Il quadro normativo
Le leggi che regolano il settore delle comunicazioni trovano la loro origine nella Costituzione della Repubblica italiana. La Costituzione e il suo combinato disposto creano le premesse dello sviluppo dell’informazione. L’articolo 21 sottolinea che “tutti
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con parola, scritto e ogni mezzo” e riguarda il diritto all’informazione tramite mezzi di stampa, radio e volantini.
L’articolo 15 (“La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di
comunicazione sono inviolabili…”) invece riguarda il diritto alla comunicazione tramite
telefono, telegrafo e corrispondenza epistolare. Le nuove tecnologie offuscano questa differenza a causa della progressiva affinità tra attività di comunicazione (intesa come libertà di pensiero nei confronti di soggetti individuati con segretezza) ed informazione. In Italia, una prima forma di comunicazione istituzionale/pubblica - intesa soprattutto come comunicazione politica - in funzione propagandistica (essenzialmente di governo)125
ha interessato una fase che, dal dopoguerra si è estesa fino all’inizio degli anni ‘70, e ha avuto quale suo elemento distintivo la perfetta identità fra attore politico e attore amministrativo: se è l’istituzione pubblica che comunica, questa si attiva per veicolare messaggi volti esclusivamente a raggiungere specifici obiettivi di partito e una migliore percezione, da parte del cittadino, dei soggetti (e della loro immagine) che agiscono nel partito stesso e nel tessuto pubblico e istituzionale. Nell’area della comunicazione, lo status pubblico è così la naturale protesi della personale appartenenza partitica. Gli anni ’70 segnano il passaggio a una fase di “comunicazione a senso unico” – o meglio, a un modello informativo unidirezionale – che vede allentarsi l’identità (che caratterizza il periodo precedente) fra istituzione e partito. D’altro canto, mentre i mezzi di comunicazione di massa sperimentano un’embrionale autonomia d’azione, trova graduale diffusione la consapevolezza dell’esistenza di una serie di diritti e doveri che lega PA e cittadini. Anche in questa fase però l’atto comunicativo dell’amministrazione si rivela un’attività unidirezionale verso il privato cittadino che rimane un ricevente passivo rispetto alla comunicazione dell’emittente pubblico. Gli studi effettuati negli anni Settanta e Ottanta dalla Commissione Bassanini e dal Formez hanno portato ad uno
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sviluppo di leggi nazionali e regionali. A livello comunitario invece si trovano soltanto alcuni indirizzi generali e normative specifiche su singole materie, poiché l’Unione Europea non ha una competenza generale in materia, e quindi non può intervenire sulla comunicazione istituzionale126. In quel periodo si comincia a modificare il contenuto
della comunicazione istituzionale, che viene adattata in funzione della ricettività del cittadino e assimilata essenzialmente alla comunicazione commerciale, attraverso il cosiddetto “marketing elettorale”. Si prenda ad esempio la legge del 25 febbraio 1987, n. 67127 che ha regolamentato la gestione interna attraverso la creazione di apposito
capitolo di bilancio (“…al quale imputare tutte le spese comunque afferenti alla
pubblicità”) e la distribuzione per quote sui diversi mezzi di comunicazione (“Le amministrazioni statali e gli enti pubblici non territoriali, con esclusione degli enti pubblici economici, sono tenuti a destinare alla pubblicità su quotidiani e periodici una quota non inferiore al cinquanta per cento delle spese per la pubblicità iscritte nell’apposito capitolo di bilancio”), nonché le esenzioni (“dalla comunicazione negativa”) per i comuni con meno di 40.000 abitanti e la sanzione amministrativa
pecuniaria (“da lire ottocentomila a quattro milioni ottocentomila”) per “i pubblici
ufficiali e gli amministratori degli enti pubblici che non osservano le disposizioni”
contenute nell’art. 5. La legge 23 agosto 1988, n. 400128
ha istituito il Dipartimento per l’informazione e l’editoria (già Direzione Generale delle informazioni, dell’editoria e della proprietà letteraria, artistica e scientifica), al fine di promuovere un’azione comunicativa che vada oltre i circoscritti momenti della persuasione e propaganda, attraverso innovative campagne di pubblicità sociale, attività ed eventi con un valido ritorno sia dal punto di vista interno che internazionale. La norma sottolinea “la
questione dell’effettiva capacità (politica e amministrativa) del vertice governativo di coordinare efficacemente la compagine di Governo, assumendo anche alcuni ruoli tecnici di supporto legislativo, di spesa, di comunicazione e di immagine, di incidenza sociale, di compatibilità internazionale”129. La Legge 223/1990 (Legge Mammì) sulle
emittenti radiofoniche e televisive private puntava a regolare, soprattutto in relazione
126 Cfr. Gardini G., Le regole dell’informazione, Bruno Mondadori, Milano 2009.
127 La legge 67/1987 recante la “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” (rinnovo
della Legge 5 agosto 1981 n. 416).
128 Legge 400/1988 recante “Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei Ministri”.
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alla quantificazione delle risorse economiche da destinare alla comunicazione, il rapporto tra PA e mezzi di comunicazione di massa. La lentezza e la parzialità della sua applicazione, hanno evidenziato le difficoltà e i ritardi che spesso indeboliscono il sistema-Italia.
L’avvento degli anni ‘90 segna l’inizio di una fase, ancora in atto, che mira a realizzare concretamente il modello della comunicazione bidirezionale, del quale uno dei fautori fu il politologo statunitense Karl Deutsch che affermò l’importanza della bidirezionalità e della risposta feedback nell’economia dei processi comunicativi, pubblicando nel 1963 “The nerves of the Government” nel quale sottolineava l’assoluta rilevanza dei nervi di collegamento e scambio fra istituzione pubblica e cittadini. Protagonisti di questa fase, oltre alle diverse istituzioni pubbliche, sono i mezzi di comunicazione di massa, canali influenti e capaci di filtrare e amplificare, quelli che per uno dei maggiori esponenti della sociologia tedesca del XX secolo, Niklas Luhmann, erano i temi di opinione, e i privati cittadini, oramai divenuti soggetti attivi e attivabili per rendere coerentemente bidirezionale il processo comunicativo. In questo periodo si assiste all’emergere di elementi quali il marketing dell’istituzione pubblica e dei servizi; la pianificazione strategica delle campagne di comunicazione; l’analisi del feedback ricevuto in rapporto al risultato atteso; il dovere di trasparenza strettamente legato alla pubblicità dell’amministrazione. Lo sviluppo della comunicazione pubblica in Italia trova terreno fertile nell’articolato processo di decentramento amministrativo e funzionale avviato negli anni Novanta. Dal 1990 al 2000 il Parlamento vara sei leggi in materia di comunicazione e informazione: la legge 142/1990 afferma il diritto/dovere delle istituzioni di comunicare; la legge 241/1990 pone la comunicazione al servizio dei principi di trasparenza e di accesso; il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, crea lo strumento degli URP; la legge 59/1997 lega la comunicazione ai processi di semplificazione; la legge 127/1997 colloca la comunicazione al servizio dello snellimento dell’attività amministrativa; la legge 150/2000 legittima in maniera definitiva l’informazione e la comunicazione riconosciute come costanti dell’azione di governo nella PA130. La
necessità della pubblicità degli atti delle istituzioni viene sancita dalla legge 8 giugno 1990, n. 142 “Ordinamento delle autonomie locali”. L’art. 7 del testo legislativo afferma espressamente che “tutti gli atti dell’Amministrazione Comunale e Provinciale sono
130 Alessandro Rovinetti, “Diritto di parola. Strategie, professioni, tecnologie della comunicazione
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pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge”, e statuisce
che, con successivo apposito Regolamento, si detteranno “le norme necessarie per
assicurare ai cittadini l’informazione sullo stato degli atti e delle procedure e sull’ordine di esame delle domande, progetti e provvedimenti che comunque li riguardino”. La tendenza, almeno formale, che spinge la PA ad agire sempre più
secondo i parametri della comunicazione bidirezionale, della pubblicità e della trasparenza, raggiunge l’apice con la L. 241/1990. La norma, nota come legge sulla trasparenza, è di grande importanza e la sua rivoluzionaria idea ispiratrice è chiara già nell’art. 1 dove si legge che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità secondo le modalità previste dalla seguente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti”. Tale circolo virtuoso, per la prima volta espressamente previsto,
deve costantemente orientare le scelte e le procedure attuate in ambito pubblico; solo specifiche e motivate circostanze possono, dunque, interporsi fra il procedimento amministrativo e il suo più lineare perfezionamento. Su tale base, i cittadini – che su richiesta possono conoscere e valutare la natura, l’iter e l’esito di atti e documenti che li riguardano – divengono garanti della positività dell’azione della PA131
. Negli anni ‘90 con l’avvio della riflessione sulla trasparenza dell’operato pubblico, si diffonde il concetto di amministrazione condivisa, basata sulla collaborazione e sulla fiducia fra amministrazione e cittadini. La maggiore consapevolezza dei propri diritti, da parte dei cittadini, comporta un coerente e collegato aumento della richiesta di informazioni. In tal modo i cittadini non sono più solamente dei portatori di bisogni, ma delle vere e proprie risorse capaci di migliorare l’agire amministrativo, divenendo dei soggetti attivi posti al centro dell’azione istituzionale. La nuova struttura dell’arena di discussione pubblica132 si caratterizza per la presenza di un elevato numero di soggetti e sistemi di
soggetti che, proiezioni di un articolato processo di differenziazione sociale, interagiscono e competono reciprocamente in un contesto spiccatamente dialettico. Non a caso, con la legge 31 luglio 1997, n. 249 (c.d. legge Maccanico133) il legislatore
131 FORMAL - Giornate formative per amministratori neo-eletti del Lazio, la comunicazione istituzionale
nelle pubbliche amministrazioni di Santo Fabiano, 2006.
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Mancini P., Manuale di Comunicazione Pubblica, Laterza, Bari, 2002.
133 La legge 249/1997, recante “Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui
sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo”, c.d. legge Maccanico, dal nome del suo proponente,
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prevede l’istituzione dei Co.re.com. (Comitati regionali per le comunicazioni) quali organi funzionali, idonei ad esercitare, in ragione della contiguità territoriale, funzioni delegate in materia di comunicazione rivolte ai cittadini e agli operatori del settore a livello locale. La legge Maccanico si proponeva di fornire una più completa formulazione di una normativa in materia di comunicazione televisiva e di affrontare le questioni legate all’antitrust, in conformità ai principi del pluralismo già richiamati dalla legge Mammì del 1990. Di qui la decisione di istituire una nuova Autority indipendente, denominata Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - AGCOM (art. 1, co. 1). Negli anni successivi l’evoluzione sociale e quella della PA hanno portato alla svolta normativa nella specifica materia della comunicazione, identificabile con la legge del 7 giugno 2000, n. 150: “Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle
pubbliche amministrazioni” (nella figura 8 la prima pagina della Gazzetta Ufficiale
dell’epoca), una “legge quadro” che, per la prima volta, mette chiarezza tra la titolarità delle attribuzioni e dei compiti dell’informazione e della comunicazione, definendo ambiti di applicazione, funzioni, strumenti e strutture.
Fig. 8
Particolarmente interessante è la testimonianza di Liberato Sicignano, referente per le strutture URP e servizi di comunicazione della Città di Scafati (in provincia di Salerno), già segretario regionale dell’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale che ricorda come, dagli anni Novanta, constatata la necessità di
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una regolamentazione più pertinente e approfondita del comparto, si cominciò a lavorare all’ipotesi di una legge-quadro sulla comunicazione istituzionale: le discussioni e i dibattiti ebbero luogo in tutte le sedi, dall’assemblea dell’associazione, ai convegni presso il COM-PA (il Salone europeo della Comunicazione pubblica e dei servizi al cittadino e alle imprese la cui prima edizione risale al 1993), sulle pagine della rivista dell’associazione e sui giornali nazionali. “Inizialmente si pensò ad una legge per i soli comunicatori istituzionali ma il progetto era fortemente osteggiato - racconta Sicignano -. Avevamo nemici potenti, fuori e dentro il Parlamento, e ci ritrovammo in una condizione di stallo, finché non si superarono i contrasti con i giornalisti, i quali da sempre aspiravano ad entrare negli uffici pubblici come addetti stampa. Fu stretto un patto di ferro con la FNSI (Federazione nazionale della stampa italiana) e così l’iter della legge si sbloccò. Per uno di quei casi della vita mi ritrovai a partecipare agli incontri di discussione sulla bozza della legge 150 presso la sala Capranichetta di Roma. Fu un’esperienza straordinaria: vi lavorarono fianco a fianco personalità di diversa estrazione politica come Massimo Villone, Enrico La Loggia e altri parlamentari, oltre a Sandro Rovinetti, segretario dell’Associazione italiana della comunicazione pubblica e istituzionale, che collaborava con la Presidenza del Consiglio e con il ministro Frattini che aveva preso a cuore il tema e sollecitava l’adozione di provvedimenti legislativi”. Quando fu pronta la bozza della legge 150 e fu distribuita ai presenti per le osservazioni di rito, emerse subito la mancanza di sanzioni per gli enti inadempienti rispetto al dettato della legge. “Lo feci notare ai partecipanti rilevando che essa nasceva indifesa come un neonato - continua Sicignano -. Mi fu risposto che non si poteva fare di più e che sarebbe stato già un successo se fossimo riusciti a farla approvare così com’era dal Parlamento considerati i forti contrasti e l’opposizione di quanti volevano mantenere la comunicazione istituzionale in un ambito strettamente discrezionale, senza una regolamentazione. Nacquero così la legge 150/2000 e il successivo DPR n. 422/2001 che conteneva una importante disposizione: in sede di prima applicazione della norma venivano confermati nelle funzioni, previo aggiornamento professionale, quanti già si occupavano di comunicazione nelle varie amministrazioni. Ciò consentiva di riconoscere il lavoro dei dipendenti che da anni erano impegnati nel campo della comunicazione. E poiché l’applicazione della legge dava spazio a tutti, si auspicava
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l’ingresso nella PA sia dei neo laureati in scienze della comunicazione, sia dei giornalisti per quel che riguardava gli uffici stampa”.
Con la legge 150 lo Stato istituzionalizza l’area della comunicazione pubblica – che diviene obbligo – e riconosce alla stessa il carattere di risorsa prioritaria e strutturale, legittimandone e prevedendone la diffusione in ogni momento e settore della PA, distinguendone la specifica natura da quella delle altre attività amministrative. La comunicazione e l’informazione (pur avendo una differente specificità con conseguente diversificazione delle reciproche attività e finalità) sono definite come risorse fondamentali, ovvero parti essenziali dell’attività istituzionale di una PA. La norma individua nel termine “informazione” un agire principalmente volto al trasferimento verticale di specifici items di pubblico interesse, che realizza una funzione sostanzialmente cognitiva e lo fa secondo criteri di totale trasparenza. Parallelamente, recependo il concetto di comunicazione bidirezionale e di feedback, la L. 150 promuove l’interazione fra la PA e i cittadini con l’intento di sostenere l’identità e l’immagine dell’istituzione favorendo il consenso del pubblico su argomenti di interesse collettivo. L’articolo 1 della Legge 150 - “Le disposizioni della presente legge, in attuazione dei
principi che regolano la trasparenza e l’efficacia dell’azione amministrativa, disciplinano le attività di informazione e di comunicazione delle amministrazioni pubbliche” - è il manifesto dell’intero impianto legislativo. Al comma 4, lettera a), si
specifica che sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle volte a conseguire «l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici». Da un punto di vista operativo, il
testo legislativo (art. 6) istituisce formalmente e regolamenta tre differenti strutture - il portavoce, l’ufficio relazioni con il pubblico (URP) e l’ufficio stampa - deputate alle attività di informazione e comunicazione nelle PP.AA., ribadendo al comma 1 la distinzione tra l’attività di informazione, che la legge affida all’ufficio stampa e al portavoce, e l’attività di comunicazione, che si realizza attraverso la vasta tipologia di strutture già disciplinate (in particolare, dagli artt. 11 e 12 d.lgs. 29/1993 e successive modificazioni e disposizioni attuative): URP, sportelli per il cittadino e per le imprese, sportelli unici della PA, uffici polifunzionali, di cui non solo fa salve le prerogative ma sposta sempre più l’interpretazione della funzione di comunicazione verso le attività di servizio. Sono, quindi, tre le figure professionali cui è delegata la comunicazione
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dell’ente: addetto stampa, portavoce e “URPista”. Secondo alcuni studiosi, le tre fonti dell’informazione istituzionale dovrebbero rimanere sempre separate per garantire maggiore obiettività e trasparenza. Per altri, invece, tali fonti dovrebbero interagire, essere coordinate, per poter fornire informazioni univoche, ma con modalità, strumenti, linguaggi diversi perché si relazionano a pubblici diversi: il portavoce con le altre istituzioni (e spesso anche con i media), l’ufficio stampa con i media e l’URP con i cittadini. La legge 150 (art. 6, comma 2) affida a ciascuna amministrazione il potere di definire, “nell’ambito del proprio ordinamento degli uffici e del personale e nei limiti
delle risorse disponibili, le strutture e i servizi finalizzati alle attività di informazione e comunicazione e al loro coordinamento, confermando, in sede di prima applicazione della presente legge, le funzioni di comunicazione e di informazione al personale che già le svolge”. Nel testo viene evidenziata la capacità del legislatore di leggere la
comunicazione istituzionale come funzione complessa che, pur affidata a strutture diverse, deve rispondere ad una visione unitaria di obiettivi e strategie. Il comma in questione stabilisce una forma di tutela per il personale che già svolge attività di informazione e comunicazione, il quale deve essere riconfermato nell’incarico. La norma rimette alla potestà regolamentare delle amministrazioni la definizione delle strutture e dei servizi, a condizioni che questo non comporti oneri aggiuntivi. L’organizzazione delle strutture di informazione e comunicazione e la realizzazione di tali attività deve comunque concretizzarsi nei limiti delle risorse disponibili nel bilancio dell’ente “per le medesime finalità”. Il legislatore, al comma 5 dell’art. 9, demanda alla contrattazione collettiva l’individuazione e la regolamentazione dei profili professionali nell’ambito di una speciale area di contrattazione, con l’intervento delle organizzazioni rappresentative dei giornalisti134, ma stabilisce anche che “dall’attuazione del presente
comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”,
affermando che i mezzi di finanziamento sono sostanzialmente inesistenti.
Il portavoce
L’art. 7 della legge 150 prevede che l’organo di vertice di una amministrazione pubblica possa essere coadiuvato da un portavoce, anche esterno all’ente, “con compiti
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Il confronto tra l’Aran (l’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana non è mai decollato, con periodici momenti di frizione che, di fatto, ostacolano un’attuazione della legge pienamente conforme alla sua lettera (prima ancora che al suo spirito). Pennone, Guida Normativa 2017.
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di diretta collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione”. Tale figura, creata appositamente dalla legge 150, è legata a
doppio filo da un rapporto fiduciario con l’organo/soggetto di vertice dell’ente (sindaco, presidente di Provincia o di Regione) da cui dipende e che egli stesso rappresenta. L’incarico del portavoce - per il quale non è previsto il requisito dell’iscrizione all’Albo del giornalisti, con i conseguenti diritti ed obblighi - può essere ricondotto ad un incarico di nomina politica ai sensi del comma 560 della finanziaria 2007 e dell’art. 90 del d.lgs. n. 267 del 1990, ma non a quello di addetto stampa. L’articolo vieta, inoltre, al portavoce, per tutta la durata dell’incarico, la possibilità di esercitare qualsiasi “attività
nei settori radiotelevisivi, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche”. La
sua è un’attività di informazione politica (di parte) che collega la competenza professionale e il rapporto di fiducia con il capo dell’amministrazione (del quale deve comunicare scelte, orientamenti e strategie, ovvero il programma istituzionale), che decide di dotare l’amministrazione di un portavoce, a cui attribuisce una indennità, determinata “nei limiti delle risorse disponibili appositamente iscritte in bilancio da
ciascuna amministrazione per le medesime finalità”. La direttiva della Presidenza del
Consiglio dei Ministri – dipartimento della Funzione pubblica (“Attività di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”), del 7 febbraio 2002 (di cui parleremo più avanti), completa la definizione a norma di legge: “il portavoce, presente nelle
amministrazioni complesse, sviluppa un’attività di relazioni con gli organi di informazione in stretto collegamento ed alle dipendenze del vertice “pro tempore” delle amministrazioni”. L’elemento di maggiore ambiguità è rappresentato dal fatto che il
portavoce, ruolo esplicitamente politico, può svolgere una visione di coordinamento generale e di indirizzo, relegando agli altri uffici una funzione operativa ma non strategica. Inoltre, la legge 150 non chiarisce il percorso formativo che il portavoce deve compiere, o aver compiuto, o a quale categoria professionale debba appartenere. Si richiede solo che abbia la fiducia del vertice dell’amministrazione. Questo può, in alcuni casi, delegittimarne la professionalità e la credibilità sia all’esterno che all’interno degli altri uffici dell’Ente che si occupano di comunicazione e informazione. In questi anni di difficile applicazione della legge 150 non sono mancate le polemiche sulla sovrapposizione delle competenze soprattutto tra portavoce e ufficio stampa.
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L’Ufficio stampa
Da oltre 50 anni gli uffici stampa, nella PA come nel mondo privato, si