LA VIA DELLA FENICE: SEVEN EASY PIECES
1. Spartiti impossibili La teoria di Seven Easy Pieces.
Nel 1996, la Abramović rilascia un'intervista a Katy Deepwell. Questa intervista racchiude in sé tanto la genesi, quanto la struttura, quanto la teoria di fondo che reggerà Seven Easy Pieces dieci anni più tardi.
From my own experience, I know of lots of artists who really redo my work all over the world sometimes referencing me - sometimes not. There was a piece we were invited to in a museum in New Zealand - which borrowed from an earlier piece by Ulay and I called
Imponderabilia (Bologna, 1977) - where two people
stood in a doorway and the audience had to walk past but the only difference was the girl and boy were dressed not nude.
Then I got an invitation from 5 young artists in Poland to come and see a performance called Marina Positions - at first I was really angry but when I was watching the piece
I thought it was fantastic and I understood that the idea of originality as ‘my-ego-my art’ is completely an obstacle to the essence of performance. A performance should be like a musical score - like Mozart, subject to interperetation and it can be performend as you want. I want to promote this idea at the ICA’s 50th Anniversary next year and to do a performance based on the performances of the 70s - a historical view of 6 pieces - 5 by other artists I like and the last my own.
Sin dall'idea originale, Seven Easy Pieces nasce con l'esplicita intenzione non tanto di realizzare un definitivo <<tourning point in the history of performance art.>>106 - come sostenuto da Erika
Fischer Lichte - quanto di codificare in maniera istituzionale il nuovo senso che la performance è venuta ad assumere in epoca post-moderna.
Il reenactment dei giovani artisti è frutto della rilettura dell'evento performativo in un senso profondamente diverso da quella delle origini. Le azioni di Günther Brus e Gina Pane, infatti, si configuravano volontariamente e consapevolmente sia in relazione alla storia dell'arte immediatamente precedente (Pollock, Fontana, land art), sia in relazione/opposizione rispetto al proprio periodo storico (si pensi ad Arte e Capitalismo di Brus). La body art originaria, quindi, non è solo un'esaltazione del qui ed ora in senso filosofico, ma anche (e forse soprattutto) una reazione al qui ed ora in senso storico-sociale. In questo senso, la Pane afferma: <<Je savais qu' il y aurait eu un moment où je n'aurais plus pu continue à me blesser. (...) Lorsque la dernière blessure se serait produite, les actions se seraient arrêtées>>107. Il ferirsi ha il suo tempo.
Dopo il crollo del senso di consequenzialità e relazione storica tipico della modernità (quello che Fukuyama identifica con la storia stessa e Achille Bonito Oliva, nei limiti dell'arte, definiva “darwinismo linguistico108, come versione sprezzante dello storia evoluzionistica/positivista), la
performance rinasce secondo una nuova prospettiva, alla fine della storia. Non viene più vista in opposizione dialettica rispetto alle altre pratiche artistiche, ma in senso puramente disciplinare, codificata al pari di pittura e scultura nell'arte classica. Il riferimento storico, dunque, fuoriesce dalle grandi narrative moderne per privilegiare un'area circoscritta: non più la Storia dell'Arte, ma la storia della performance. I nuovi performer, quindi, rimettono in scena le performance storicizzate con lo stesso spirito con cui Matisse copiava Chardin o – al limite - con cui Picasso omaggiava Velasquez. Il ribellismo parossistico della prima body-art è completamente perduto – non importa quanto estremi siano gli strazi cui oggi si sottopone il corpo. È il tempo dell'istituzionalizzazione. È il tempo dell'autorità.
È proprio in virtù dell'autorità conferitole dal suo essere un'artista storicizzata, che la Abramović prende l'azione delle giovani senza nome di Marina Positions come spunto per la creazione di una norma, un <<new model>> - come lei stessa lo definisce. Modello di cui – ancora - lamenta l'assenza nel 2002:
The curator Jens Hoffmann organized an exhibition called A Little bit of History repeated at Kunst-werke in Berlin in 2002. He invited a few of my students to reperform some works of the seventies. Each artist approached the performances in a comical, almost ironical way, without contacting the artists themselves.
106 Erika Fischer Lichte., op.cit. 2007, p.44.
107 Gina Pane citata in Gilbert Perlain, Renaissance d'une posture, in Gina Pane, La légende dorée, catalogo mostra Musée d'Art Moderne Viilleneuve D'Asq, 26 settenbre 7 dicembre 1986, p.5.
108Francis Fukuyama, The end of History and the last man, New York, 1992; Achille Bonito Oliva, Transavanguardia, Giunti, 2002, p.6.
In every case, there were no instructions for them to go by (corsivo mio)109 .
Il <<new model>> che la Abramović propone compiutamente con Seven Easy Pieces è tanto di ordine estetico quanto di ordine legale/organizzativo. In questo, il termine “reenactment” mostra la sua duplice natura. La radice “act”, come l'italiano “atto”, ha tra i suoi significati quelli riferibili all'azione (atto di Dio, atto osceno in luogo pubblico), al teatro (atto unico, commedia in tre atti) e alla legislazione (atto legale, atto pubblico). L'enactment inglese indica tanto la messa in scena quanto l'emanazione di una legge. Con un gioco di parole, quindi, il reenactment della Abramović si propone di disciplinare la disciplina.
By performing Seven Easy Pieces, I would like to propose a model for reenacting other artists' performance pieces in the future (...)
This proposed new model could give performance art, which started as a transitory movement, a stable grounding in art history. It would lead to better dialogue between different generations of performance artists and would guarantee a clear position for performance as a more artistic discipline110.
A monte di tutto, evidentemente, c'è l'esplicito proposito di ridefinire i connotati della performance a livello teorico in maniera al contempo legata e separata dalla storia. Legata perché l'idea disciplinare ha come presupposto necessario le esperienze degli anni '60 e '70; separata perché si propone esplicitamente di ridefinirne la teoria originaria, specie nei casi – come Abramović e Burden e differentemente da artisti come Gilbert and George – in cui l'attività performativa era vista come momento unico e irripetibile.
La performance, di fatto, non solo nasce come “movimento transitorio”, ma – almeno in parte - come “movimento del transitorio”: <<the performances in the early seventies were not even documented because most of us believed that any documentation – by video or photos – could not be a substitute for the real experience: seeing it live>>111. Non solo: la performance, nella sua
teorizzazione più compiuta, non si definisce semplicemente in virtù dell'azione del performer, ma anche e soprattutto nel risultato dell'interazione tra azione del performer e audience: è proprio nell'unicità irripetibile di questo incontro che l'idea della performance come spettacolo non provato e non ripetibile – così diffusa negli anni '70 - trova maggiore senso, specie in relazione a quelle opere in cui il contatto con il pubblico è più esplicito. Cambiando l'audience di Rhythm 0, non si avrebbe una replica, ma un'altra opera. Questo perché, ovviamente, una diversa audience ha la possibilità di cambiare profondamente gli esiti estetici del progetto, facendo di esso una tragedia (sparando effettivamente all'artista), un'orgia (stuprando l'artista), una commedia (prendendola in giro) o qualsiasi altra cosa prendesse piede sul momento.
Parte della forza estetica di questo tipo di performance è racchiusa, in un certo senso, proprio nell'apertura dell'impianto progettuale in favore del caso, dell'imprevisto e dell'imprevedibile: Tanto che il titolo di una delle più famose performance di Abramović e Ulay è Imponderabilia.
Nella performance, realizzata a Bologna nel 1977, i due artisti si pongono nudi all'entrata del museo, completamente immobili, l'uno di fronte all'altra. Lo spettatore, per accedere, è costretto a toccare i loro corpi, chiamato a vincere l'imbarazzo del contatto diretto con la nudità in generale e 109Marina Abramović, Reenactment, in Marina Abramović, Seven Easy Pieces, Charta, Milano, 2007,.p.10. In realtà A
Little bit of History repeated è stata realizzata l'anno precedente, il 2001. 110 Ivi, pp10-11.
con gli organi genitali in particolare. Deve scegliere a chi voltare le spalle e a chi volgere il viso, deve passare attraverso uno spazio estremamente stretto, che impone il contatto fisico. Nella documentazione, appare chiarissimo che Imponderabilia ebbe due distinti centri di interesse per gli spettatori: da una parte quello primario, il passaggio del singolo attraverso la porta umana, dall'altra quello derivato: lo spettacolo dello spettatore che passa attraverso la coppia visto da chi è al di qua o al di là nel passaggio. Un uomo invalido passa attraverso tra i due artisti con fatica; una donna cerca di fare finta di niente e andarsene più in fretta possibile, alcuni uomini e donne che abbassano lo sguardo, alcuni a cui viene da ridere. Proprio lo sguardo diventa un problema: gli artisti creano imbarazzo e il pubblico tende a non guardarli durante il passaggio. Una donna porta lo sguardo verso il fondo della sala, un'altra cerca di evitare il contatto oculare, trovandosi ad abbassare gli occhi per istinto – e fissare i genitali per risultato. Questo la fa sorridere e arrossire. Altri risolvono l'imbarazzo fissando la camera che documenta l'azione. Questo è uno spettacolo a parte, che non riguarda la partecipazione diretta del pubblico nella performance, ma il voyeurismo del pubblico su chi compie il passaggio. Si cerca di vedere la reazione, l'effetto che fa.
In generale, invitando il pubblico a compiere un'azione all'interno della performance, il performer sottoponeva l'opera alla forza irripetibile del caso. Quando la performance però viene ripetuta una o più volte, per quanto con varie “modifiche”, viene sottoposta inevitabilmente ad un'inversione di segno, giacché si svaluta necessariamente il portato estetico degli elementi casuali per privilegiare quello degli elementi progettuali: Rhythm 0 diventa non più un'azione, ma una condizione - l'essere a disposizione del pubblico come oggetto su cui utilizzare gli strumenti messi a disposizione. Già sostanzialmente irrilevante nella lettura dell'opera originaria da parte della critica, l'azione del pubblico nel reenactment diviene una retorica di origine alto-moderna. Nemmeno un fatto o un concetto, ma uno stilema.
Il dogma della Abramović negli anni '70 era: <<no rehearsals, no repetition, and no predicted end. (...) In the beginning we even decided that we wouldn't make any documentation of our work>>. Nel 1980, quindi quando la crisi della body art si è ormai consumata - nella registrazione di Word of Mouth – l'artista serba affermava ancora:
Marcod Paulo Rolla e Marcos Hill, Imponderabilia, 2005; Dani Gallietti, Unconfotable Entrance (Imponderabilia redone), 2007.
<<we never repeat or rehearse any performance. We deal with reality as it is, in the given space. There are no symbols, no decorations. (...) Afterwards, when we have confront with video or photographs there is always something missing. No document can give you feeling of what it was. Always things are missing: the smell, the energy that was there. Performance in the fix space at the time is done for that fix space at the time. (...) You only have the memory left.>>112.
Nel 2007, dopo aver presentato pillole del proprio lavoro storico sia a teatro che al cinema113, torna
sull'argomento negando la validità di quel principio al giorno d'oggi: <<at the time I made it, the decision to not repeat and to not rehearse, in order to have an open-ended performance, was right, but in this time it is not right any more>>114.
L'esigenza di garantire alla performance una “chiara posizione come disciplina più artistica” - come dice l'artista – impone di rinunciare al finale aperto in favore di una sostanziale reificazione in funzione museale. Per quanto la strategia della Abramović fugga la semplice tentazione di “trasformare l'azione in oggetto”115 in senso stretto (quindi di mostrare la sola documentazione),
mira a fare della performance un lavoro a misura di museo: rispettabile (“more artistic”), perfettamente concluso e ripetibile ad ogni occasione, senza creare situazioni eccessivamente incresciose che lo spettatore non amerebbe affrontare. Siamo agli antipodi di Gűnter Brus e del suo Wiener Spazieren Gegangen, o di Following Piece di Vito Acconci. L'arte che usciva dai suoi luoghi deputati per turbare la gente di strada, ora viene riproposta a misura di museo.
Per formulare la nuova ontologia della performance a misura istituzionale, la Abramović insiste su una comparazione con la musica: <<A performance should be like a musical score - like Mozart, subject to interpretation and it can be performed as you want>>, dice già nel 1996. Nel 2007, a cose fatte, lo esprime in maniera più compiuta – per quanto in forma retoricamente più dubitativa:
112 M. Abramović, registrazione audio, in AAVV Word of Mouth, Oakland, 1980. 113 Mi riferisco ovviamente a The Biography e Balkan Baroque. Si veda appendice. 114 M. Abramović, op.cit. 2007, p.20
I feel the need not just to personally re-experience some performances from the past, but also to think about how they can be re-performed today in front of a public that never saw them. In this manner, I can open a discussion about whether we can approach performance art in the same way as music composition. Can we treat instructions of the performance like a musical score – something that anyone can replay?116
L'idea che la performance sia eseguibile nello stesso modo in cui è eseguibile la musica classica è di una debolezza estrema, perché comporta un'equiparazione tra documentazione e spartito. Questa idea – sia in senso stretto che in senso metaforico - è assolutamente insostenibile, specialmente se a riferimento non si prende John Cage o almeno Karlheinz Stockhausen ma, come fa la Abramović – Mozart. Lo spartito di musica classica, infatti, fornisce una quantità di indicazioni all'interprete pressoché impensabile rispetto alle istruzioni di una performance – quando presenti – e assolutamente nemmeno vagamente paragonabile a quello della documentazione, specie quando di matrice verbale o fotografica117. Rispetto a questa, come giustamente nota la Fischer Lichte,
generalmente <<there is no score that the first performance followed and to which the reenactment could refer>>118. Anche volendo ricostruire lo spartito a posteriori, oltretutto ci si trova di fronte a
una impressionante carenza di materiale: come nota la stessa Abramović, <<one often had to rely on testimonial witnesses, poor quality video recordings and photo negatives. Due to the dire conditions of performance art documentation, these substituable media never did justice to the actual performances>>119. E – se il nostro mezzo di accesso è inadeguato alla fruizione della
performance - esso sarà tanto più inadeguato ad essere pensato come uno spartito.
Anche reinterpretando le descrizioni degli artisti come fossero uno spartito scritto a posteriori, ci si troverebbe in situazioni comiche e sostanzialmente senza senso alcuno. Ad esempio, Ulay e Abramović descrivevano Incision in questi termini:
Ulay: I am fixed to the wall by a stretched rubber cord. I move repeatedly towards the audience as far as the elasticity of the material permits>>; Marina: I am standing parallel to the point of maximum expansion. A person from the audience attacks me and leaves. I come back to my place120.
Se bisognasse prendere quanto sopra come uno spartito, bisognerebbe interpretare il pezzo come un'opera per tre esecutori, non per due: ci vorrebbe un performer che esca dall'audience per colpire la Abramović. Questo sarebbe in sé pedante fino al ridicolo, perché l'azione dello spettatore era un raptus violento, un'iniziativa individuale estemporanea che è venuta a far parte dell'opera nel momento in cui l'opera era aperta al caso. La partitura dell'assalitore (<<sono seduto tra il pubblico. 116M. Abramović, op.cit. 2007, p.10
117 Da un punto di vista interno alla storia della Abramović, questo paragone incerto con la musica accompagna le performance della Abramović sin dagli esordi performativi, tutti chiamati “Rhythm” e poi numerati in ordine non cronologico. Se in alcuni di essi l'aspetto ritmico (e quindi musicale) è evidente, come nel caso di Rhythm 10, dove il gioco con i coltelli contiene una componente strettamente percussiva, in gran parte delle altre performance il termine “ritmo” ha un senso talmente vago da risultare in fondo inafferrabile. L'unico modo per spiegarlo è metterlo in relazione con la semplice idea di durata temporale (il ritmo in musica è definibile come l'intervallo dei suoni nel tempo). È un ritmo che non ha in realtà niente di strettamente musicale.
118 Erika Fischer Lichte, op.cit. 2007, pp. 40, 41. 119 M. Abramović, op.cit. 2007, p11.
Mi alzo e attacco Marina Abramović. Scappo.>> ) non esiste, né è esistita per la Abramović: se il “ritorno in posizione” della Abramović è parte di uno spartito, continuando con Mozart, lo è anche “prendo una stecca” o “perdo la voce” cantando Don Giovanni.
Ultimo fatto, decisivo per accantonare del tutto la validità della teoria, è che lo sparito di una musica può essere interpretato all'interno di un rispetto sostanziale delle notazioni. Cambiare il tempo, aggiungere e togliere note, pause, durate, altezze non vuol dire interpretare una musica, ma crearne una nuova. Se l'artista dovesse essere presa alla lettera quando dice di aver interpretato le performance <<as one would a musical score>> 121, ci si troverebbe quindi allibiti nel constatare che
ne ha sempre alterato in maniera estremamente significativa la durata (la performance di Gina Pane durò meno di 30 minuti, contro le sette ore della versione proposta dalla Abramović), la struttura (tutte le performance, con la parziale esclusione di quella di Bruce Nauman, sono state cambiate dal punto di vista strutturale) e la matrice visiva (scenografia e costumi), aggiungendo talvolta intere parti che nelle performance originali erano completamente assenti122.
In tutta evidenza, il paragone musicale è niente meno e niente più che un escamotage per evitare il confronto con quello che era il <<nemico assoluto>>123, il teatro: non potendo riferire il
reenactment al teatro – pena l'allontanamento dal museo - viene presa la strampalata metafora musicale. La Abramović sa bene che il museo può far entrare tutto nel suo sistema, purché si dica che è arte e non qualcos'altro. Resta però il fatto che il tipo di operazione proposta dalla Abramović, con tutti i suoi cambiamenti temporali e semantici, è tipica del teatro, non della musica. Mentre come interprete non potrò prendermi la libertà di cambiare altezza e durata alle note del Requiem di Mozart - pena il fatto che la musica smette di essere il Requiem di Mozart - nessuno potrà mettere in dubbio che io non stia mettendo in scena Beckett, se il mio Aspettando Godot durerà cinque ore o 121 M. Abramović, op.cit. 2007, p.11.
122 Erika Fischer Lichte aggiunge una seconda obiezione al paragone con la musica: <<the human body is neither a material like wood, marble, iron, etc. not an instrument like a flute, a violin, a piano, but a livinmg organism endowed with consciousness,>>(Erika Fischer Lichte, op.cit. 2007, p. 42). Tuttavia credo che questa sia probabilmente meno sostanziale, visto che la voce umana è uno strumento da sempre utilizzato in musica. 123 M. Abramović in N. Kaye, Art into theatre, London, 1996, p.181.
se, nella scenografia, accanto all'albero metto i secchi dell'immondizia di Finale di Partita.
Questa debolezza teorica così evidente nel riferimento alla musica, diventa pressoché insostenibile quando l'artista si riferisce al rapporto tra performance e documentazione. Nell'intervista del 1996 alla Deepwell sostiene:
I hope that this will open up the idea of performance as a free concept and demystify the 70s. Instead of the photo and all this projection on events where you were not there, I want to perform in this series, three I did not see (...) I actually want to do these performances.
La posizione di Abramović, già nel 1996, è assolutamente curiosa: per demistificare gli anni '70, nel '96 l'artista propone di rimettere in scena pezzi che lei stessa non ha visto, in ordine di sostituire