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I profili problematici del d.lgs 97/2016 e l’elaborazione dottrinale “

Il FOIA approvato è considerato un buon passo avanti e, se applicato correttamente, consentirà di ottenere più facilmente dati che è giusto siano di dominio pubblico. Non mancano tuttavia le criticità. Preoccupano l’eliminazione di alcuni obblighi di pubblicazione previsti dal d.lgs. 33/2013 e la formulazione delle eccezioni che, oltre ad essere eccessive, sono ancora troppo generiche – come nel caso degli “interessi pubblici inerenti la politica e la stabilità economica e finanziaria dello Stato” – che si prestano ad essere alibi per le amministrazioni che non hanno voglia di fare “vera” trasparenza. Il carattere fondamentale del diritto in questione impone comunque all’amministrazione di intendere restrittivamente le eccezioni e di rispettare il canone della proporzionalità, adottando decisioni che arrechino all’interesse conoscitivo del richiedente il minimo pregiudizio possibile. Qualora venga in risalto uno degli interessi- limite (indicati dai primi due commi dell’art. 5-bis), l’amministrazione dovrà verificare la serietà e probabilità del danno a quell’interesse, ma dovrà provvedere a contemperarlo con l’interesse del richiedente, con conseguente esercizio di un potere discrezionale. Ne deriva un’implicazione di ordine processuale: quando la richiesta incrocia un interesse-limite e quindi la decisione è frutto di un bilanciamento, il giudice amministrativo non può, a rigore, ordinare l’esibizione, non potendosi sostituire all’amministrazione nell’esercizio di quel potere, ma solo esigerne il corretto esercizio. Anche in considerazione di questo limite della judicial review, sarebbe stato preferibile - come accade per altri FOIA - assegnare la guida unitaria del processo di applicazione a un’apposita autorità indipendente attribuendole il compito di decisore di ultima istanza sui ricorsi amministrativi. Il d.lgs. n. 97 si limita, invece, a prevedere un sistema (non accentrato, ma) diffuso di ricorsi amministrativi, privilegiando di fatto la via giudiziale.

A parziale correttivo di questa situazione, è stato assegnato all’ANAC il compito di adottare, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, “linee guida recanti indicazioni operative” in merito alla “definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico”: uno strumento prezioso di armonizzazione delle prassi che, tuttavia, essendo disgiunto dal compito di decidere sui ricorsi amministrativi, nasce depotenziato. Nell’applicare le eccezioni dunque le amministrazioni italiane dovranno aggiornare le tecniche di bilanciamento già impiegate per l’accesso procedimentale.

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Decisivi saranno gli orientamenti giurisprudenziali e le linee guida dell’ANAC: l’auspicio è che gli uni e le altre forniscano indicazioni convergenti, utilizzando la giurisprudenza comunitaria come punto di riferimento comune.

Il decreto fa, poi, genericamente riferimento ai “costi”, senza precisare alcunché rimanendo così ampiamente soggetto ad interpretazioni. In caso di mancata risposta entro 30 giorni, o di risposta negativa e immotivata, si delinea un ricorso al TAR che si prospetta piuttosto oneroso. Altra questione discutibile riguarda la mancata previsione di sanzioni chiare e rigorose per la PA inadempiente (nei casi di illegittimo diniego di accesso), che non fornisce risposte ai cittadini che le richiedono, o che non fornisce adeguate motivazioni, o che rifiuta la richiesta (sanzioni che pure la legge delega della riforma Madia aveva previsto).

Emblematico è il caso del Ministero di giustizia che è stato condannato dalla Prima sezione del Tar del Lazio, con la sentenza del 28 luglio 2017 n. 9076, a riscontrare un’istanza di accesso e/o a provvedere alla pubblicazione (come richiesto dai ricorrenti) dell’albo degli amministratori giudiziari (entro 30 giorni dalla notifica della sentenza), riconoscendo da parte del dicastero l’inadempimento degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni. Tutto è iniziato su Facebook, con la nascita del gruppo “Trasparenza siti web pubblica amministrazione”, fondato da Laura Strano (funzionario pubblico e dirigente sindacale), al quale hanno aderito molti cittadini impegnati nel promuovere il rispetto delle norme sulla trasparenza amministrativa. “Il fatto in breve - racconta il 31 luglio 2017, su un blog del Fatto Quotidiano, Andrea Lisi, esperto in diritto dell’informatica e presidente di ANORC99

Professioni -. La ricorrente, Minni Pace (funzionaria del Miur, ndr) - che ha avviato l’iniziativa insieme ad altri cittadini del gruppo (anche attraverso una raccolta fondi per la partecipazione alle spese, per nulla irrisorie, richieste per l’accesso alla giustizia amministrativa) - aveva presentato ricorso al Tar impugnando il silenzio del ministero della Giustizia, seguito alla sua istanza di accesso civico100

presentata per ottenere dal ministero inadempiente (e illegittimamente silente) la pubblicazione in formato aperto,

99 Associazione nazionale per operatori e responsabili della conservazione digitale dei documenti.

100 L’istanza, sottoscritta da molti membri del gruppo “trasparenza” e dall’ex deputata radicale Rita

Bernardini, era stata presentata al Responsabile anticorruzione e della trasparenza del Ministero nel marzo 2017 e notificata all’Anac. “Di fronte al perdurare della violazione delle norme – scrive sulla sua pagina facebook, Minni Pace – si è deciso di rivolgersi al TAR che con questa sentenza ordina al Ministero della giustizia di rispettare le norme in materia di trasparenza dell’albo degli amministratori giudiziari. Significativo che a chiederlo siano i cittadini. Un primo successo, ma il percorso continua”.

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come la normativa prevede, delle tabelle relative all’albo degli amministratori giudiziari, secondo modalità idonee alla indicizzazione, alla rintracciabilità tramite motori di ricerca web e al riutilizzo”. Lisi evidenzia, inoltre, come il FOIA, ad oggi, non abbia prodotto risultati soddisfacenti, e come, l’autorità deputata a vigilare, l’ANAC, destinataria (per conoscenza) dell’istanza di accesso, “non abbia ritenuto doveroso intervenire durante l’intera vicenda (anche per motivi procedurali che le impediscono di attivarsi su casi così specifici) dimostrando ancora una volta la differenza – che pagano troppe volte i cittadini – tra idea e azione”.

“Occorre considerare che non è facile esperire azioni a tutela dei diritti all’informazione e alla trasparenza dell’agire amministrativo, nonostante siano diritti della collettività - aggiunge l’avvocato Lisi -. I costi di un giudizio innanzi al Tar rimangono elevati anche per far valere innanzi al giudice tali fondamentali diritti (non essendo previste nella norma esenzioni o riduzioni del contributo unificato, ad esempio). Oltre a tale aspetto, la complessità e la scarsa chiarezza dell’attuale normativa (come modificata con l’introduzione del Foia) finiscono con il disorientare non solo i cittadini, ma talvolta confondono anche gli stessi giudici che, come in questo caso, decidono di compensare le spese di giudizio, considerata la novità e delicatezza della questione. Anche questo rappresenta di fatto un deterrente di natura economica per l’esercizio del diritto alla trasparenza e all’informazione sull’operato della PA”. Lisi ricorda poi che il Tar Veneto, nella sentenza del 29 giugno 2017, non solo ha rigettato il ricorso di un cittadino contro il silenzio della PA rispetto alla sua istanza di accesso civico, ma ha anche condannato il ricorrente al pagamento delle spese di lite per un cavillo interpretativo della norma (il cittadino non aveva richiesto specificamente anche i documenti in questione). “Di fronte a questi esiti giudiziari, emerge chiaramente come la società civile si stia ponendo in prima linea per far valere il diritto a un’effettiva trasparenza amministrativa, ma al contempo non si possono non rilevare le stravaganze del nostro Paese dove accade persino che a violare la “Trasparenza” sia proprio la “Giustizia”, mentre chi dovrebbe vigilare non può intervenire, ma resta a guardare” 101,

conclude Lisi, il quale si auspica che, in future occasioni, “altri giudici possano essere ancor più coraggiosi, condannando – come è giusto che sia – le amministrazioni

101 L’intervento di Andrea Lisi, dal titolo “Foia e Pa, il ministero della Giustizia viola la trasparenza. E i

cittadini vincono il ricorso”, è consultabile al seguente link: www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/31/foia-e-

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soccombenti al pagamento di tutte le spese processuali”. Sulla questione Carmela (Minni) Pace, al quotidiano online “key4biz.it”, ha dichiarato: “il silenzio dell’ANAC è assordante. Troppo facile fare a parole la trasparenza e l’anticorruzione, invitando i cittadini a partecipare per il bene collettivo e poi lasciarli soli a sostenerne l’onere, anche economico”102. Ma com’è andata a finire la vicenda? Nella seconda metà di

agosto 2017 il Ministero della giustizia ha informato i ricorrenti sulla pubblicazione dell’albo degli amministratori giudiziari (benché, secondo i ricorrenti, manchino ancora parecchi dati e dettagli) sul sito istituzionale al seguente link: https://amministratorigiudiziari.giustizia.it/pst/RAG/AlboPubblico.aspx.

Sulla normativa in questione si è pronunciata una parte della dottrina la quale, sebbene la consideri un punto di svolta, ha espresso numerose perplessità. In particolare, il professore associato di diritto amministrativo dell’Università della Tuscia di Viterbo, Mario Savino, nel suo articolo “Il FOIA Italiano. La fine della trasparenza di

Bertoldo”, (pubblicato sul Giornale di diritto amministrativo) sottolinea come la novità

principale del d.lgs. 97/2016 sia proprio l’introduzione del diritto d’accesso “generalizzato”; il right to know, prima prigioniero dei confini assegnati dalla legge all’area della pubblicazione obbligatoria, travalica ora quei confini. “Di questo nuovo diritto - scrive Savino - si detta una disciplina essenziale, che lascia in vita le altre forme di accesso, procedimentale (1990) e civico (2013), destinate, tuttavia, col tempo, a divenire superflue. Inoltre, quanto agli obblighi di pubblicazione, perno della precedente strategia di promozione della trasparenza, il legislatore delegato ha interpretato in modo prudente il mandato, operando una razionalizzazione leggera103 che però dischiude la

prospettiva di una più incisiva semplificazione affidata alla pubblicazione di banche dati centrali e all’ANAC”. Eliminati solo alcuni obblighi specifici ritenuti manifestamente superflui o sproporzionati, l’opera di semplificazione è stata affidata a tre previsioni di portata generale. La prima è la pubblicazione di dieci banche dati centrali finora custodite come patrimonio conoscitivo riservato dalle amministrazioni competenti.

102

Il link: www.key4biz.it/ministero-della-giustizia-non-rispetta-foia-cittadini-vincono-ricorso/197676/

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L’adozione del FOIA alimentava le aspettative di quanti, compresa l’ANAC, auspicavano una consistente riduzione degli obblighi di pubblicazione. In un sistema FOIA ben funzionante la pubblicazione tende ad affermarsi come regola “spontanea”, dato l’interesse delle stesse amministrazioni a rendere disponibili online informazioni che altrimenti possono divenire oggetto di richieste seriali d’accesso. Tuttavia, il rischio che una riduzione degli obblighi potesse essere percepita come un segnale di arretramento dell’area di trasparenza ha indotto il legislatore delegato - in ossequio alla delega ricevuta (“fermi restando gli obblighi di pubblicazione”) - a effettuare una razionalizzazione molto cauta. Da Il

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L’art. 9-bis, oltre a prevedere l’apertura alla consultazione online di tali banche, vi ricollega un effetto di semplificazione potenzialmente incisivo: per adempiere agli obblighi relativi ai dati contenuti nelle banche centrali le amministrazioni potranno limitarsi a pubblicare sul proprio sito il collegamento ipertestuale (un link permanente alle banche centrali che dovranno divenire consultabili online entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto) che basterà a soddisfare le esigenze di trasparenza proattiva. Il decreto introduce un meccanismo permanente di semplificazione del contenuto dei singoli obblighi: l’ANAC potrà, con propria delibera, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, “identificare i dati, le informazioni e i documenti

oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della disciplina vigente per i quali la pubblicazione in forma integrale è sostituita con quella di informazioni riassuntive, elaborate per aggregazione” (art. 3, co.1-bis). All’ANAC è affidato il compito di

modulare l’intensità e l’estensione degli “obblighi” in rapporto alle dimensioni (e alla conseguente capacità amministrativa) degli enti, nonché alla natura dell’attività da essi svolta, in particolare prevedendo “modalità semplificate per i comuni con popolazione

inferiore a 15.000 abitanti, per gli ordini e collegi professionali”. “Il d.lgs. n. 97

prefigura una razionalizzazione che nell’immediato è limitata - spiega Savino - perché lascia in vita la quasi totalità degli obblighi di pubblicazione preesistenti, ma che, col tempo, potrebbe produrre effetti significativi e rompere la rigida simmetria derivante dall’applicazione integrale delle disposizioni del Testo unico alla totalità delle PP.AA. L’esito complessivo dipenderà dal coraggio delle scelte dell’ANAC e dalla capacità del riformatore di superare le prevedibili resistenze delle amministrazioni detentrici delle banche dati”.

Il D.lgs. n. 97 inquadra il nuovo diritto sotto il vecchio “cappello” dell’accesso civico (art. 5, D.lgs. n. 33): una scelta che si giustifica perché entrambe le forme d’accesso sono una proiezione dello stesso right to know e il loro regime è, almeno in parte, comune (quanto a beneficiari, soggetti passivi e modalità di esercizio). “L’estensione tendenzialmente illimitata del nuovo accesso - prosegue Savino - converte la regola della pubblicità-conoscibilità, finora di stretto diritto positivo, in principio generale: tutti i documenti e i dati in possesso delle amministrazioni diventano “pubblici”, cioè patrimonio della collettività, da essa conoscibile, fatte salve specifiche limitazioni. Il principio di pubblicità si fonda sul pieno riconoscimento della libertà del

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singolo di attingere alle informazioni amministrative, una libertà che, in attesa di una esplicita copertura costituzionale, è tutelata allo stesso modo di un diritto fondamentale. Così come il diritto d’accesso è qualificato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, da strumenti internazionali (come la Convenzione sull’accesso ai documenti ufficiali), nonché dai trattati e dalla Carta europea dei diritti dell’Unione”.

Ancora più recente è l’intervento del professore ordinario di diritto amministrativo dell’Università degli studi di Ferrara, Gianluca Gardini, dal titolo “Il

paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici”,

pubblicato nella rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato “Federalismi” (n. 1/2017). Nell’articolo lo studioso considera il FOIA una riforma utile e necessaria, che lascia in vita le altre tipologie di accesso già presenti nel nostro ordinamento – documentale e civico – cui aggiunge un nuovo strumento di trasparenza che consente al cittadino di ottenere le informazioni pubbliche a cui è realmente interessato. Un’operazione di stratificazione che però non semplifica né razionalizza l’esistente, ma genera promiscuità o confusione. “La scelta di operare sull’impianto normativo già esistente, innestando su di esso il “nuovo accesso civico”, è fallimentare in partenza – scrive il prof Gardini – al netto di un innegabile miglioramento in termini di conoscibilità dei dati pubblici, ciò che si ottiene emendando il vecchio d.lgs. 33/13 è soprattutto sovrapposizione tra gli istituti, incertezza sugli obblighi, indeterminatezza dei limiti. In parte la responsabilità di questa situazione risale direttamente al Parlamento104

. In parte il legislatore delegato avrebbe potuto adottare soluzioni più lineari per il «riconoscimento della libertà di informazione attraverso il diritto di accesso», evitando di creare una commistione di concetti così profonda da pregiudicare la stessa fruibilità delle nuove opportunità di conoscenza e controllo”. Per Gardini il legislatore avrebbe dovuto precisare meglio il perimetro e le finalità delle molteplici forme di accesso in vigore nel nostro ordinamento invece di utilizzare indifferentemente lo stesso nomen iuris (accesso civico) per tutti e due i diritti può generare molta confusione, e la soluzione di disciplinarli congiuntamente, nello stesso articolo, rischia di peggiorare la situazione, anche se il decreto 97/16 tenta di abbozzare una distinzione

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La legge delega (legge n. 124 del 2015, cd. Madia) infatti autorizza il Governo ad intervenire adottando «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni» (art. 7).

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concettuale tra questi strumenti di trasparenza. Mentre il comma 1 dell’art. 5 disciplina il diritto all’accesso civico proprio, introdotto dal d.lgs. 33/13, come strumento di ottemperanza per gli obblighi di pubblicazione spettanti alla PA, il comma 2 stabilisce il diritto all’accesso civico improprio, costruito dal decreto 97/16 come libertà individuale di ottenere documenti e dati nella disponibilità delle PP.AA. riconosciuta a chiunque al fine di soddisfare sia il diritto dei cittadini di essere informati sia quello di esercitare un controllo esterno sulle amministrazioni. In questo caso non sono menzionate le informazioni e, a differenza di quanto avviene per l’accesso proprio, per quello improprio vengono previsti alcuni limiti, tramite rinvio all’art. 5-bis. Il comma 11 stabilisce che “Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal capo II, nonché

le diverse forme di accesso degli interessati previste dal capo V della legge n. 241 del 1990”, ovvero quello documentale, tradizionale.

I problemi, per Gardini, sorgono quando la legge disciplina congiuntamente l’esercizio dei diritti di accesso, di cui ai commi 1 e 2, senza fare alcuna distinzione. In particolare, il comma 6 si preoccupa di “procedimentalizzare” l’accesso civico (o meglio gli accessi civici) prevedendo che ad ogni istanza deve seguire un provvedimento espresso e motivato da rilasciarsi entro 30 giorni. Del resto, se questa disposizione non fosse considerata comune ai due tipi di accesso, uno di essi si troverebbe privo di una disciplina procedurale, al punto che ad esso non potrebbe nemmeno applicarsi l’obbligo di conclusione espressa e motivata. Il fatto stesso che nel comma 5 si esclude espressamente l’accesso civico improprio dall’applicazione di alcuni istituti della trasparenza (nel caso specifico, la comunicazione ai controinteressati), lascia intendere che il legislatore, quando ha voluto riferirsi ad una sola forma di accesso civico, lo ha specificato, mentre continua a fare riferimento ad entrambe le forme laddove non specifica nulla (ubi lex voluit, dixit). Viceversa quanto previsto dal comma 6 – “Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso devono

essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall’art. 5 bis” – data la

matrice comune, deve essere necessariamente riferita ad entrambi gli accessi civici. Ci si imbatte così nella prima manifestazione di quella tecnica redazionale indicata come “rinvio normativo circolare” con cui si finisce per estendere tutte le limitazioni espressamente previste per il solo diritto di accesso civico improprio (comma 2) anche all’accesso civico proprio (comma 1), con il risultato di mischiare nuovamente i

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concetti. Così, quando si giunge all’art. 5-bis (che disciplina i limiti all’accesso improprio), viene da chiedersi ma perché, se il legislatore voleva collegare questi limiti solo all’accesso improprio (co. 2), gli stessi sono richiamati nell’articolo precedente (art. 5, co. 6) come esclusioni e limiti validi per entrambi i tipi di accesso? Non sarebbe stato più logico limitare la portata dell’art. 5, co. 6, al solo accesso improprio? O, in alternativa, riportare anche nel testo dell’art. 5-bis che le esclusioni ivi previste valgono per entrambe le tipologie di accesso civico? Effetti perversi del rinvio circolare che estende le regole previste per un istituto ad altri istituti a cui, in prima battuta, esse non si applicherebbero. “Un tentativo, subdolo, per rendere indecifrabili le leggi, specie quelle scomode come il codice della trasparenza”, dice ancora Gardini. Analogamente succede per l’art. 5-bis, co. 3, che richiama indistintamente tutti i limiti all’accesso tradizionale (art. 24 co. 1 L. 241/90) che, grazie alla tecnica del rinvio mobile, divengono parte integrante delle condizioni poste all’accesso improprio. Pertanto, i limiti all’accessibilità dei documenti, indicati nella L. 241, sembrerebbero applicarsi solo all’accesso civico improprio (quello generalizzato). Questa conclusione logica, però, è messa in discussione dal rinvio circolare: l’art. 5, co. 6, nel disciplinare congiuntamente le due tipologie di accesso civico (proprio e improprio), finisce per applicare a tutte le istanze di accesso le esclusioni contemplate dall’art. 5-bis tra cui vi sono anche i limiti sanciti dalla legge 241. Il risultato finale è che anche le limitazioni previste per l’accesso documentale vanno applicate ad entrambi i tipi di accesso civico. Che senso ha avuto, pertanto, distinguere tra loro le tipologie di accesso visto che sono soggette sostanzialmente agli stessi limiti? Qualcuno risponderà che i limiti di cui all’art. 7-bis sono propri degli obblighi di pubblicazione e dunque dell’accesso civico strumentale (o proprio). Ciononostante si può sostenere che la circolarità dei rinvii consente di estendere questi limiti anche alle altre forme di accesso.

Le differenze tra i due “accessi” diventano più concrete quando si giunge all’art. 7-bis, inserito ex novo dal decreto 97/16, che se da un lato disciplina nel dettaglio i limiti alla pubblicazione sui siti internet istituzionali, dall’altro (nel periodo finale del co. 1) consente la pubblicazione online “nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati

personali”. Per non sbagliare, il legislatore richiama in blocco tutti i principi del codice

della privacy, che però mal si conciliano con la pubblicazione online di dati (anche personali), indicizzati, riutilizzabili e retti dal paradigma dell’open data. Per Gardini “la

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causa originaria di questa nebulosa normativa risiede nell’idea stessa di realizzare il diritto all’informazione amministrativa imponendo alle amministrazioni una serie di