• Non ci sono risultati.

La Fam VIII 1 a Stefano Colonna

Il pensiero della morte nelle Familiari: le consolatorie

2.5. La Fam VIII 1 a Stefano Colonna

La lettera che Petrarca deve inviare a Stefano Colonna il Vecchio nel- l’autunno del 1348, spinto dalle circostanze, rappresenta un momento di notevole peso nella costituzione di un ideale corpus consolatorio. La sua collocazione in testa al libro VIII è motivata da ragioni strutturali oltre che cronologiche: essa rappresenta l’introduzione generale a un libro che sarà sostanzialmente costruito intorno a due grandi lettere, suddivise in frammenti di minore estensione, quasi a distenderne gli argomenti su più giorni, perché l’elemento temporale possa incidere con più forza sul lettore. Si tratta della Luca Cristiani sul progetto di vita comune (VIII 2–5) e quella al suo Socrate (VIII 7–9). Quest’ultima lettera è di argomento più eterogeneo, anche se intonata in genere sulla morte: si divide infatti tra il lamento sulla peste, l’annuncio della morte di Paganino da Milano e infine il planctus sull’assassinio di Mainardo Accursio e la scomparsa di Luca Cristiani. Con questi ultimi due nomi si chiude il cerchio aperto, in senso costruttivo, dalla prima grande sequenza del libro: l’amicizia su cui si fondava il sogno di fondazione di

una domus (VIII 4, 24: «cur non tandem domus una coniugit, quos olim

iunxit unitas voluntatum. . . ?»), lungamente esposto al suo Olimpio, si è infranto alla prova con la storia e le sue calamità.145L’ultima lettera, rivolta ai fiorentini come espressione di una veemente indignatio et

querela per il crimine — l’assalto dei due amici, appunto — avvenuto

nel loro territorio, è veramente la pietra tombale messa su un periodo della vita di Petrarca, e un’ideologia dell’amicizia, che ha fine nel 1349.

Non tornerò sui complessi motivi struttivi che legano il libro VIII al VII, e in particolare sul rapporto tra la sua calcolatissima disposizione e le lettere 11 e 12 di quel libro, riguardanti l’attesa e poi la notizia della morte di Franceschino degli Albizzi, che si pongono come argomen-

145. Roberta Antognini segnala un passo delle Confessioni in cui Agostino parla del progetto di vita comune con gli amici: «Et multi amici agitaveramus animo, et conloquentes ac detestantes turbulentas humanae vitae molestias, paene iam firmaveramus remoti a turbis otiose vivere» (Conf. VI 14, 24, in Antognini, Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., p. 174); ma al luogo del De ordine richiamato dalla studiosa per giustificare il sintagma «una domus», hapax in Petrarca, si potrà aggiungere il versetto salmico citato in apertura di Conf. IX 8, 17: «Qui habitare

facis unanimes in domo [Ps 67, 7], consociasti nobis et Evodium» (con collegamento capfinido al

sospiro con cui si chiudeva il capitolo precedente, denso di suggestioni petrarchesche: cfr. 7, 16 in finem: «ideo plus flebam inter cantica hymnorum tuorum olim suspirans tibi et tandem respirans, quantum patet aura in domo faenea»).

tazione intorno al tema dell’amicizia attesa e poi frustrata dai colpi di Fortuna. Enrico Fenzi ha ben messo in luce la struttura portante dei due libri, concepita come «grande dittico che ripropone, in essenza, lo stesso schema di quello minore [sc. di VII, 11–12]».146 Mi limito invece all’analisi della prima lettera del libro, la grande e difficile consolatoria rivolta al patriarca dei Colonna.

Il nome di Stefano il Vecchio, l’abbiamo visto, era già stato ricordato nell’ultima consolatoria al figlio Giovanni. In quella lettera, egli veniva indicato a Giovanni come ultimo residuo di una famiglia spazzata via dalla Fortuna, che «Quod potuit, fecit». Tranne il tuo magnanimo genitore, scriveva Petrarca, non c’è più nessuno contro cui essa possa cozzare; e a lui, Stefano, che si è lasciato ormai alle spalle ogni termine pensabile per la vita umana — nel 1348 Stefano doveva avere 83 anni —, non potrà accadere più nulla di impreveduto (intempestivum). Anzi, la virtù e forza d’animo di cui Giovanni sta dando prova nell’occasione dolorosa saranno di sostegno al vecchio padre contro la ferox fortuna che ha incrudelito contro di lui.

In sostanza, dunque, Petrarca sta additando a Giovanni Colonna lo spazio del solamen nell’aver compiuto Fortuna «l’estremo di sua possa» (Rvf 326, 1): anticipando a un tempo, e così disinnescando, la forza luttuosa di un’eventuale, prevedibilissima prossima morte del padre (la quale, avendo egli già varcato i termini attesi dell’esistenza, non potrà arrivare con la forza dolorosa dell’evento imprevisto), ed eleggendo la virtus del figlio a consolazione dell’ultimo periodo di vita del genitore. Lo sguardo deve insomma rivolgersi al tempo che resta, il quale sarà occupato da una parte dall’acquetarsi del dolore di

146. Fenzi, Petrarca e la scrittura dell’amicizia, cit., p. 584. Sul libro nel suo complesso cfr. anche U. Dotti, L’ottavo libro delle «Familiari». Contributo per una storia dell’umanesimo petrarchesco, «Belfagor», 38 (1973), pp. 271–94 (di cui Fenzi discute l’impostazione di fondo ivi, pp. 582–3 in nota); ma cfr. anche, dello stesso, la Nota introduttiva al libro VIII, in Petrarca, Le Familiari, ii,

Libri VI–X, ed. cit., pp. 1037–46. A p. 582 in nota, Fenzi cita un passaggio di A.S. Bernardo, Letter’s splitting in Petrarch’s «Familiares», «Speculum», 33 (1958), pp. 236–41, a p. 240, in cui

l’autore attribuisce al desiderio di creare «the illusion of the passage of time» l’interposizione della lettera VIII 6 a Bartolomeo da Urbino tra le due grandi sequenze del libro. Il passaggio del tempo, come abbiamo accennato, è sotteso anche alla divisione delle grandi lettere maggiori in lettere più piccole; ma la ragione dell’interposizione della lettera 6, oltre che per ragioni di simmetria interna (il libro risulta costituito da due grandi blocchi di missive, dotate di un prologo, di un intermezzo e di un epilogo: 1+4+1+3+1), potrà essere ascritta alla messa in rilievo del nome di Agostino — Bartolomeo era un agostiniano, e l’oggetto della lettera è il suo Milleloquium Augustini — come nume tutelare della una domus sognata e distrutta nel corso del libro VIII (cfr. supra).

Stefano sulla constatazione della forza d’animo di Giovanni; e, dall’altra, dall’attesa serena da parte di Giovanni dell’evento che priverà il casato dell’unico altro suo membro sopravvissuto, oltre a lui.

Ma le cose andarono diversamente. La situazione prospettata da Petrarca, linearmente rispondente ai prevedibili tempi d’uscita dalla vita, mutò ulteriormente. La morte del cardinale Giovanni, avvenuta il 3 luglio 1348, sconvolse il quadro, già drammatico, delineato nella Fam. VII 13, e lo obbligò a comporre una consolatoria dall’oggetto quasi impensabile: la sventura toccata a un uomo che, ormai vecchissimo, non si ritrova a contemplare serenamente quanto è riuscito a costruire durante la sua esistenza lunga e felice, ma proprio a causa della lunghezza della sua vita finisce i suoi giorni solo, in mezzo alle croci innumerevoli disseminate in quel vasto cimitero che è, ormai, la sua lunga vita.

Il caso di Stefano il Vecchio è dei più singolari. Tutta la filosofia e le prescrizioni terapeutiche elaborate dal Medioevo intorno alla vita

longa non prevedevano questo paradosso, che vivendo più a lungo si

potesse essere condannati ad assistere alla morte dei propri familiari.147I precetti dell’ars dictaminis prevedevano formulari topici di consolazione per la morte dei figli, ma si trattava di casi eccezionali, ristretti appunto, di norma, alla premorte di un figlio. O trattati in modo abbastanza singolare, come è il caso della breve lettera a un vecchio per la morte del figlio inclusa nel capitolo De consolationibus della Rhetorica antiqua, o

Boncompagnus, di Boncompagno da Signa: che oltre a esortare il vecchio

padre a non «stultizare» piangendo, perché tanto ha già un piede nella fossa, lo esorta ad appuntare il pensiero sul fatto che mentre lui piange il figlio, a parti invertite il figlio riderebbe, venendo in possesso della sospirata eredità.148 L’unica cosa che il vecchio può fare è dunque

147. Il caso di Stefano Colonna è diverso da quello di Pompeo, per il quale nel Triumphus

Fame I compare l’esclamazione «ma ’l peggio è viver troppo!» (v. 94). Il «viver troppo» di cui

fu caso esemplare Pompeo, come attestano tutte le fonti classiche note a Petrarca e le sue stesse citazioni in vari luoghi dell’opera latina, è quello di colui che con una morte indegna oscura la gloria di una vita illustre (così Cicerone, Livio, Lucano, e Petrarca stesso in Fam. III 10, 11 e in altri luoghi, tutti enumerati da Vinicio Pacca nel suo commento ai Triumphi, ad loc.: cfr. F. Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, intr. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 377–8). Più prossima al caso del patriarca dei Colonna è, nel De remediis, l’esortazione a non desiderare una vita troppo lunga, che di certo moltiplicherebbe le «cure» e i «labores» (II 119 De morte, 12).

148. Caso ben presente a Petrarca, che lo enumera tra i mali della vita nella Fam. XIV 1 a Elie de Talleyrand (§ 34: «[Dura conditio] scire preterea mortem suam votis optari, hereditatem appeti, dies numerari, pigram fugam temporis videri»).

asciugare le lacrime, e pregare Dio di abbreviare «misericorditer» il tempo che ancora gli resta, così da poter ascendere alla Gerusalemme celeste:

Super duobus principaliter non sufficio admirari, quia [in] senecta es et senio iam confectus. Unde in manus [v.l. annis] tuis non erit ulterius, nisi labor et dolor et super obitu filii tui, qui te ad gaudia Paradisi processit, plangendo stultizare non times, presertim cum unum pedem iam cum eo teneas in sepulcro.

Secundum est, quod ille, pro quo defles, de tua morte ridetur tuumque transitum cum gaudio expectaret, ut hereditas ad eum in integrum perveni- ret. Et licet summotenus plangere cerneretur lacrime tum defunctis gaudii emanerent. Demum tue nobilitati duxi propensius consulendum, ut omnes lacrimas ab oculis tuis abstergas et amoveas de corde tuo dolorem, largitori bonorum omnium humiliter supplicando, ut tuum incollatum, qui est ni- mium prolongatus, misericorditer breviare dignetur et conferat tibi de sue gratie munere, quod ad celestem Hierusalem quo visio pacis Dei merearis cum salute anime pervenire.149

Per la morte di un figlio, dunque, si poteva compiangere un vecchio. Ma non per la morte della famiglia intera. Petrarca, dunque, che nella VII 13 aveva proclamato il patriarca dei Colonna ormai al di là di ogni possibile colpo di Fortuna, deve riprendere il discorso dall’inizio.

La Familiare dedicata a Stefano il Vecchio è rubricata come mixta

lamentis consolatio super gravissimis fortune vulneribus; e la lunga vita che gli

è toccata in sorte viene qualificata, in esordio, come supplicium: «Heu miserande senex, heu vivacissimum caput, quo piaculi genere celum offendisti, quod fecisti, ut tam longe vite suppplicio punireris?» (§ 1).150 Vivere a lungo si è tramutato da benedizione celeste a condanna: è il «supplicium senescentium», come lo definirà Petrarca stesso nella

Posteritati.151

149. Littere consolationis pro morte filii ad illum, qui est in senecta et senio constitutus; cito dall’edizione allestita da Steven M. Wight (Medieval Diplomatic and the ‘ars dictandi’) per il sito «Scrinium» (http://scrineum.unipv.it/wight/: Boncompagnum, 1.25.6). Ho emendato i refusi e le lezioni dubbie di questo testo anche sulla base della citazione di parte della lettera nell’introduzione di Paolo Garbini a Boncompagno da Signa, De malo senectutis et senii, Firenze, Sismel–Edizioni del Galluzzo, 2004, pp. xxii–xxiii.

150. [Ahimè, vecchio sventurato e capostipite quasi indistruttibile, con quale delitto hai offeso il cielo, cosa hai compiuto per essere punito con una vita così lunga?].

151. Cfr. Ad posteritatem (Sen. XVIII 1), 9: «Sed hoc est supplicium senescentium: ut suorum sepissime mortes fleant» (cito dalla riedizione della lettera compresa in G. Boccaccio, Vita di

Su di lui, soprattutto, si misura l’ars consolatoria di Petrarca. Che si troverà a parlare dell’efficacia sua molti anni dopo, nella Dispersa 56 a Gasparo Scuaro dei Broaspini, avendone potuto avere una verifica diretta dalle testimonianze, che gli sono state riportate, sullo stato d’animo e gli atteggiamenti di Stefano Colonna al momento di leggere l’epistola.

La lettera fa parte di un blocco compatto (Disp. 55, 56 e 57 =

Var. 54, 58 e 19), identificato come tale dalla rubrica della lettera

centrale del trittico (Ad Gasparum veronensem, de materia precedentis et

sequentis epistole), presente in sequenza nel codice M, il Marciano latino

XIII 70 notoriamente identificato da Vittorio Rossi come ‘archetipo abbandonato’ delle Familiari.152Le righe finali della Dispersa 55 deviano dall’argomento principale, che è una exhortatoria ad scribendum, per il desiderio di Petrarca di rispondere a un unico punto della missiva ricevuta dal suo corrispondente. Bartolomeo di Pace stupisce che il celebre poeta, che scrive dal «tanto tamque incomparabili decore» di Venezia, «urbis amplissimae», possa definirsi assediato da molti affanni: e dunque gli chiede di poterne prendervi parte, da amico. Sta’ tranquillo, risponde dunque Petrarca, non mi è accaduto nulla di nuovo rispetto a ciò che conosci, nulla di cui possa gravarti le spalle. È solo che «in questa età, che meglio sarebbe non avessi veduta, l’invidiosa morte mi ha spogliato di ogni vecchia e lungamente provata amicizia».153E, dato che il dolore non mi è stato alleviato dai medici, mi sono procurato da solo l’unico remedium possibile, quello di piangere senza freno e lamentarmi («flere largiter et queri»).154

Vita del Boccaccio, insieme alla Senile X 2, come duplice testimonianza di un’autobiografia

redatta da Petrarca in forma di risposta o correzione alla biografia composta dall’amico). 152. V. Rossi, Un archetipo abbandonato di epistole del Petrarca, in Id., Scritti di critica letteraria, Firenze, Sansoni, 1930, pp. 175–93. Vittorio Rossi ha avanzato l’ipotesi che, contenendo tale trittico delle lodi rivolte al copista della redazione provvisoria dell’epistolario, Gasparo veronese appunto, esso fu espunto dalla raccolta (in M occupava il posto successivo a quelle che saranno le prime dodici lettere del libro XXIII) per dar luogo alle lodi del copista della redazione definitiva, Giovanni Malpaghini. La tesi è accolta da Alessandro Pancheri, e inserita in un ragionamento più ampio sull’abolizione delle «ragioni di esclusione come denominatore comune» per la definizione della fisionomia delle Disperse (cfr. F. Petrarca, Lettere disperse,

varie e miscellanee, a cura di A. Pancheri, Parma, Fond. Pietro Bembo — Guanda, 1994, pp.

XX–XXI).

153. Petrarca, Lettere disperse, cit., p. 389, trad. Pancheri («Cunctis enim ferme veteribus, ac diu probatis amicitiis hoc tempore, quod utinam non vidissem, me mors invida spoliavit»). 154. Ibidem. Pancheri emenda il testo Fracassetti con l’aiuto di M, grazie al quale legge l’inizio dell’ultimo periodo citato come «In quo quum phi(si)cis non levabar» (p. 388, nota 7).

Petrarca insomma si presenta, in coda a questa lettera, come un alter

Stephanum, colui che per la vastità delle perdite non conosce nessun altro

più infelice («qui se suis malis miseriorem non agnoscit»), e individua dunque l’unico solamen possibile nel pianto. Il transito alla lettera successiva, seppur indirizzata ad altro destinatario (Gasparo veronese appunto: perché Bartolomeo nel frattempo è morto all’improvviso), si compie dunque del tutto inavvertito, giacché il prologo pone il caso di chi si trova a essere sopraffatto dall’eccesso di dolore, tanto che la parola consolatoria, per analogia con i remedia della medicina, non avrà effetto alcuno finché il solido nodo del dolore non si sia dissolto per effetto delle lacrime:

Sunt quidam sic affecti sic obruti moerore, ut sicut in corporibus, nisi pur- gatus humor noxius fuerit, extrinsecus admota remedia frustra sint, sic ani- mis quoque illorum, ni concretus dolor in querelas aut lacrimas effundatur, nequaquam illis verborum consolationibus medeare.155

In un’ideale compagine epistolare, il passaggio rimanda dunque altrettanto bene all’indietro, ovvero alla situazione di sé presentata nella lettera precedente, che in avanti, alla persona di Stefano Colonna che subito viene introdotta. È proprio pensando alla necessità che il pianto prevenga e faccia strada alla parola consolatoria, scrive Petrarca, che al patriarca romano ha indirizzato un’epistola intesa non ad asciugare, ma a far versare le lacrime:

Id olim meditans, Stephanum de Columna seniorem [. . . ] post illam mise- rabilem ac festinam familiae suae stragem sic per epistolam sum alloquutus, non ut lacrimas comprimerem, quod si facerem extincturus illum fueram, sed elicerem ac funditus exhaurirem, atque ita dolore nimio plenam animam expurgarem: et successit.156

155. Disp. 56, ivi, p. 388 [Vi sono alcuni a tal punto colpiti e sopraffatti dal dolore, che al modo in cui nei corpi le cure agenti dall’esterno sono inefficaci finché l’umore nocivo non sia stato spurgato, così nel loro animo nessuna medicina di parole consolatorie avrà effetto, finché il duro dolore non si sia dissolto in lamenti o lacrime].

156. Ibidem, pp. 388–90 [Fu tenendo presente questo che un tempo, dopo il miserevole e repentino annientamento della famiglia di Stefano Colonna il Vecchio, mi rivolsi per lettera a lui non con l’intento di frenarne le lacrime (se lo avessi fatto sarei stato responsabile della sua morte), ma con quello di stimolarle, e cavargliele fuori tutte così da purgarne l’anima, piena d’un eccessivo dolore; e così avvenne].

Come la medicina prevede che l’humor noxius che avvelena il sangue venga spurgato, così la retta consolatio mira non a comprimere il dolore, che quando è eccessivo occupa e occlude l’anima, ma a lasciare che attraverso il pianto esso trovi uno sfogo. Il pianto di Stefano il Vecchio corrisponde talmente a quel nimius dolor da metterlo quasi in pericolo di vita, come attestano i presenti che attribuiscono alla lettera petrarchesca

nescio quod nocivum ac funereum; ma si tratta in realtà di una sorta di

rimedio omeopatico, della necessità di scacciare il dolore con il dolore, di corrispondere in una volta sola — per uno spazio di tempo finito — al lutto subìto con tutte le lacrime di cui si è capaci, onde poter poi tergere gli occhi:

Epistolam enim illam, ut mihi qui eam tulit retulit, tot cum lacrimis legit tan- tisque suspiriis, ut timeret ille ne periculo sibi esset; insultantibus amicis quia nescio quod nocivum ac funereum attulissem: ea vero perlecta, tersit oculos, iuravitque nil se amplius fleturum, non si simul orbis totus succumberet: flesse enim ad satietatem et quidquid esset in animo gemituum perfluxisse.157

Quello che per Stefano Colonna appare un remedium unico e defi- nitivo, capace di chiudere una volta per sempre le porte al dolore per i replicati lutti, Petrarca lo usò per se stesso a più riprese, come confessa al termine del racconto («Hoc remedii genere ipse mecum, cogente impia Fortuna, sepe postea usus sum»), derubricando così quel pianto da esperienza catartica unica e irripetibile (Stefano annuncia che non piangerà più così come ha fatto, «non si simul orbis totus succumberet») a medicina di lacrime atta a superare ogni lutto, ma usata una sola volta per ogni amico scomparso. Questa lettera stessa, la Disp. 56, porta del resto già due esempi del remedium indicato, giacché la Fortuna ha voluto che colui al quale Petrarca aveva appena esposto i termini della sua ars consolatoria fosse morto subito dopo, così da costringerlo a usare nei suoi confronti il remedium che gli aveva appena descritto;158 e, cosa

157. Ivi, p. 390 [Come mi riferì colui che gli aveva recato la lettera, egli la lesse spandendo tante lacrime e tanti sospiri da far temere che mettesse a rischio la propria vita; letta e riletta che l’ebbe però si asciugò gli occhi, e ai suoi amici che animosamente mi accusavano per avergli inviato non so che di nocivo ed esiziale giurò che, dovesse sprofondare il mondo intero, non avrebbe mai pianto più di così: aveva infatti lacrimato a sazietà, dissolvendo ogni gemito che il suo spirito potesse contenere].

158. Ivi, pp. 390–2: «Idem ille, cui hoc scripsi, [. . . ] repente post moriens [. . . ] effecit[. . . ] ut de illo quidem multa quidem loqui possem, illi vero iam scribere nil amplius; utque eo remedio, quo sibi me in aliis usum dixi, mox in eodem ipso uterer».

ancor più grave, Petrarca aveva appena perduto un amico carissimo, Azzo da Correggio, nei cui confronti si era reso necessario il tristis

remedium del pianto sparso con larghezza:159

Flevi obitum; non pudeat fateri, quod fecisse non puduit; et quoniam delec- tabat ac proderat exonerare animum fletu, feci omnia quibus quam necessario flendum esset, semel flerem, et non saepius, quod fieri non poterat nisi abundantissime semel flessem.160

Accennato appena al fatto che di nuovo Petrarca sovrappone la propria persona a quella di Stefano Colonna su cui si era aperta la

Dispersa (come lui, Petrarca trova stimolo al pianto leggendo una lettera,