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Il quarto libro

Il pensiero della morte nelle Familiari: le consolatorie

2.3. Il quarto libro

Pur accogliendo lettere apparentemente distribuite lungo un decennio (dal 1336 al 1345–47), il quarto libro delle Familiari gravita intorno all’incoronazione capitolina, contribuendo alla sua trasformazione in evento pubblico. Tolta infatti l’epistola iniziale sull’ascensione al Ven- toso, che ha come non ultima funzione quella di presentare lo stato interiore e spirituale del poeta prima e in vista dell’evento della lau- rea,95 le otto lettere seguenti la riguardano strettamente, comprese come sono tra la lode del re Roberto (lettere 2 e 3), il dubbio circa il luogo dell’incoronazione (che coinvolge il cardinal Giovanni Colonna come interlocutore privilegiato e solutore della questione, nelle lettere 4 e 5), l’approssimarsi della cerimonia (annunciata nella lettera 6 a un altro Colonna, questa volta Giacomo, con malinconica diminutio dell’e- vento in quanto destinato a compiersi senza la presenza dell’amico), e finalmente lo svolgimento della cerimonia stessa, estesamente narrato al re Roberto che l’aveva autorizzata (lettera 7), e più concisamente a Barbato da Sulmona e al cardinal Giovanni (lettere 8 e 9), che non vi avevano assistito: ma già in queste ultime missive la narrazione dell’e- vento cede ed è come sommersa da quello che nelle Familiari Petrarca presenta come male assoluto dei tempi, la lacerazione d’Italia ad opera di guerre interne e scorrerie. Il poeta appena laureato subisce l’assalto di predoni appena fuori Roma e ripara a Parma, da poco liberata per opera di Azzo da Correggio, rinviando il ritorno ad Avignone e ai Colonna.

A questa prima coerentissima sequenza di lettere fa seguito un gruppo compatto di quattro epistole di planctus e consolazione, sulla morte di due tra gli amici più stretti degli anni giovanili: sono le due lettere inviate ai fratelli di Tommaso Caloiro, morto probabilmente tra il luglio e l’agosto del 1341 (la IV 10 Ad peregrinum Messanensem, super

mesto casu immature mortis amici e la breve IV 11 Ad Iacobum Messanensem, super eodem casu mortis amici), e le due sulla morte di Giacomo Colonna,

avvenuta nel settembre del 1341, la prima delle quali è pure inviata a un fratello superstite (IV 12 Ad Iohannem de Columna cardinalem, consolatoria

95. E che ben si piega a dimostrare l’esattezza dell’osservazione di Giuseppe Billanovich circa la tendenza di Petrarca a rafforzare incipit ed explicit dei libri delle Familiari (Petrarca

letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, cit., p. 27 n. 1, citato in Antognini, Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., p. 141 in nota); ma con più attenzione per l’incipit, a ben vedere.

super morte viri clarissimi Iacobi fratris sui, e IV 13 Ad Lelium, de eadem morte non consolatio sed querela).

Sulla vicenda della laurea si innesta dunque una sequenza dotata di altrettanta coesione, che finisce per rappresentare in un certo senso la prima parola pubblica del Petrarca laureato, il suo primo esercizio di filosofia dopo la pronuncia del discorso di laurea:96 con un peso specifico altissimo, se si pensa che il piccolo libretto funebre costituito da queste quattro lettere rappresenta a un tempo una concreta forma di meditatio mortis, ovvero di filosofia, e di riflessione sul potere di Fortuna, sollecita e pronta ad apprestare il rovescio dell’esperienza gloriosa appena vissuta nella laureatio: Petrarca deve piangere due morti, e quanto dolorose, nel giro di pochissimi mesi. Nessuna forzatura sulla cronologia di composizione delle lettere: eppure il planctus per Tommaso Caloiro e quello per Giacomo Colonna si dispongono, entro l’ordito del libro, con una voce analoga a quella che avranno Dolor e

Metus nel secondo libro del De Remediis, dopo che la prima sequenza

di lettere aveva parlato come faranno, nel primo libro, Gaudium e Spes. 2.3.1. L’urgenza del pianto (Fam. IV 10)

La prima delle quattro lettere citate è una piccola, esemplare orazione funebre, sebbene sia condotta sul registro dell’urgenza e non su quello della calma meditazione: il tempo della sua pronuncia essendo vicinis- simo all’evento luttuoso, la lettera non può che registrare il tumulto di un sentimento che minaccia di travolgere l’anima. Pensando ai due tempi della scrittura evidenziabili nel De excessu di Ambrogio, questa

96. Prolungato poi, nell’ambito letterario, dalle due lettere indirizzate a Giovanni d’Andrea (Fam. IV 15–16), rispetto alle quali la posta in gioco mi sembra ben più di una «garbata polemica» con un vecchio professore (come la legge la Antognini, Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., p. 147); credo invece che abbia ragione Ugo Dotti ad associare le due epistole alla laurea, nel libro delle Familiari che le è tutto dedicato: «tutta la vicenda non andrebbe probabilmente al di là di una sorta di alterco privato se non comprendessimo che ciò che Petrarca qui pone in gioco è proprio quel suo nuovo concetto di sapere, rigorosamente fondato e avvalorato di competenze, che la laurea appena acquistata aveva in certo modo avallato» (Nota introduttiva al Libro IV, in Petrarca, Le Familiari, cit., vol. I, p. 466). Ma si veda ora il saggio di M. Conetti,

Petrarca, Giovanni d’Andrea e il destinatario di ‘Rerum familiarum libri’ IV 15–16, «Petrarchesca», 2

(2014), pp. 39–47, che mette in discussione l’identità del destinatario delle due epistole. Un ulteriore motivo di compattezza del libro potrebbe essere ravvisato nella presenza di riferimenti a Plauto nelle ultime lettere del libro, IV 17–19, biglietti di tono più leggero ad amici, che si collegano per questo alle due precedenti, in cui Plauto era motivo d’avvio della polemica (cfr. ancora Antognini, p. 148).

lettera corrisponde dunque al primo, prossimo all’excessus e dunque più incline al planctus che alla consolatio.

Se ne può, in ogni caso, desumere una tripartizione, consistente nell’annuncio del lutto (§ 1), cui seguono il riflesso del lutto nella vita di chi scrive, ai cui occhi ogni bene terreno si svilisce per effetto di quella morte improvvisa (§ 2), e la ricerca di una consolazione (§ 3). Quest’ultima avviene in parte per merito della poesia: la lettera si chiude in effetti sull’epitaffio in versi sulla morte di Tommaso, chiesto e ottenuto dal fratello Pellegrino, a cui Petrarca sta scrivendo.

Converrà citarne per intero il lavoratissimo incipit, che trascorre dalla gravità oggettiva del colpo subìto alla misura soggettiva della ferita nel cuore di chi scrive; e dalla lode del defunto all’ammissione della sua morte, collocata alla fine del paragrafo, con opportuno e grave rallentamento e lungo iperbato:

Gravissimam querelam, epystole finibus non contentam, differre compulsus sum: non est usitatum animi mei vulnus aut vulgato medicamine relevandum; altius in precordia descendit. Observavit enim nocendi locum ac tempus et toto pondere ferox incubuit fortuna; Thomamque meum, nunquam michi sine lacrimis nominandum, eximio flore rare indolis virtutum fructus uber- rimos et magna rerum incrementa pollicitum, primo, ut sic dixerim, etatis vere preripuit. (Fam. IV 10, 1)97

La topica dell’esordio di modestia, già evidenziata nella consolatoria a Philippe de Cabassoles, muta di registro: se nella Fam. II 1 l’insufficienza risiedeva in chi aveva ardito prendere la parola, riconoscendosi subito co- me medico malato, ora l’annunciato, sofferto differimento della scrittura («differre compulsus sum») dipende dalla gravità del vulnus («Gravissi- mam querelam»), dall’esorbitanza della materia dunque, che eccede i limiti previsti per una lettera («epystole finibus non contentam»), e a cui l’autore pensa di poter porre rimedio solo attribuendole lo spazio che merita, proponendosi dunque di riservarle una sequenza di lettere, o un libro di mole opportuna (§ 3: «literis et iusto volumine consolari, propo-

97. [Questo mio angosciato dolore che non può chiudersi nello spazio di una lettera, sono costretto a differirlo: il mio cuore non ha mai provato una tale ferita né la posso curare con i soliti farmaci; essa è scesa troppo in profondità. La sorte è stata ben crudele nello scegliere il tempo e il luogo e nel colpire con tutto il suo peso; essa ha rapito nella primavera dell’età, se così posso dire, il mio Tommaso, lui che non potrò ormai più nominare senza piangere, e che dall’esimio fiore di un’indole rara prometteva copiosissimi frutti di virtù e grande splendore di cose].

situm est michi»). La lettera al vescovo di Cavaillon intendeva in effetti consolare l’amico, mentre qui Petrarca deve farsi consolatore di se stesso: la morte si impone dunque non più tanto come oggetto di riflessione morale, ma come esperienza viva, incisa nelle carni. Esperienza viva che richiede dunque una retorica diversa: il fatto che il lamento più doloroso si esprima nel più elegante latino, come è stato fatto notare,98è implicito nell’atto stesso di scrivere, dunque di comporre una pagina, soprattutto quando quella pagina subisce una rilettura per essere compresa in un libro di lettere; ma ciò non toglie che il filtro della retorica debba in ogni caso essere adattato alle singole esigenze espressive. Si aggiunga che, con tale espressione di un lutto che vince la scrittura, Petrarca poteva rappresentarsi fra coloro che furono vinti dal dolore a dispetto della loro filosofia, riaffermando la capacità della morte di vincere la tentazione della apatheia e dunque il possibile primato della morte stessa, come poteva leggere in Seneca: «haec tibi scribo, is qui Annaeum Serenum carissimum mihi tam immodice flevi ut, quod minime velim, exempla sim eorum quos dolor vicit» (ad Luc. 63, 10).

Il ‘nuovo inizio’ rappresentato da questa lettera, dopo quella lontana sorta di esercitazione retorica rappresentata dalla Fam. II 1, emerge anche dalle due citazioni comprese nel terzo paragrafo, che facendo menzione delle consolatorie di Cicerone e Ambrogio non rimandano in realtà a exempla, ma alla biblioteca minima necessaria a inserirsi nel genere, nella sua doppia facies classica e cristiana — e nella specifica- zione delle consolatorie rivolte a sé stessi —, facendolo proprio, e rinnovandolo:

Hanc acerbissimam fati vim deflere mecum et profundissimo simul vulneri meo paria, si possum, adhibere remedia meque ipsum meis literis et iusto volumine consolari, propositum est michi. Fecit hoc primus in morte dilec- tissime filie Marcus Cicero, divino ille quidem et inaccessibili quodam stilo; fecit idem multis post seculis in morte fratris Ambrosius; tentare libet, modo per occupationes liceat, quid in amici morte possit stilus humilior. (Fam. IV 10, 3)99

98. Lansing, Passion and Order. Restraint of the Grief in the Medieval Italian Communes, cit., p. 191: «Horrified grief at a particularly cruel death will elicit pages of classical erudition in elegant Latin prose» (l’autrice si riferisce proprio alla Fam. IV 10); insomma, non si può che concordare sul fatto che «The letters thus are not accounts of Petrarch’s immediate emotions or experience but rather reveal how he chose to portray his reactions to death over time», ma dovrebbe essere principio implicito in ogni comunicazione letteraria, in ogni testo.

Quanto al primus di cui è qualificato Cicerone, se, come osserva Ugo Dotti, esso allude al passo di Ad Atticum XII 14, 3 in cui Cicerone stesso, ricordando all’amico i giorni passati presso la sua casa, a Roma, nel tentativo di consolarsi della morte della figlia, afferma che nessuno prima di lui aveva mai scritto una consolatoria per sé stesso, bisognerebbe concluderne che la lettera, o perlomeno questo passaggio, dovette essere scritto dopo il 1345:100sebbene mi sembri più praticabile l’ipotesi che Petrarca possa aver semplicemente aggiunto l’aggettivo primus al momen- to di raccoglierla in volume. Ma in quelle medesime righe, Cicerone ricorda di aver passato in rassegna tutti gli scritti — greci — d’argomento consolatorio presenti nella biblioteca dell’amico («nihil enim de maerore minuendo scriptum ab ullo est quod ego non domi tuae legerim»).101 Petrarca salta il passaggio: l’«adhibere remedia» allude solo alla scrittura di consolatorie, e a una autoterapia (meque ipsum ... consolari) attuata attraverso la misura più discreta della lettera, alla quale è dunque affidato il compito primario di portare solamen a chi scrive, o alla misura più ampia del liber consolationis, il «volumen» cui accenna subito dopo.

L’altro elemento da sottolineare riguarda il contenuto della con- solatoria: nonostante i ripetuti accenni diminutivi, relativi alle forze insufficienti, all’«altro lavoro» che sempre incalza, alla modestia dello stile («si possum», «modo per occupationes liceat», «stilus humilior»), Petrarca sembra alludere a un rinnovamento del genere della consolatio quando stabilisce una sorta di gerarchia — in diminuendo, appunto — sull’oggetto delle consolatorie: la figlia per Cicerone; un fratello per Ambrogio; un amico per Petrarca. In realtà, vista nel complesso delle

Familiari, questa attribuzione a sé di un peculiare oggetto di pianto

rappresenta il primo passo verso l’innalzamento della consolatoria per la perdita di un amico a oggetto principe e identificante del personale discorso terapeutico di Petrarca, e soprattutto auto–terapeutico.

di trovare, se posso, rimedi adeguati a una così profonda ferita e di confortarmi con lettere e pagine di giusta misura. Cosa che per primo fece, in morte dell’adorata figlia e con quel suo stile divino e quasi inarrivabile, Marco Cicerone; che molti secoli dopo ripeté Ambrogio per la morte del fratello; io, se le occupazioni me lo consentiranno, tenterò di vedere quanto possa valere, in morte di un amico, il mio stile più umile].

100. Lettres familières, ed. Belles Lettres, vol. II, p. 434.

101. Sul complesso rapporto della consolatoria ciceroniana, desumibile dai frammenti per- venuti per via indiretta, con il primo e più famoso modello greco del genere, il Perì penthous dell’accademico Crantore, non potendo enumerare la bibliografia relativa mi limito a rinviare a Setaioli, La vicenda dell’anima nella ‘consolatio’ di Cicerone, già citato.

2.3.2. L’incidenza del ‘vulnus’ nella poesia

Ma torniamo all’incipit della lettera, tanto più interessante quanto più lo si osserva nella prospettiva della creazione di un corpus consolatorio all’interno dei libri delle Familiari, e del rapporto di questo con i

Rerum vulgarium fragmenta, tenendo presente, ma ci torneremo, che

nelle Familiari l’amicizia prende il posto di quell’ossessione conoscitiva che nelle rime ha per nome Amore. Se la lettera al vescovo di Cavaillon ha la funzione di prologo generale, quella al fratello di Tommaso si avvicina ai sonetti 2 e 3, ovvero a un inizio della storia che annovera come capitolo iniziale il ferimento dell’amante.

Il dolore per la ferita inferta dalla morte dell’amico occupa dunque le prime righe della lettera, denunciandosi da subito come impedimento alla scrittura in ragione della sua grandezza (è il già citato «Gravissimam querelam . . . differre compulsus sum»); ma sono le righe seguenti a stabilire un rapporto preciso con il sonetto 2, sia per quanto riguarda la discesa del dardo nel profondo del cuore («altius in precordia descendit», e cfr. Rvf 2, 7 «[i]l colpo mortal là giù discese»), sia per la descrizione dell’azione di Fortuna, che nelle Familiari assume un ruolo di dea o ministra esattamente sovrapponibile a quello ricoperto da Amore nelle rime (e dunque «Observavit enim nocendi locum ac tempus et toto pondere ferox incubuit fortuna», traduzione o fonte di Rvf 2, 3–4 «Amor l’arco riprese, / com’uom ch’a nocer luogo e tempo aspetta»).102 L’eccezionalità del colpo si ripercuote sul resto della lettera, come lo fa nel sonetto: dall’incapacità di «prender l’arme», armi che nella prosa latina sono quelle della scrittura (differita, come s’è detto) e dei “consueti farmaci”, consistenti nella filosofia della morte appresa sulle pagine dei classici (§ 1: «non est usitatum animi mei vulnus aut vulgato medicamine relevandum»: a smentire, subito, quella capacità della letteratura di prevenire il dolore che è stata ravvisata nella prima consolatoria),103 alla percezione di quanto la vita abbia fragili fondamenta, espressa

102. Traduzione o fonte, perché la stretta relazione tra i due luoghi citati non può non comportare un ripensamento della datazione del son. 2, normalmente ascritto al biennio 1348–49, ma forse, come già aveva intuito Marco Santagata, anticipabile di molti anni: se non al periodo di composizione della canz. 23, almeno all’inizio degli anni Quaranta appunto, se non proprio nel 1341, fermo restando che è difficile stabilire la direzione della relazione (cfr. F. Petrarca, Canzoniere, commento a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 20042, ad loc.).

103. Sono le conclusioni cui perviene Giuseppe Chiecchi al termine dell’analisi della Fam. II 1 nel suo La parola del dolore, cit., pp. 205–6.

con quel verbo (§ 2: «Video quanta rerum nostrarum firmitas») che nelle rime si attesta come espressione della conoscenza disvelata, esibita anche lì fin da subito (cfr. Rvf 1, 9 «Ma ben veggio or sì»), e subito legata a una visione chiara che solo l’esperienza della morte potrà conferire (nella prima parte delle rime: cfr. Rvf 32, 12–3 «sì vedrem

chiaro poi come sovente / per le cose dubbiose altri s’avanza»), e che

solo l’approssimarsi della morte stessa, misurato sull’invecchiamento del corpo, potrà rendere effettiva (nella seconda parte: cfr. Rvf 361, 8–9 «d’un lungo e grave sonno mi risveglio: / e veggio ben che ’l nostro viver vola . . . »).

La morte dell’amico ha dunque un potere traumatizzante che rischia di far soccombere il soggetto stesso: ed è precisamente questo l’og- getto della lettera successiva, indirizzata all’altro fratello di Tommaso, nella quale l’esibizione iniziale di una volontà di morte frustrata da un’imperfetta volontà (Fam. IV 11 a Giacomo da Messina, § 1: «Post Thomam meum, fateor, mori volui nec potui») è risarcita da una febbre

peroportuna che conduce Petrarca ad ipsum mortis limen, sebbene poi

un’iscrizione sulla porta stessa attesti che non è ancora giunto il suo momento. La stretta affinità della descrizione di questo viaggio alla soglia fatale con il son. 120 ad Antonio Beccari, databile alla primavera del 1344,104 è interessante perché getta luce sul motivo dell’accosta- mento di un sonetto di tono lieve e perfino scherzoso come il 120 alla grave canzone che lo precede. Guardando infatti al montaggio del libro IV delle Familiari, non sarà incongruo riconoscerne un’eco nella successione di Rvf 119 e 120, la canzone della Gloria corrispondendo infatti alla lunga sequenza dedicata alla laurea poetica, e il sonetto sulla propria morte scampata al biglietto con cui Petrarca lamentava con Giacomo da Messina questo inatteso rovescio di Fortuna dopo il

gaudium dell’incoronazione.

2.3.3. La consolazione differita (Fam. IV 12)

Un rovescio ancora più potente, del resto, attestano le due lettere suc- cessive, dedicate alla morte di Giacomo Colonna: la morte del membro più amato della potente casata fa da contrappeso alle replicate richieste di consilium che la prima parte del libro rivolgeva a lui e al fratello Gio-

vanni (risp. Fam. IV 6 e 4, 5, 9), riproducendo già nelle Familiari quella perdita del fondamento su cui si intoneranno i sonetti dedicati, nelle rime in morte, allo schiantarsi della ‘colonna del vivere’. Guardando allo strutturarsi del genere, si osserverà subito il presentarsi, nell’esordio della IV 12 a Giovanni Colonna, di quella topica excusatio che caratterizzerà poi più ampiamente l’altra, ritardatissima, consolatoria al Colonna, la VII 13. Giacomo Colonna è morto nel settembre del 1341, e solo il 5 gennaio, verosimilmente del 1342, Petrarca scrive a Giovanni. Se non è dato di indovinare il motivo del ritardo, certo se ne possono vedere i riflessi nella lettera, che nei primi due paragrafi congiunge la difficoltà patente della materia, espressa con un conflitto di passioni che è comune anche alla scrittura lirica petrarchesca (in un sistema a tre membri, con schema 2+1, in cui i primi due si contendono la scrittura, e il terzo cerca di arrestarla: «Urget dolor, hortatur caritas ut scribam aliquid; sola desperatio profectus dehortatur [...]. Vincet dolor? vincet amor? cedet desperatio?»), all’esempio antico che dovrebbe disinnescare un possibile moto d’impazienza del Colonna di fronte alle parole intempestive di Petrarca (la risposta sarcastica di Tiberio agli ambasciatori troiani venuti troppo tardi a condolersi per la morte del figlio Druso). Il tutto, con un avverbio che tenta di mascherare il lasso di tempo intercorso, o di considerarlo come annullabile dall’entità del dolore, dal momento che il «vulnus» subìto da Giovanni è qualificato di «recentissimum» (§ 1).

Che le due consolatorie a Giovanni Colonna debbano essere entram- be intempestive non sarà però accidentale; e se il ritardo della seconda lettera potrà essere addebitato a un divortium in atto, che dire del primo? Fatta la tara di una presentazione di sé, da parte di Petrarca, come già distante da Giovanni (e legatissimo, invece, al sempre assente, al sempre lontano Giacomo), si potrà attribuire tale divaricazione temporale alla