essere, come si crede comunemente, ciò che il segno significa, ciò a cui rinvia una traccia, la presenza allora, è la traccia della traccia, la traccia del cancellamento della traccia. Tale è per noi il testo della metafisica, tale è per noi la lingua che parliamo. È a questa sola condizione che la metafisica e la nostra lingua possono far segno verso la propria trasgressione»120.

Comprendere ciò significa, per l’autore, assumere completamente l’intreccio fra linguaggio, scrittura e differenza e determina delle conseguenze fondamentali nella sua personale pratica di scrittura. Per Derrida, infatti, la scrittura non può più servire la verità, il senso o il soggetto, ma ha il compito di decostruire se stessa come depositaria della verità. Praticare la scrittura significa, allora, decostruire i testi metafisici e farlo mediante un linguaggio il più possibile metaforico, cioè un linguaggio che riesca ad

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45 esibire la dinamica di rimandi non rintracciabili che lo caratterizza: la dinamica della differenza.

Questo metodo viene applicato anche ai testi di Heidegger stesso in cui, come abbiamo visto, per Derrida, avviene la ripetizione della metafisica; oltre a ciò, secondo l’autore francese, in essi la metafisica si apre a forme di scrittura estreme, come ad esempio lo sbarramento delle parole che è un espediente letterario prettamente heideggeriano. In questo senso, Derrida definisce la scrittura di Heidegger come l’ultima di un’epoca, ma anche come la «prima scrittura»121

, quella cioè che chiude la storia della metafisica pur essendone parte e ripetendola e, contestualmente, dà l’avvio a qualcosa di nuovo.

Stando così le cose ed essendo la scrittura heideggeriana parte della metafisica della presenza, ne consegue che, poiché tutti i nomi sono legati al concetto di identità122 e solo la scrittura è, invece, in grado di incarnare la differenza come traccia cancellata, Derrida riconosce la differenza ontologica come un semplice nome della différance e non come un concetto in cui è inclusa la sua essenza:

«il riconoscere… (a questa prima scrittura…) …che il senso dell’essere non è un significato trascendentale o trans-epocale… ma già, in un senso propriamente inaudito, una traccia significante determinata, equivale ad affermare che nel concetto decisivo di differenza ontico-ontologica tutto non è da pensare in un sol tratto: ente ed essere, ontico e ontologico… sarebbero, in uno stile tutto originale derivati nei riguardi della differenza: e , in rapporto a ciò che chiameremo più avanti la différance, concetto economico che designa la produzione del differire, nel doppio senso della parola»123.

121 J. Derrida, Della grammatologia, cit. p. 27.

122 «occorre riconoscere che tutte le determinazioni di una tale traccia – tutti i nomi che le si danno –

appartengono in quanto tali a testo metafisico che ospita la traccia e non appartengono alla traccia in sé. Non vi è traccia in sé; non vi è traccia propria… Così le determinazioni che nominano la differenza sono sempre dell’ordine metafisico. E non solamente la determinazione della differenza come… differenza dell’essere dall’essente» (J. Derrida, Ousia e grammè, in Margini della filosofia, cit., p. 77).

123

46 A partire da ciò, si può comprendere come già in questa riflessione sia annunciato il superamento della determinazione della différance come differenza ontologica, operazione che si rende possibile solo mediante l’avvio di una pratica di scrittura che manca in Heidegger e che non consiste nel nominare la differenza (nel cercare il suo nome proprio o nel protendersi verso un dire originario) quanto piuttosto nell’iscriverne il movimento in se stessa. Una scrittura, insomma, che si distingua dalla forma di grammè praticata dal tempo di Aristotele in poi e che, dunque, vada al di là perfino dei concetti tradizionali di presenza e di assenza.

Le citazioni di questo paragrafo sono quasi interamente riferite a La voce e il fenomeno, testo con cui Derrida finisce di confrontarsi con la fenomenologia di Husserl ma anche luogo in cui egli dichiara la sua distanza da Heidegger, e a La grammatologia, scritto nel medesimo anno. In quest’ultima opera, Derrida annuncia una nuova scienza che ha il compito di tematizzare il nuovo concetto di scrittura; la grammatologia, cioè, dovrebbe mostrare nei testi della storia della metafisica della presenza la traccia di ciò che essa rimuove124

. Allo stesso tempo, però, Derrida dichiara questo compito impossibile poiché non vi è scienza che possa avere come oggetto la scrittura dato che è quest’ultima a conferire il carattere di oggettività ad ogni scienza. Giungiamo, così, al punto nevralgico della questione: nella presenza c’è già sempre traccia dell’assenza e ciò che Derrida principalmente mostra, nel suo confronto con Heidegger, è l’impossibilità di distinguere in modo netto e puro i termini di questa opposizione: la differenza va pensata, allora e fin dall’inizio, come movimento di contaminazione necessaria.

124 «È proprio la critica al concetto di centro o di struttura centrata e fondata, così come a altri concetti

tipici della tradizione metafisica, quali sono “origine” e “finalità”, che permette di portare l’attenzione sul

significante, sul segno linguistico inteso come semplice traccia e, in quanto segno proprio della scrittura

alfabetica, sul gramma: sul segno scritto e non più su quello semplicemente e solo pensato. La decostruzione assume così il nome e il programma di una gramma-tologia, lo studio dei significanti propri della scrittura alfabetica» (P. D’Alessandro, Oltre Derrida per un’etica della lettura, in AA.VV.,

Su Jacques Derrida. Scrittura filosofica e pratica di decostruzione, a cura di P. D’Alessandro e A.

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2.3 La différance

Risale al 1968 una conferenza, tenuta presso la Società francese di filosofia, che

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