LA VIA DELLA FENICE: SEVEN EASY PIECES
8. How to explain pictures to a dead hare – Joseph Beuys.
L'azione originale si svolse nel 1965, nella galleria Schmela di Düsseldorf, ma poteva essere vista solo dall'esterno, tramite televisione a circuito chiuso. Beuys, con il capo coperto di miele e foglie d'oro, tiene in braccio una lepre morra, gesticolando come se – come dice il titolo – spiegasse alla lepre come comprendere i quadri. La sua scarpa sinistra posa su del feltro, mentre alla destra è legato un magnete. Quando cammina per mostrare alla lepre ogni singolo quadro, la suola produce un rumore metallico molto forte, che rompe l'assoluto silenzio. La performance termina quando, finito il giro della galleria, Beuys porta la lepre ad un albero imbiancato. I materiali – a parte la mancanza del grasso, sostituito da un altro materiale animale, il miele - sono quelli tipici della retorica materica beuyssiana, a partire dal feltro: sono materiali intesi come “batterie” di energia e di significato simbolico-metaforico.
Nel paragone che la Abramović impone, se la Pane utilizza una simbologia chiara e convenzionale – per cui “fuoco” significa “passione”, “ferita” e “lacrima” significano “dolore”, esattamente come nei discorsi comuni - la simbologia alchimistica di Beuys ha un processo di decodificazione estremamente più complesso218. È lo stesso Beuys a illustrarlo,successivamente:
218Peter Burger suggerisce l'ipotesi che, fondamentalmente, la simbologia dei materiali di Beuys faccia necessariamente conto sulla presenza di un momento esterno all'opera, di natura esplicativa, perché in effetti non c'è modo di risalire alle chiavi interpretative primarie senza l'aiuto dell'artista. Citato in F. Speroni, La rovina in scena, Roma, 2002, p. 148)
In putting honey on my head I am clearly doing something that has to do with thinking. Human ability is not to produce honey, but to think, to produce ideas. In this way the deathlike character of thinking becomes lifelike again. For honey is undoubtedly a living substance. Human thinking can be lively too. But it can also be intellectualized to a deadly degree, and remain dead, and express its deadliness in, say, the political or pedagogic fields. Gold and honey indicate a transformation of the head, and therefore, naturally and logically, the brain and our understanding of thought, consciousness and all the other levels necessary to explain pictures to a hare: the warm stool insulated with felt…and the iron sole with the magnet>>219.
A ben vedere, la spiegazione della simbologia del miele fornitaci dalla artista rivela l'intero metro dell'azione sia i limiti della sua comprensibilità logica. Un po' come alla lepre, Beuys ci illustra didatticamente il processo logico necessario a decodificare la performance, ricorrendo continuamente a principi associativi e logico-deduttivi (“ therefore, naturally and logically”). Specularmente – in maniera sia implicita che esplicita – mostra il limite che il procedimento logico- deduttivo ha nei confronti dell'effettiva comprensibilità del fatto artistico: dal punto di vista verbale, nella spiegazione, quando dice “in putting honey on my head I am clearly doing something that has to do with thinking” - compie già questo balzo, perché pare assai più evidente che stia compiendo “something that has to do with masking”; dall'altra, il processo di spiegazione logica della performance ci rimanda alla fondamentale inintellegibilità in termini razionali dell'opera d'arte:<< Gold and honey indicate a transformation of the head, and therefore, naturally and logically, the brain and our understanding of thought, consciousness and all the other levels necessary to explain pictures to a hare: the warm stool insulated with felt…and the iron sole with the magnet>>. “The warm stool insulated with felt” e “the iron sole with the magnet” sono evidentemente in contrapposizione a “thought” e “consciusness”, sia nella dialettica alto e basso (testa e piedi), sia – nella logica simbolica interna all'opera di Beuys – perché significano simbolicamente “intuito” e “saggezza primordiale” (magnete: capacità di orientarsi; feltro: in relazione alla vicenda bio- agiografica che vuole che il piltota della Luftwaffwe Beuys sia stato abbattuto in Crimea e salvato da una tribù di nomadi tartari dall'assideramento grazie all'uso del feltro e del grasso). Sono valori che devono essere integrati a quelli del pensiero razionale per far sì che la spiegazione “cammini”: <<even a dead animal preserves more powers of intuition than some human beings with their stubborn rationality>>220. Questo incontro di opposti, che da una parte è fatto di razionalità rigorosa
e tendenzialmente didascalica nella scelta dei simboli e dall'altra è intessuto di irrazionalismo - è sia la retorica che il tema della performance. In questo senso, mettendo il problema dell'interpretazione dell'opera al centro dell'opera, Beuys anticipa il concettualismo da una prospettiva profondamente lontana da quella di Kossuth: mentre l'americano fonda le proprie radici nella trasparenza di Wittgenstein, evidentemente il tedesco affonda le sue radici nel romanticismo, sia per quanto riguarda il rapporto uomo-natura e l'esaltazione dell'intuito irrazionale, sia per quanto riguarda il 219Joseph Beuys citato in W. Hopper, The Puritan Gift, London-New York, 1994 p.225.
ricorso al simbolo e all'amore per esso: <<the problem lies in the word ‘understanding’ and its many levels which cannot be restricted to rational analysis. Imagination, inspiration, an longing all lead people to sense that these other levels also play a part in understanding>>221.
Chiaramente in Beuys la dialettica tra il razionale e l'irrazionale si traduce in una dialettica tra il logos e la materia: se, da una parte, fornisce una spiegazione verbale straordinariamente esaustiva del valore simbolico ( della materia, lascia che la materia fuoriesca dal suo valore simbolico e linguistico: <<my technique has been to try and seek out the energy points in the human power field, rather than demanding specific knowledge or reactions on the part of the public>>. Da una parte, <<the disturbing element in Beuys' work (...) lies (...) in the flood od pronouncements testifying the privilege that he gave, through his lifetime, to spoken over plastic language>>222 ,
dall'altra, Beuys sembra privilegiare l'energia (e quindi l'indicibile) sul ragionamento: << Se tutto fosse spiegabile con le parole, i suoni, la musica, la danza e la recitazione non avrebbero senso. Tutto sarebbe spiegabile con la parola>>.
La lepre stessa, animale utilizzato da Beuys con estrema frequenza, è ancora simbolo di questo aspetto non verbale del fare artistico: la lepre è un animale altamente (pro)creativo, largamente intuitivo e rapido nelle decisioni, che Beuys riallaccia all'essere umano e al femmineo, e a cui attribuisce la capacità simbolica di fungere da staffetta per ricollegare oriente e occidente223.
Fuori dalla lettura di Beuys, evidentemente, Come spiegare i quadri a una lepre morta può essere letta secondo un altro ordine di idee, senza dubbio coerente: all'interno di una galleria, un'opera d'arte viva (il performer con il viso ricoperto d'oro) spiega ad un animale morto il senso delle opere d'arte non vive – i quadri. In questo c'è – chiaramente – l'instaurazione di una comparazione tra la condizione fisica dell'animale – la morte – e lo stato fisico dell'opera d'arte in senso classico: l'inerzia – in contrapposizione alla condizione del performer: la vita. È una comparazione che, vista in una prospettiva storica, anticipa teoricamente di qualche anno l'effettivo approdo di Beuys all'idea di scultura sociale – vale a dire di gesto artistico non focalizzato sull'oggetto, ma sulla sua operatività nel tessuto sociale, con il conseguente spostamento dell'idea di opera d'arte in direzione di attributo qualificativo di un qualsiasi gesto consapevole del suo senso simbolico e della suo valore collettivo: <<Man is only truly alive when he realizes he is a creative, artistic being. Even the 221Ivi,.
222E.Michaud and R. Krauss, The Ends of Art According to Beuys, October, Vol. 45, Cambridge, 1988, p. 36. Il medesimo concetto è testimoniato dallo stesso Beuys: <<as strange this might seem, my path has been traced by language; it did not spring fom what one calls an artistic gift>>.
223Nathalie Goldberg, op.cit.
act of cutting a potato can be a work of art, if it is a conscious act>>224.
Evidentemente, la lettura dell'opera come metafora del superamento del quadro e dell'oggetto è una lettura che sottolinea l'appartenenza di Beuys ad un periodo storico peculiare e irripetibile nella storia dell'arte. Per quanto Beuys non rinunci mai del tutto alle opere oggettuali – trova forza nell'essere legata a una dinamica storica in atto negli anni '60, che conduce tanto all'esaltazione del qui ed ora della Abramović quanto al paradossale ritorno all'immagine completamente bidimensionale, dato dal continuo ricorso alla fotografia documentativa. Coincide, in altri termini, con un modo di pensare la forma che si estingue irreversibilmente alla fine degli anni '70, con l'imporsi del postmodernismo.
Figlie dirette del loro periodo storico, molte opere di Beuys oggi hanno un senso spettrale e un poco grottesco, che ai loro tempi non avevano. Questo è soprattutto dovuto al fatto che si riferiscono a tecnologie e sistemi mediatici prossimi, ma estremamente meno evoluti dei nostri, mostrando un rapporto con esse implicitamente “primitivo”. Vedere Beuys boxare con un televisore degli anni '70 per testimoniare l'antagonismo tra artista e mass-media è un po' come risentire oggi la propria voce che prende in giro chi, nei primi anni '90, aveva comprato un telefono cellulare. La battuta tipica era “cosa ci fai? Dici a tua madre che deve buttare la pasta?”. Ora, quindici anni dopo, telefonare per far buttare la pasta è strettamente richiesto dalla mamma, che altrimenti si preoccupa.
Quanto scritto sopra non vuol dire necessariamente riconoscere una superiorità all'oggi sullo ieri. Vuol dire – tornando al sistema di Brandi – che l'oggi è una condizione indispensabile per la percezione del passato: qualsiasi sguardo è necessariamente un'azione di attualizzazione. E, in questa attualizzazione, lo stare alle soglie del tempo presente senza potervi però più aderire concettualmente rende l'opera spettrale. Come “rudero” si riferisce al corpo dell'opera, alla sua materia, con “spettrale” mi riferisco all'anima, al suo motore simbolico e immaginifico.
È qualcosa che va al-di-là del problema estetico, che trova probabilmente base in quello che Giovanni Moro nel 2007 ha chiamato “patologia del ricordo”. Per Moro, degli anni '70 si conserva un “ricordo senza memoria”, intendendo con questo una notazione di eventi storici con un'incapacità <<di dare un posto al ricordo e con questo farlo diventare parte dell'identità>>225.
Significativamente, Moro utilizza un termine affine allo “spettro” che ho utilizzato poco addietro, parlando, riguardo al periodo, di <<persistenza di fantasmi da cui non ci siamo liberati, perché non 224S. Willoghby, An Interview with Joseph Beuys, in <<Arforum>> November 1969, citato in Lucy R. Lippard, Six
Years: the dematerialization of the art object from 1966 to 1972, Berkley, 1997, p.121. 225 Giovanni Moro, Anni Settanta, Torino, 2007, pp.20-21.
li abbiamo liberati>>226.
Chiaramente, se il mio “spettro” si riferiva e terminava fondamentalmente nella simbologia dell'immagine, i fantasmi di cui parla Moro sono quelli della vita politica e culturale degli anni '70 italiani, in primo luogo all'omicidio da parte delle Brigate Rosse del padre dello studioso, Aldo: <<come tutti sanno, i fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover ritornare. Penso che la nostra vita pubblica sia attraversata da molti fantasmi degli anni Settanta; qualcosa che non contribuisce a costruire una memoria di quell'epoca, ma anzi tende ad aggravare le patologie del ricordo>>227. Nella descrizione
del periodo in termini di “fantasma”, chiaramente e consapevolmente, c'è in Giovanni Moro il doloroso rapporto con la memoria del padre. Allo stesso modo, a mio avviso, c'è qualcosa che trascende gli anni di piombo italiani per includere il rapporto che tutto l'occidente ha con gli anni Settanta. Gli anni '70 (intesi soprattutto tra il 1967 e il 1975) sono gli anni del conflitto e del sangue non solo e non tanto per il terrorismo rosso e lo stragismo nella politica nazionale o per la body art nell'arte, ma soprattutto per via della pulsione feroce a frammentarsi in soggetti collettivi in conflitto con gli altri che sta a monte di questi processi. Alla lotta di classe – determinata da fattori socio-economici – si affiancano e sostanzialmente sostituiscono la lotta generazionale, quella razziale e la lotta del gender. Secondo la nostra concezione estesa del termine “razzismo”, che non sta più a indicare una discriminazione in base al fenotipo, ma in base a qualsiasi metro non sia quello meritocratico, gli anni '70 sono anni profondamente razzisti, tanto a destra, quanto a sinistra. L'avversario, come nella Pane, è l'ALTRO. Il padre di famiglia per il giovane, l'uomo per la donna. Anzi, non avversario, ma nemico, perché in una dimensione del genere non c'è modo di contestualizzare il conflitto a un momento, uno spazio o un argomento. Non c'è alcuna contrapposizione ideologica, perché l'avversario non può redimersi: se è improbabile che il capitalista diventi proletario, è impossibile che il vecchio diventi giovane, il maschio diventi donna o il bianco diventi nero: è una logica conflittuale che può risolversi solo nella tragedia e nel sangue - cosa che nella Pane sostanzialmente succede in maniera letterale. Questa mescolanza di razzismo virulento e emancipazione sociale è quanto di più lontano dalla logica polically correct che ha, per molti aspetti, contribuito a creare negli anni.
D'altro canto, se è vero che i Settanta sono gli anni del sangue è anche vero che sono anche gli anni della partecipazione civile e sociale, della grande spinta verso l'utopia della democrazia diretta. E Beuys, come ho già scritto, è il campione di questo aspetto. Anche qui, si tratta di una partecipazione civile di cui la nostra società è sostanzialmente orfana. Per molti aspetti, l'estetizzazione da palcoscenico che la Abramović fa dell'opera del tedesco lo dimostra. La stessa idea di disciplinarizzare e professionalizzare la performance, formulata dalla Abramović in Seven Easy Pieces, è quanto di più distante dalla prospettiva beuyssiana si possa immaginare: da un lato l'idea di fare della performance una “more artistic discipline”, dall'altro l'idea di fare di ogni uomo un artista. Come dicevo, l'ideologia di Beuys, nel reenactment, è uno spettro. Ma, come anche dicevo, non tutto il passato è necessariamente spettrale. Usando una metafora forse troppo ardita, nella battaglia culturale diviene spettro chi perde.
Nel lungo termine, a vincere la partita degli anni '60/'70, in cui Beuys soccombe per diventare spettro, è l'altra grande star del periodo, Andy Warhol. Il momento simbolico della vittoria è dato dal loro primo incontro, a Düsseldorf, nel 1979. Beuys arriva nella sala vestito con il suo vestiario abituale, mentre Warhol è in giacca, cravatta e jeans. La sala è piena di gente, molti fotografi, molti flash. Al momento di stringersi la mano, Warhol chiede a Beuys: - May I take a photograph of you? La domanda prende il tedesco di sorpresa: - Pardon? Warhol ripete: - May I take a photograph of you? Beuys – forse l'artista più fotografato del ventesimo secolo - a quel punto dice calorosamente: 226 Ivi, p. 24.
“Yeah, sure!” e accenna a dare una piccola pacca sulla spalla. Warhol continua a sorridere e prende una macchina compatta. Here we go – dice. Beuys si mette in posa e Warhol scatta. Flash. Warhol, algido e ghignante, restituisce la macchinetta all'assistente, mentre Beuys appare un poco nervoso – si gratta il viso: la situazione lo ha messo lievemente a disagio.
Evidentemente, circondato da tutti quei fotografi, Warhol non ha alcun bisogno di scattare una foto in prima persona per avere il ritratto di Beuys. Ciò che ha compiuto in quel gesto semplice e in quella domanda dall'apparenza cortese – ma in sostanza quasi offensiva, data la situazione - è un atto simbolico complesso – che non si limita solo a confermare la sua immagine di voyeur indifferente. Seguendo la lunga tradizione che vuole nella fotografia una filiazione della caccia, dell'aggressione e del possesso, Warhol compie un atto di appropriazione di Beuys, un atto pubblico e a sua volta fotografato, per cui Beuys, in virtù del suo narcisismo esibizionista, è subordinato al voyeurismo di Warhol: mettiti in posa. Warhol si mette nella condizione di sottrarsi al dialogo e di considerare Beuys – in quei pochi fotografati secondi - come un oggetto. Nella riduzione da soggetto a oggetto, Warhol (l'artista capitalista) mette sotto scacco la posizione di Beuys (l'artista dell'anticapitalismo) perché mostra la forza di una posizione moralmente neutra su una moralmente schierata, di una superficialità manifesta su una profondità supposta. Ancora – e in ultimo - mostra la forza di un sistema fondato sulla prassi (modus operandi) su un'ideologia fondata sull'utopia: quella di Beuys, come quella di Litz Taylor e come quella di Marilyn Monroe, è un'immagine che si può utilizzare. Beuys è una celebrità come un'altra: <<l'uomo che esprime e incarna la libertà>>228 è
sullo stesso piano dell'attrice che incarna ed esprime l'eros: sono miti moderni.
In quel momento, nel 1979 – quasi contemporaneamente alla pubblicazione de La Condizione Postmoderna di Lyotard – un artista che non ha mai creduto alle grandi narrative (e non è mai stato, quindi propriamente moderno) mette in posa chi, invece, ha costruito la sua intera carriera artistica su di esse, sia in senso proprio (la democrazia diretta, l'uguaglianza sociale), sia in senso lato (la resurrezione personale grazie ai nomadi tartari). Quando Beuys scrive: << only art is capable of dismantling the repressive effects of a senile social system that continues to totter along the death line: to dismantle in order to build A SOCIAL ORGANISM AS A WORK OF ART>> 229 e poi
dopo tre anni si ritrova a essere messo in posa da Warhol, mostra i limiti della proposta utopica rispetto alla realtà stringente e viscerale del glamour. La passeggiata epica - da Quarto Stato - di La rivoluzione siamo noi, fotografata da Warhol diviene una passeggiata su una passerella; di fronte allo specchio – Warhol – la grande anima si mette in posa230. Fuori dalla performance, in cui sceglie
cosa è l'America, Beuys non può determinare il modo in cui l'America lo apprezza effettivamente; lo apprezza come (s)oggetto, Come modello non in senso ideale, ma in senso pratico, spicciolo, lavorativo.
228Joseph Beuys, Volker Harlan, Qu'est ce que l'art? Parigi, 1992.
229J. Beuys, I am searching for field charcter, in C. Harrison, P. Wood, Art in Theory, 1900-2000, Boston, 2003, p.929.
230<<Questa persona spirituale che è in noi non ha senz'altro le dimensioni del nostro corpo, è molto più grande di quanto si pensi. Si potrebbero fare delle speculazioni mentali ipotizzando centinaia di milioni di anni luce, ma l'anima umana risulterebbe ancora più grande e se anche queste speculazioni venissero estese fino a cifre
insormontabili, esse si troverebbero sempre all'interno di questa anima umana>> dichiarazione di Joseph Beuys, , in I. Tomassoni, Beuys a Perugia, Milano, 2003, p.73.
Beuys, pur non essendo propriamente comunista, porta in sé l'immagnario comunista, a cominciare dall'archetipo del proletario: <<...da questa lotta (...) deve nascere l'uomo sotto forma di figura umana reale, come quella che vedo nella figura del proletario, il rappresentante dell'umanità per eccellenza>>231. È il proletario del realismo socialista, un essere eroico e mitologico, cui Beuys
concede il beneficio di dover ancora nascere. Warhol, d'altro canto, è il padrone della Factory – dell'industria. Ed è per questo – forse - che si sente in diritto di dire all'altro di mettersi in posa – come metterlo sull'attenti.
Quando la Abramović performa How to explain pictures to a dead hare e si veste in perfetta divisa da Joseph Beuys, con gilè beige multi-tasche e camicia bianca, quello che vediamo sul palcoscenico