Lo scorso anno, nel suo saggio Performance art – experiencing liminality, la Fischer Lichte ha isolato il momento cruciale della performance nel mettere lo spettatore nella condizione di dover scegliere un modello comportamentale: da una parte quello estetico, dall'altro quello etico.
Mentre il comportamento estetico impone allo spettatore una passività o – quando richiesto – l'attenersi a alcune regole speciali imposte dal gioco artistico, il comportamento etico prevede un intervento attivo in situazioni di rischio: <<While art asks for an aesthetic attitude, life postulates ethical behaviour. In both cases, different rules apply>>93. Per esemplificare questo, la Lichte
prende – in maniera assolutamente brillante - ad esempio Shakespeare. Secono l'aesthetic attitude, il modo dell'arte, lo spettatore guarda tranquillamente Desdemona che viene uccisa da Otello. Questo 92 Concetti sostanzialmente simili erano stati espressi dalla Fischer Lichte due anni prima nel suo Theater, Sacrifice,
Ritual. (cfr. E. Fischer Lichte, Therater, Sacrifice, Ritual, New York, 2005) Interessantemente, la focalizzazione dell Fischer Lichte è sostanzialmente opposta a quella che esprime Kathy O'Dell in Contract With The Skin, dove tutta la questione viene inquadrata all'interno del rapporto contrattuale – implicito o esplicito – tra performer e pubblico (cfr. Kathy O'Dell, Contract With The Skin, Berlkley, 1998).
non crea nessun problema etico, perché - dopo che verrà abbassato il sipario – l'attrice tornerà sul palco, viva e vegeta, a ricevere gli applausi. Secondo l'ethical behaviour, il modo della vita, il passante è chiamato a fermare il marito geloso prima che uccida la moglie: Otello non deve assolutamente uccidere Desdemona.
La body art, avendo fatto spettacolo di un dolore vero, che arriva a mettere effettivamente a repentaglio la vita del performer, pone lo spettatore di fronte ad un aut-aut che, tuttavia, kirkegaardianamente non può trovare una risposta, proprio per via della liminalità dell'esperienza estetica e della condizione che viene a produrre: <<Whatever decisions the spectators made, whether to follow the aesthetic or the ethical postulates, they made the “wrong” decision>>94.
Nel caso di Lips of Thomas, che la Abramović dichiarò terminata solo dopo che uno spettatore intervenne per togliere l'artista dalla croce di ghiaccio, il comportamento etico ebbe la meglio sul comportamento estetico. Secondo la Fischer Lichte, malgrado Lips of Thomas sia assolutamente tra le performance più ricche dal punto di vista simbolico tra quelle realizzate dalla Abramović, qualsiasi tentativo di interpretazione della performance doveva essere per gli spettatori “incommensurabile” rispetto alla performance stessa e alla questione della scelta comportamentale a cui essa li chiamava. In altri termini, molto spicci: il problema di cosa rappresenti la stella a cinque punte che la Abramović si incide sul ventre è del tutto irrilevante se confrontato al problema di consentire che l'artista muoia assiderata o meno. Quello della stella è un problema per noi che guardiamo la documentazione, non per chi guardava la performance.
Su questa linea, la Fischer Lichte torna in un certo senso in direzione della Phelan: <<in a performance, the bodily co-presence of performers and spectators is absolutely vital, even constitutive. A performance happens between performers and spectators: it evolves out their encounter, their confrontation, and the interaction between them>>. In altri termini, se avesse avuto altri spettatori, probabilmente Lips of Thomas avrebbe avuto anche un'altra fine.
Per quanto la lettura della Fischer Lichte sia seducente e illumini lo scarto tra l'itself e il something other in maniera senza dubbio più complessa della Phelan, ha due limiti sostanziali. In primo luogo, chiaramente restringe il campo delle performance non solo alla body art, ma a una porzione della produzione dei body artisti (ad esempio esclude tutta l'opera di Burden, gran parte di Acconci, quasi tutto quello che realizzano Abramović e Ulay in coppia); in secondo – fatto dal mio punto di vista più rilevante – ha il limite evidente di dover ricorrere alla propria fantasia. La critica immagina quale sia stata la reazione degli spettatori a Innsbruck e a quale domanda loro abbiano dovuto rispondere (che fare? Guardarla avere gli spasmi o interrompere la sua sofferenza?), ma non lo può sapere. Quello che sappiamo è che uno solo tra questi spettatori ha avuto una reazione di tipo etico e ha interrotto la performance. Ma uno e uno solo tra quanti erano presenti. Per prendere il problema su un piano meno emotivo, è utile anticipare una piccola parte del salto di trenta anni che farò nel prossimo capitolo, trattando Seven Easy Pieces.
Durante il reenactment di Lips of Thomas, nel 2005, mentre la Abramović si taglia il ventre (per l'ennesima volta, visto che l'azione nel reenactment è stata proposta in loop) uno degli spettatori dal secondo piano grida: “please stop! You don't have to do it!”95. Marina Abramović continua
impassibile la sua operazione e Sandra Umathum scrive tra le sue note: <<I ask myself what is more disturbing; Abramović's impassivity or the demonstrative agitation of the spectator>>96.
In altri termini, il reenactment di New York trova una reazione simile – per quanto meno impositiva – a quella di Innsbruck. Tuttavia, abbiamo la prova evidente che – di fronte a quella che la Umathum definisce sprezzantemente l'“agitazione dimostrativa” dello spettatore del secondo piano – gli altri (la maggioranza) non solo non ne sono partecipi, ma ne sono infastiditi. Per quanto tutti – a detta della Umathun – mostrino un misto tra disturbo ed empatia per il dolore fisico a cui la Abramović si sottopone, solo uno invita l'artista ad interrompere l'azione. L'ethical behaviour non è 94 Ivi.
95 Sandra Umathurm, op.cit. p.54. 96 Ivi.
preso in considerazione e, anzi, in questo contesto non può venire considerato particolarmente ethical, perché mira ad impedire tanto all'artista di eseguire il proprio lavoro, quanto al pubblico di assistervi.
Questa notazione è importante e può essere tranquillamente riferita anche alla performance originale – per quanto, bisogna ammetterlo, nel 1975 la codificazione della performance e la nozione di body art erano assai meno chiare. Di fatto, però, fu un solo spettatore a interrompere la performance (mosso o meno da “agitazione dimostrativa”), mentre gli altri stavano ancora solo guardando la performance. Non si può prendere quel singolo spettatore come esempio dello spettatore medio, perché costituisce l'eccezione, non la regola. Quello che si può concedere alla teoria della Fischer-Lichte è che, mentre un uomo che ferma uno spettacolo teatrale tradizionale per salvare Desdemona viene portato dallo psichiatra, un uomo che ferma una performance della Abramović per salvare l'artista può avere il commento sprezzante di altri spettatori e l'approvazione di altri, può essere magari un terribile narcisista, ma sicuramente agisce secondo motivazioni razionali o razionalizzabili.
In realtà – questa è la mia focalizzazione sul tema – io credo che quell'uomo che interruppe la rappresentazione di Innsbruck non è importante come simbolo e sintesi dei sentimenti del pubblico, ma come elemento del racconto della performance. Nel particolare, viene a creare un climax nella narrazione, mentre nella simbologia della performance viene a mettere il tassello mancante: come vedremo meglio in seguito, visto il riferimento evangelico del lavoro, togliendo la Abramović dalla croce di ghiaccio, il soccorritore fa terminare la crocifissione con una deposizione, dandole – in fondo – il finale più logico. Questo è un dato di fatto. Immaginarsi come si possa essere sentito un uomo che assisteva a Lips of Thomas ad Innsbruck è un esercizio interessante e stimolante, ma senza dubbio poco fondante. Anche perché, ad esempio, si può tranquillamente immaginare una persona lievemente miope - come sono io – e considerare il fatto che la persona non poteva essere vicina all'azione, come le foto della documentazione ci mostrano. A quel punto, viene spontaneo chiedersi che cosa abbia effettivamente visto, ad esempio, della stella tracciata sul ventre con la lametta. O di quale materiali abbia pensato fosse effettivamente fatta la croce di ghiaccio. O anche solo – vista la lentezza del pezzo – se sia rimasto a vedere l'opera fino a che l'artista non è stata soccorsa, o invece non se ne fosse già andato mentre la bottiglia di vino era solo a metà.
Considerando la questione etica sollevata dalla Fischer Lichte, c'è un' anche la possibilità – che suona cinica e paradossale, ma è ipotizzabile in maniera più legata ai documenti della precedente – che il processo sia in realtà del tutto opposto a quello indicato dalla critica, per cui quelli più toccati emotivamente dalla performance siamo in realtà noi, il pubblico della documentazione, e non loro, il pubblico dell'azione. A farmi fare considerazione è la documentazione – che abbiamo già visto sotto altri aspetti – di Rhythm 0.
Se si prende Artist body, la pubblicazione con il numero più alto e qualitativamente migliore di foto documentali di Rhythm 0, si prova un fortissimo moto di empatia per la performer. Vederla lì, immobile, con le lacrime agli occhi, mentre il pubblico la usa come fosse una bambola di pezza, è qualcosa di davvero straziante. Credo che questa sensazione non riguardi la mia sensibilità individuale, ma la nostra cultura profonda (empatia per l'uno perseguitato dai molti: non solo Gesù Cristo, ma anche Orfeo ucciso dalle Baccanti). Tuttavia, è palese che, a prescindere dalla mitologia della pistola, questa identificazione empatica con la performer riguarda noi che vediamo le fotografie, non certo il pubblico dello Studio Mora. Quel pubblico usa l'artista come materiale estetico, le scrive slogan addosso, la umilia in modi sottili e in modi rozzi – in entrambi i casi in maniera piuttosto evidente ed efficace: chi le versa acqua in testa da un bicchiere, chi la trafigge con il gambo di una rosa, chi le copre gli occhi. Persino la donna che le asciuga le lacrime, dà l'impressione di asciugarle per fini estetici e non per un qualche segno di bontà. Quando la Abramović dice che le sono venuti i capelli bianchi, c'è da crederle.
Dal punto di vista morale, quindi, è fuori discussione chi sia più “emotivamente commosso”, tra il pubblico del lì ed allora e noi. Personalmente, sono propenso a credere che questa differenza non sia da imputare al fatto che oggi siamo più “buoni” o “sensibili” di allora. Certo, potrebbe influire – tra le tante cose – il fatto che noi alle spalle non abbiamo più lo slogan del maggio'68, “soyons cruels!”97, per cui per noi la crudeltà non ha più un significato politico. Ma non credo che la
97 Più o meno contemporaneamente, John Hayland scriveva al cantore della pace nei sixties, John Lennon: << In order to change the world we've got to understand what's wrong with the world. And then - destroy it. Ruthlessly. This is not cruelty or madness. It is one of the most passionate forms of love. (...) And any “love” which does not pit itself against (...) [capitalism] is sloppy and irrelevant>>(corsivo mio)(cfr. Tariq Ali, Streetfighting years – an autobiography of the sixties, London, 2005 pp. .356-357. In questo senso, la creatività implicita nel “siate crudeli” diviene ben presto un altro slogan: <<(“il potere politico cresce sul cane della pistola>> (cfr. J. Kirkpartrick Davies, Assoult on the Left, The F.B.I. And the sixties antiwar movement, Westport, 1997, p.188). Come nota giustamente Richard W. Wilson, nel caso siontomatico di Berkley – luogo simbolo della contestazione, dove non casualmente è ambientato The Graduate di Nichols, si passa durante gli anni '60 dal Port Huton Statement del 1960, che dice che gli uomini sono <<infinitely precious, and possessed from unfilled capabilities for reason, freedom, and love>> allo slogan dei Weathermen, <<Kill the pigs>> (cfr. R. W. Wilson, The Labirinth, an Essay on the Political Psychology of Change, New York, 1998, p.153.
M. Abramović, Rhythm 0, 1974 (dettagli).
questione sia davvero nella distanza storico-morale tra i due pubblici, ma in quella materiale e temporale: noi, al contrario di loro, non abbiamo a disposizione un corpo, ma un'immagine. In altri termini, non abbiamo altra scelta che empatizzare: è facile essere più buoni quando non si può più essere cattivi.
Quella che sembra una boutade, in realtà corrisponde alla realtà dei celeberrimi esperimenti di Philp Zimbardo, condotti nel dipartimento di psicologia di Stanford ne 197198. Dividendo gli studenti di
psicologia in due gruppi, i carcerati e i carcerieri, Zimbardo constatò che, nel giro di brevissimo tempo, non solo i carcerieri e i carcerati si identificarono nei rispettivi ruoli, ma i carcerieri iniziarono velocemente ad abusarne, tanto che Zimbardo dovette interrompere l'esperimento prima del termine. Constatando l'interessantissima concomitanza temporale tra l'esperimento di Zimbardo e la performance di Abramović (soli tre anni di distanza), noto banalmente che la performance mostra le medesime dinamiche di fondo: una volta che si stabiliscono ruoli chiari in cui uno è potuto (l'artista) e l'altro è potente (il pubblico), le dinamiche sociali sfuggono ai principi etici codificati nella società occidentale contemporanea, almeno parzialmente. Lo spettatore di oggi, essendo esterno alla dinamica di Zimbardo, reagisce fuori dal “gioco dei ruoli” dell'esperimento, riportando la barbarie del potere all'etica e alla sensibilità civile.
C'è – però - qualcosa di ancora più sostanziale e per certi versi più semplice della dinamica di Zimbardo, nella differenza di empatia tra l'oggi e lo ieri: a prescindere dal mezzo fotografico, la nostra empatia non è causata dalla stessa forza che genera la crudeltà nel pubblico di Rhythm 0. Questo perché, banalmente, mentre nel 1974 la crudeltà del pubblico era “causata” dalla Abramović, la nostra empatia per la Abramović è causata dalla crudeltà del pubblico. Reagiamo al comportamento del pubblico prima che a quello della Abramović.
Questa considerazione, nella sua evidenza, solleva un grosso numero di questioni – a partire dallo statuto artistico dell'opera aperta– che necessariamente non possono essere affrontate in questa sede. Tuttavia, tra tutte, una nell'ottica di questo sguardo retrospettivo che propongo, assume una certa rilevanza: quella del disinteresse della critica (e per molti aspetti degli stessi artisti) per l'effettiva apertura dell'opera. Senza dubbio, l'opera porta con sé non solo i segni dell'artista che l'ha concepita, ma quelli del pubblico che l'ha realizzata. È, in altri termini, una testimonianza di storia sociale, la manifestazione di un gusto, di un senso, di una logica non individuale, ma collettiva. E, anche se non si vuole trasformare la critica d'arte in critica del costume, alcune voci si distinguono nel vociare. Ascoltandole con un minimo di attenzione, si notano aspetti piuttosto sorprendenti e degni di qualche ulteriore riflessione.
Nel suo presentare l'artista come donna-oggetto, Rhythm 0 mostra un fondo tematico iniziale molto simile a quello di un'altra opera coeva della Abramović, Role Exchange. Qui l'artista scambiava il 98 P. G. Zimbardo, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil, New York, 2007
proprio ruolo con quello di una prostituta: la prostituta andava in un museo, l'artista si metteva in sua vece in una vetrina del quartiere a luci rosse di Amsterdam. La complementarità delle opere, in un certo senso, risulta evidente nel rapporto tra vetrina (Role Exchange) e manichino (Rhythm 0).
Analogamente, risulta evidente un fondo sessuale trasversale: la donna-oggetto (la donna in vetrina), completamente inerte, è – nell'immaginario nel linguaggio condiviso - la donna ridotta ad oggetto specificatamente sessuale. Ne consegue che il progetto di Rhythm 0, molto probabilmente “prevedesse” un certo tasso erotico – che sarà inevitabile l'anno successivo, ad Amstedam.
Interessantemente, questo aspetto potenzialmente e prevedibilmente così marcatamente erotico, nello studio Studio Mora si trasforma per buona parte in azioni artistiche di estrazione concettuale: non solo non si ha l'eros diretto sul/con il corpo dell'artista, ma si finisce addirittura nel più intellettualistico dei meta-discorsi artistici. Qualcuno – influenzato dalle correnti di estrazione dada (direi Fluxus, in particolare, per lo spirito libertario) le mette in mano uno specchio su cui scrive: “Io sono libero”. Un altro ancora le scrive sul corpo, come commento sulla poetica diffusa nella sala, “hic et nunc”. Un altro – quello dalla processualità più complessa - la fotografa con una Polaroid per tre volte, poi la mette in posa con le tre fotografie in mano e la fotografa di nuovo; a
M. Abramović, Role Exchange, 1975.
questo punto le mette l'ultima foto scattata – quella contenente le altre – poco sopra il seno, tra il gambo della rosa e la collana, incurante del fatto che l'artista stia piangendo. Come forse aveva previsto l'artista, quindi, nell'azione del pubblico c'è molta crudeltà, ma – imprevedibilmente, anche se logicamente, svolgendosi l'esperimento in una galleria - l' eros è in gran parte sostituito dal meta- discorso artistico. In un certo senso, quindi, viene confermato l'esperimento di Zimbardo: non solo il ruolo (il potente), ma anche il luogo determina il comportamento. Così come gli studenti diventano carcerieri in virtù del fatto che l'esperimento è condotto in un carcere ricostruito a Stenford, il pubblico diviene artista in virtù del fatto che si trova in una galleria. È un'epifania di impulsi primordiali quanto di condizionamenti sociali.