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PARTE II: LE OPERE/LA MITOPOIES

4. synthetic performances.

L'anno successivo agli Avatar Portraits, IL 2007, il duo decide di fare una versione di Seven Easy Pieces in Second Life, utilizzando gli avatar in luogo dei performer. Dei sei artisti della Abramović, ne vengono ripresi quattro: Acconci, Beuys, Export e la stessa Abramović, mentre viene scelto Burden in luogo di di Bruce Nauman e Gilbert and George in luogo di Gina Pane. A mettere in chiaro che l'ispirazione a Seven Easy Pieces è assolutamente diretta, i Mattes stessi citano nel loro sito il commento di Marina Abramović: <<It's a wanderful idea. I'm kind of jealous I didn't have it>>. Non casualmente, ancora, tre delle sei performance vengono presentate a New York nell'ambito di Performa esattamente due anni dopo il reenactment della Abramović: il 13 novembre 2007.

Il reenactment delle performance degli anni '70 su Second Life è palesemente un'idea che punta al paradosso: il dolore fisico, vale a dire il perno stesso su cui è stata pensata la performance dagli azionisti in avanti, non ha più nessuna importanza; al performer non viene richiesto coraggio alcuno se non quello di programmare l'azione e starsene tranquillamente al computer. La componente epica – su cui per molti aspetti la body art ha costruito il suo mito – diviene quella di un gioco per bambini. L'effetto stesso dell'azione è pressoché rovesciato.

Nella mia breve esperienza, ogni volta che mi sono trovato a spiegare la performance degli anni '60 e '70 a una classe di studenti universitari, mi sono trovato di fronte all'evidenza dello shock emotivo che la documentazione ha su chi la osserva. Mostrando le sospensioni di Stelarc o i viennesi, mi sono trovato nella condizione di avere in classe studentesse che non riuscivano a guardare lo schermo su cui venivano proiettate le immagini e si voltavano dall'altra parte. In un caso, addirittura, ho ricevuto proteste: non la protesta di una collegiale che trova poco “decorosa” la visione, ma la protesta di una persona che si trovava scissa trai suoi doveri di studio e i suoi bisogni fisiologici: stava sentendosi male. Io stesso la prima volta che ho visto la sequenza del vomito di Otto Bauer, ho avuto dei conati: la performance a volte richiede lo stomaco del medico più di quello del critico.

Evidentemente, questa estrema crudezza è correlata non tanto al corpo (oggetto) quanto al sangue e alla carne (materia). Una volta disincarnata e ripostulata in versione virtuale, la performance diviene qualcosa di niente affatto terribile e, anzi, piuttosto allegro. Se nella performance spesso si ha un ritorno a un senso di religiosità primigenia – quella del sacrificio umano e del rito iniziatico cruento - nella virtualità questo ritorno si traduce con un sereno regresso all'infanzia: Tipp und Tastkino nella versione dei Mattes fa lo stesso effetto di vedere Big Jim e Barbie che fanno l'amore.

Far copulare le due bambole è un'azione completamente priva di senso – visto che le bambole mancano di apparato riproduttivo – e trova in questa mancanza di senso la propria vis comica. Allo stesso modo, permettere a un avatar di tastare il seno della performer virtuale è un atto completamente svuotato di significato: in un mondo senza tatto, “tastare” è un'azione visiva. La stessa idea di intimità – cui si riferisce tanto il tastare il seno quanto la scatola/sipario che lo copre – è qualcosa di pressoché assurdo, che riduce la sessualità a un'apparenza svuotata di senso interno – un senso che trova la ragion d'essere solo una volta che è rapportato alla dinamica biologica del corpo. Finisce per essere come la barzelletta che Milan Kundera racconta ne Il Libro del riso e dell'oblio, in cui – al termine della prima notte di nozze – l'inglese dice alla moglie (cito a memoria): <<Cara, spero che tu sia rimasta incinta, perché non ho la minima intenzione di ripetere un'altra volta questi stupidi movimenti>>.

In questo, chiaramente, da parte dei Mattes c'è un intento parodistico: ad artisti che hanno fatto della speculazione sull'informazione il terreno di ricerca e del “minimo sforzo” il modus operandi, l'estenuazione fisica e mentale della performance, la sua mitologia e il suo romanticismo di fondo non possono sembrare che un mondo estraneo, sostanzialmente risibile: <<Eva and me, we hate performance art, we never quite got the point. So, we wanted to understand what made it so un- interesting to us, and reenacting these performances was the best way to figure it out. We have always been very attracted by things we don't like: Nike, the Vatican or Hollywood crap movies>>308.

308 D. Quaranta, Subvert.

Tra tutte le performance ricreate, la prima - Shoot di Burden – è quella dove l'intento parodistico è più esplicito. I due avatar – cui gli artisti hanno dato le loro sembianze reali – rimettono in scena la documentazione della performance con un senso assurdamente filologico, che riguarda tanto l'abbigliamento, quanto la scenografia, quanto l'inquadratura. A sparare è l'avatar di Eva, mentre nella parte di Chris Burden c'è l'avatar di Franco. Una volta colpito dal proiettile inesistente, senza nessuna ragione tranne l'imitazione, l'avatar di Franco si allontana dalla parete e cammina lievemente piegato – scimmiottando la postura che Burden aveva quarant'anni prima – seppur con un'espressione perfettamente impassibile, del tutto incongruente con una ferita da arma da fuoco. L'avatar, questo cattivo attore, mostra inequivocabilmente che la realtà di Second Life è totalmente incruenta: in questo contrasto con la durezza di Burden risiede il buffo della parodia.

Ma è davvero tutto esaurito nella parodia? In una innocente risatina accademica? Nell'amplesso di Barbie e Big Jim e nella lotta tra Big Jim e Skeleton? È davvero tutto qui? Probabilmente no: più a fondo, la filologia del reenactment virtuale può essere letta come un commento all'attendibilità della fotografia come prova documentale. Commentando la documentazione originale con un alias virtuale, si tende a creare un ponte tra i due momenti – un ponte su cui si cammina in entrambe le direzioni: non solo il pupazzo dei Mattes è come Burden, ma anche Burden è come il pupazzo. La virtualità del reenactment non è – in questo ordine di idee – meno virtuale della fotografia rispetto all'azione originale. Nella prospettiva plagiarista, anzi, tanto la fotografia quanto il reenactment virtuale sono in in sé una storia - che, come tutte le storie, poggia su storie pregresse, in un interminabile percorso a ritroso che si rifiuta di distinguere di discernere tra le storie, tra vero e falso: la frase di Home, che vuole che nel tempo tutti i suoi miti saranno storia, sottintende anche il suo contrario, vale a dire che la storia non sia altro che un mito. In questo senso Franco Mattes dichiara: << to me there's not distinction between reality and fiction, facts and fantasy, authentic and simulated. Nothing is real, everything is possible (...) I am constantly making up stories, and I tell them so many times I no longer remember if things really happened that way, or if I made everything up by myself. And the funny thing is: as soon as I like the story, I really don't care>>. In questo modus cogitandi la storia è solo narrazione e – come la narrazione – trova la sua ragion d'essere non nei fatti a cui si riferisce, ma nell'effetto estetico che produce nel tempo presente. La performance storicizzata, come storia narrata, ri-narrabile e re-illustrabile, viene a vivere quindi nella condizione del romanzo illustrato. Dalla prospettiva del narratore, questo racconto al tempo passato è un perfetto tempo presente (la realizzazione) proiettato verso un futuro ipotetico (l'attualizzazione del riguardante). E, in effetti, la condizione grafica di Second Life è proprio quella del futuro ipotetico: così come la fotografia porta in sé l'idea della memoria e del passato solo per il fatto di essere legata indissolubilmente all'attimo in cui è stata scattata, la grafica 3D porta in sé l'idea di simulazione per il futuro. Il 3D è il sistema grafico con cui i piloti di Formula 1 e gli astronauti della Nasa si allenano alle loro imprese. Quando viene riferito al passato – e qui il mio discorso diviene circolare - il 3D formula un passato ipotetico: è il sistema con cui il cercatore di tesori di James Cameron ipotizza la dinamica del naufragio del Titanic. In altri termini, come la fotografia è il mezzo della storia e del fatto, il 3D è quello della speculazione e dell'ipotesi. Portando la fotografia al 3D, i Mattes materialmente trasformano la storia come verità storica in storia come narrazione possibile.

Il loro scetticismo ontologico più che una posizione filosofica è una forma di attivismo politico: è uno scetticismo ribellista. Proprio per questo i due vanno a colpire i luoghi ricoperti da un'aura sacrale. Lo hanno fatto letteralmente in Vaticano.org; lo hanno fatto simbolicamente in Darko Maver – dove viene messa in crisi tanto la “sacralità della vita” quanto il “tempio dell'arte” – e nella performance – momento dell'arte pregno di senso sacrale primigenio: <<most people in Real Life is pissed off. They see our reenactment s as a joke on performance art, which they seem to regard as something almost "sacred">>309. In questa prospettiva, l'elemento ludico non agisce in funzione del

“divertimento”, ma proprio del sacro e del mito che gli è connesso: <<privato del mito, cioè delle parole consacrate che conferiscono ai gesti potere sulla realtà, il mito si riduce a un insieme ormai regolamentato di atti ormai inefficaci, a un'innocua riproduzione della cerimonia, a un puro gioco (ludus)>>310: il gioco è la nemesi del sacro. Ma a colpire questo aspetto sacrale non è solo la

mancanza di un'esperienza diretta e reale o il ricorso al bambolotto virtuale, ma in fondo la riduzione stessa ad immagine: come molte idee sacrali, anche l'idea della performance è intimamente venata di iconoclastia – basti pensare alla teoria di Peggy Phelan con cui ho aperto il saggio. In questa dimensione sacra, l'azione dei Mattes è duplicemente blasfema: in primo luogo perché riduce l'azione a immagine e l'immagine a ipotesi, in secondo perché priva l'immagine/ipotesi di elementi fondamentali all'azione. Così come la ferita virtuale di Burden/Matte non è causata da un proiettile, la masturbazione di Acconci/Matte in Seedbed non è connessa al suo requisito indispensabile: il pene.

Questo fatto non è trascurabile, perché è assolutamente volontario e mostra un'intenzione ironica. Se è vero che gli avatar “nascono” in Second Life privi di genitali – esattamente come Barbie e Big Jim – è anche vero che è assolutamente facile dotare l'avatar di pene o vagina virtuali, sia costruendone uno che utilizzando quelli “già pronti”, che vengono distribuiti gratuitamente nei sex club dell'arcipelago. In altri termini, l'avatar “nasce” privo di pene esattamente come “nasce” privo di fucile: se nella performance di Burden gli artisti hanno voluto fornire l'avatar di Eva di un'arma virtuale, è evidente che gli artisti non hanno voluto fornire il corpo di Franco di un sesso virtuale, in modo da rendere la masturbazione ancora più insensata e paradossale. Questa ironia, è correlata all'idea in sé del “nascosto” - tanto metaforico quanto letterale – su cui l'intera performance di Acconci era impostata: in Second Life non ci si può nascondere, perché la camera, come Dio, arriva ovunque, oltrepassando pareti e pavimenti. Allo stesso modo – riprendendo l'ipotesi archetipica che ho espresso nel capitolo precedente – è evidente che per l'avatar l'idea di Ombra e d'archetipo non ha alcun senso: l'avatar può essere espressione di una psicologia, ma certo è completamente al di fuori di una dimensione archetipica. Se l'archetipo affonda le proprie radici negli esordi dell'umanità – nella coscienza di specie – l'avatar è l'ultima e più verde delle foglioline: trova la sua ragion d'essere nell'essere completamente senza individualità. Questo senso parodistico generale, viene amplificato dal fatto che Franco/Acconci, una volta infilatosi sotto il pavimento virtuale, non racconta alcun tipo di fantasia erotica, ma si limita a grugnire in modo vagamente lugubre – con un effetto palesemente comico.

310Renè Caillois, L'uomo e il sacro, Torino, 2001, p. 154.

Rispetto al dato eminentemente comico dell'avatar di Franco/Acconci, Seedbed mostra un secondo aspetto, assai interessante, che riguarda il pubblico. La performance, al momento di essere realizzata, è destinata simultaneamente a tre tipi di pubblico: il primo tipo è quello degli altri avatar, che camminano sul pavimento virtuale e a cui è data la possibilità di interazione; il secondo tipo è quello live newyorkese, che guarda l'azione su uno schermo; il terzo tipo – quello di cui faccio parte – è quello che guarda l'azione registrata con una camera a mano che riprende tanto lo schermo quanto il pubblico newyorkese. Significativamente, infatti, il duo non mette in rete direttamente la registrazione della performance su Second Life, ma la registrazione della performance vista dal pubblico di New York, con tanto di risate quando succede qualcosa di buffo, di bambini che piangono e di applausi alla fine del pezzo. Questo non è dovuto a nessuna ragione tecnica: riprendere la performance direttamente da Second Life è estremamente semplice, qualsiasi programma di screen capture può farlo in tempo reale, senza problemi di sorta. È, quindi, frutto di una volontà artistica e di una propensione barocca, che ricorda quella del Greenaway di The Baby of Macon, che fa terminare il film con una lunga carrellata all'indietro che mostra un pubblico che applaude l'azione scenica, poi un secondo pubblico che applaude il primo – come parte dell'opera - poi un terzo pubblico che applaude il secondo, nella stessa maniera.

A differenza di Greenaway, però, che include ogni pubblico all'interno di una medesima maniera filmica e all'interno dello stesso mezzo tecnico, i Mattes sottolineano la diversa natura del pubblico attraverso la differenziazione della tecnica: alla camera mobile ma perfettamente fluida di Second Life corrisponde la camera fissa ma a mano di New York, cui corrisponde lo sguardo non mediato

Gli spettatori newyorkesi che seguono Seedbed. Eva e Franco Mattes, Seedbed, 2007.

dello spettatore “finale”. In altri termini, dalla perfezione della tecnica digitale segue l'imperfezione della tecnica umanizzata, cui segue l'occhio umano – lo sguardo senza mediazione tecnologica. Sguardo che, significativamente, materialmente e simbolicamente raccoglie tutte le mediazioni a cui la performance è stata precedentemente sottoposta: quella che si vede non è la performance, ma il pubblico che vede il pubblico che vede la performance. In altri termini, non è possibile accedere alla performance “in sé”, ma solo a come è stata vista.

Dei tre pubblici – io, il newyorkese, l'avatar – l'unico che ha effettivamente l'opportunità di ristabilire il rapporto di interattività originario della performance è quello virtuale. Qui, sfruttando la concezione sociale di Second Life, il reenacting ripropone una dinamica interattiva che, in qualche modo, è assai più prossima a quella degli anni '60 e'70 rispetto a Seven Easy Pieces e al suo reenactment da palcoscenico. Per spiegarne la dinamica, però, bisogna prima spiegare come si muove l'avatar nel programma.

In Second Life esistono fondamentalmente due tipi di azione che l'avatar può compiere: quella con comando manuale e quella programmata. La prima tipologia riguarda lo spostamento nello spazio: camminare, volare, voltarsi; la seconda riguarda tutte le azioni specifiche, come ballare, combattere o semplicemente accavallare le gambe. Mentre il primo tipo di azione è improvvisata dall'utente, la seconda scollega l'utente dal controllo diretto dell'avatar e lo sostituisce con un controllo automatizzato: l'avatar continua a eseguire il loop di movimenti dell'azione programmata fino a quando l'utente non riprende il controllo, estromettendo il programma. Il programma, di norma, è connesso a una zona dello spazio. Cliccando in quella zona con il mouse, vi si porta l'avatar e gli si fa compiere l'azione. Solo una volta dato il comando di interrompere l'esecuzione, l'avatar smette e torna allo stato originario.

Evidentemente, tutte le performance sintetiche dei Mattes appartengono alla tipologia programmata: sparare, masturbarsi, cantare, sono azioni che vengono eseguite all'interno di una dinamica “prestampata” che – quindi – esclude ogni tipo di improvvisazione. Malgrado questo meccanismo forzato, che esclude l'interazione, gli altri avatar assistono alla performance in modalità non programmata, per cui hanno l'opportunità di interagire con gli avatar degli artisti, per quanto in maniera univoca. Su questo principio, ad esempio, funziona il reenacment di Imponderabilia di Abramović e Ulay. Qui, chiaramente, viene a mancare l'aspetto primario del contatto – su cui si fonda la performance. Il performer e l'audience <<only interact thorough their avatars: everything is mediated, nothing is spontaneous. More or less the opposite of what performance art is supposed to be>>. Tuttavia, in questa dimensione mediata, esiste un'interazione effettiva. Di fatti in Imponderabilia, dove l'avatar di Franco – al contrario che in Seedbed – viene dotato di un pene, si ha contemporaneamente una simulazione di interazione ed un'interazione effettiva. Gli avatar degli utenti, per attraversare gli avatar degli artisti devono svolgere una modalità programmata, che fa sì che i corpi si muovano in lateralmente, simulando il modo in cui i corpi veri dovevano passare a Bologna nel 1977. Tuttavia, allo stesso tempo c'è un'interazione del pubblico a livello spettacolare: in modo piuttosto esilarante, uno degli avatar del pubblico decide di togliersi i propri vestiti e di passare attraverso i due artisti completamente nudo, in modo da rendere reciproca l'idea (tutta ormai assolutamente mentale) dell'imbarazzo del contatto.

Questa interazione tra avatar degli utenti e avatar degli artisti diviene più “reale” – cioè fuori della modalità programmata - in The Singing Sculptures di Gilbert and George: mentre gli avatar degli artisti cantano, un utente decide di salire sul palcoscenico, in modo da far cadere giù l'avatar di Eva, facendolo uscire dal programma del playback. Per un divertente paradosso, questo utente si comporta nello stesso modo in cui si era comportato lo spettatore che aveva colpito la Abramović durante la realizzazione di Incision.

Probabilmente, tra tutte le performance proposte dai Mattes, The Singing Sculptures è quella che ha un carattere teorico più sviluppato e complesso. Questo, innanzi tutto, sia perché la performance originale di Gilbert and George è quella che si avvicina di più alla modalità dell'avatar, sia perché Gilbert and George sono gli artisti più prossimi alle prospettive del duo tra quelli scelti. Il motivo di questa vicinanza, prima ancora che la questione dell'identità, è il rivolgersi al di là della stretta comunità artistica – il guardare al mondo mediatico in generale, pur rimanendo legati al circuito dell'arte. Nel 1974, mentre gran parte delle performance si svolgevano di fronte a un pubblico minuscolo, gli artisti affermavano in maniera pressoché geniale:

We like to be life-like in a way. Not to be too artistic. It would be very easy for the artist to exist with very, very discreet exhibitions that nobody ever heard anything about, and it would just involve five or six people dotted around the world and three or

Eva e Franco Mattes, The Singing Sculptures, 2007. L'avatar di Eva Mattes viene buttato giù dal palco. Eva e Franco Mattes, Imponderabilia, 2007.

four collectors, and it would be completely enough to be successful. That doesn't interest us too much. It would be very dry to us311.

Allo stesso tempo – in un modo per certi aspetti warholiano, legato ad un'idea di artista vuoto e banale da una parte, buisiness oriented dall'altra – si dotano sin dall'uscita dal college di buisness manager: <<we just wanted to put it on a sound footing really, a sound buisness base>>312. Al