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In medium vite: la meditazione della morte nel Secretum In una pagina celebre del primo libro del Secretum, Agostino spiega

rappresentare e meditare la morte

1.2. In medium vite: la meditazione della morte nel Secretum In una pagina celebre del primo libro del Secretum, Agostino spiega

a Francesco che cosa voglia dire, per il pensiero della morte, «satis alte descendere» nell’animo, invece di rimanere una voce colta solo dall’orecchio, oggetto di «recordatio compendiosa» e di nominazione casuale o vanamente sentenziosa.56Lo fa spronando l’allievo a mettere in pratica una meditatio mortis che consiste nella acerrima meditatio della condizione del morente e delle sue membra: «defossos natantesque oculos, obtuitum lacrimosum, contractam frontem liventemque, laban- tes genas, luridos dentes, rigentes atque acutas nares, spumantia labia», e via discorrendo. Francisco Rico ha accostato questo «triste rosario de imágenes» dell’uomo in agonia alle pratiche, prescritte dagli statuti certosini, di presenza dei monaci, e soprattutto dei professi, al lavaggio e vestizione del cadavere del confratello,57 riconducendolo ai testi de

contemptu mundi. Mettendo infatti insieme questo passaggio, con i suoi

54. De remediis, II 119 De morte, 22 [disposto a considerarla, quando essa giungerà, come messaggera o ministra del suo liberatore, e a riguardarla, quando essa sarà passata, come una finestra da dove è scappato ai lacci del mondo e dal carcere della carne], ed. Fenzi cit., p. 319. 55. E sulla «fenestra» appunto da cui, nella canzone 323, avvengono le sei visioni di morte rimando a S. Stroppa, «Quid vides?». La canzone delle visioni e Ugo di San Vittore, «Lettere Italiane», 59 (2007), pp. 153–86.

56. Secretum, lib. I, 54–6 (ed. Fenzi cit., pp. 126–8).

57. Rico, Lectura del Secretum, cit., p. 90, nota 126, ripreso nella nota 95 di Fenzi al primo libro del Secretum, ed. cit., pp. 307–8.

dettagli macabri che non tornano, ad esempio, nelle Familiares, e la raffigurazione della Mietitrice nel primo Triumphus Mortis, si hanno le due punte indubbiamente più ‘medievali’ nella rappresentazione petrarchesca della morte. Punte che, per altro, Boccaccio evita nelle scene di morte di massa dell’inizio del Decameron: «con la stessa nettez- za con la quale non si avvicinò e non si soffermò sul macabro» nella raffigurazione della peste fiorentina, ha osservato Alberto Tenenti — secondo il quale la «compassione» verso i corpi degli afflitti si rivela in tale fuga dalla rappresentazione dello strazio fisico —, Boccaccio «non si rifece affatto alla personificazione della Morte».58 Certo la differenza deve essere imputata al genere letterario: Petrarca si avvale dell’immagine femminile solo in poesia; ma è indubbio che, per quanto riguarda il Secretum, l’insistenza sui dettagli del disfacimento corporale che attende l’uomo nel momento della morte, enumerati al fine di indurre la conversio, la mutatio animi, è fatto che discende da pratiche medievali assai attive e vivaci.59

Questo passaggio, con il suo incardinamento profondo nella conside- razione della realtà corporale della morte, è tuttavia solo un frammento di quella «indifferibile meditatio mortis, cuore vero di ogni filosofia morale», cui Agostino sprona Francesco,60 e della quale vorrei qui ricapitolare alcuni punti.

Per prima cosa, l’atteggiamento del meditante. Se l’avvio del Secre-

tum, è noto, molto deve ai Soliloquia agostiniani,61 è anche vero che la topica dell’atto di meditazione, per non parlare delle sue rappresenta- zioni iconografiche (si pensi alla miniatura della lettura meditante su cui si apre il Parigino latino 2540, appartenuto a Petrarca),62 ricorre

58. A. Tenenti, La rappresentazione della morte di massa nel Decameron, in Tod im Mittelalter, cit., pp. 209–20, a p. 212.

59. E rimando di nuovo alla discussione di Rico, Lectura del Secretum, cit., pp. 92–5. 60. E. Fenzi, Introduzione al Secretum a sua cura, cit., p. 17. Per una lettura complessiva del passaggio del primo libro del Secretum che terrò presente, rimando ovviamente a Rico,

Lectura del Secretum, cit., pp. 84 e ss.

61. Cfr. Rico, Lectura del Secretum, cit., p. 37, nota 112, con la bibliografia precedente. 62. Il codice contiene varie opere riguardanti le istituzioni ecclesiastiche: lo Speculum

de mysteriis Ecclesiae dello ps.–Ugo di San Vittore, varie opere di Hugues de Saint–Cher

o a lui attribuite (il De Confessione, lo Speculum Ecclesiae, la Expositio orationis dominicae, la

Expositio Symboli Apostolorum), la Summa de ecclesiasticis officiis di Iohannes Beleth, e i Dialogi di

Gregorio Magno. Il f. 1r [Incipit speculum ecclesie quod magister hugo de sancto victore composuit] ha il capolettera sulla D raffigurante un monaco in saio nero nell’atto di compiere una lettura meditante: è seduto davanti a un leggio, e legge da un grande codice con la mano sinistra

in testi significativi: il Monologion di sant’Anselmo mette in scena la figura del meditante «in persona alicuius tacite secum ratiocinando quae nesciat investigantis» (“nella persona di uno che ragionando in silenzio tra sé e sé vada interrogandosi intorno a ciò che non sa”), mentre il suo

Proslogion, o Alloquium, assume la forma della risposta sorta in mezzo

alla giostra dei pensieri, «in cogitationum conflictu». Nel De conversione, san Bernardo rappresenta icasticamente la conscientia come liber che consente di “revolvere” le infelicità passate, passandole in rassegna nei dettagli, e di riportare alla luce con la memoria la propria tristis historia, illuminandola grazie alla ragione ed esponendola chiaramente davanti agli occhi («Aperitur siquidem conscientiae liber, revolvitur misera vitae series, tristis quaedam historia replicatur, illuminatur ratio, et evoluta memoria velut quibusdam eius oculis exhibetur»).

A questo tipo di meditazione, l’umanista ancora in fasce pare ad- destrato non tanto o non solo dai modelli d’etica classica, come le senecane lettere a Lucilio che pure appaiono meditate e mellificate nelle Familiari, ma dalle forme di meditazione sviluppate ed esercitate negli ambienti monastici. La vicinanza di Petrarca con la Certosa, colti- vata per via della decisione del fratello Gherardo–Monicus di entrare in quella di Montrieux, induce a selezionare tra i testi possibili, per qual- che raffronto, quelli degli exercitia cellae dei certosini. Ne è capostipite il Liber de quadripertito exercitio cellae di Adam Scot, al tempo attribuito al priore Guigo II.63

appoggiata alla guancia — icona della meditatio, che andrà a coincidere con quella della

malinconia attraverso la sovrapposizione della raffigurazione della acedia — e la destra con

l’indice teso sulla riga del libro.

63. Sulla figura di Adam Scot si ebbe un fiorire di studi negli anni Trenta, soprattutto ad opera di André Wilmart (Magister Adam Cartusiensis, in Mélanges Mandonnet, Paris 1930, vol. II, pp. 145–61; Maître Adam chanoine prémontré devenu chartreux à Witham, «Analecta Praemonstratensia», 9, 1932, pp. 209–32; Les écrits spirituels des deux Guigues, in Id., Auteurs

spirituels et textes dévots du Moyen–Age latin, Paris, Bloud & Gay, 1932, pp. 217–60) e di

Marie–Madéleine Davy (La vie solitaire cartusienne, «Revue d’ascétique et mystique», 14, 1933, pp. 124–45). Più di recente, il Liber è stato fatto oggetto di una lunga analisi da parte di Francesco Palleschi (Les derniers écrits d’Adam Scot. Analyse linguistique et stylistique du «De

quadripertito exercitio cellae», Salzburg, Institut für Anglistik und Amerikanistik Universität

Salzburg, 2002, comprendente anche un’ampia introduzione monografica sull’autore), del quale si veda anche: Ricerche su Adam Scot, «Analecta Praemonstratensia», 40 (1964), pp. 17–40 e 206–62; ivi, 41 (1965), pp. 79–92; La solitudine e i quattro fiumi del Paradiso in Adam Scot, «Analecta Cartusiana», 130 (1996), 5, pp. 28–33; L’acédie dans l’oeuvre d’un prémontré devenu

chartreux au XIIe siècle. Adam Scot et le «Liber de quadripertito exercitio cellae», in Tristesse, acédie et médecine des âmes dans la tradition monastique et carthusienne. Anthologie de textes rares et inédits (XIIIe–XXe siècle), sous la dir. de N. Nabert, Paris, Beauchesne, 2005, pp. 61–83. Sui debiti

Che Petrarca potesse averne avuto conoscenza può essere argomen- tato da una minima spia testuale. Nel cap. v, che avvia una serie di cinque capitoli dedicati al de quiete cellae (la rubrica accolta dal Migne è De puritate contemplationis internae, quae ad cellae potissimum solitudinem

spectat), ricorre infatti un’espressione iperbolica di lode che potrebbe

costituire la fonte diretta dell’analoga sentenza con cui si chiude la prima terzina del son. 339: «Onde quant’io di lei parlai né scrissi, / ch’or per lodi anzi a Dio preghi mi rende, / fu breve stilla d’infiniti abissi». Occorre ricordare che i commentatori richiamano singole attestazioni del termine «stilla», come la parva stilla sermonis del libro di Giobbe o la gutta aque maris dell’Ecclesiastico;64 e che si trovano in Agostino, separatamente, i due termini su cui si libra il verso, sebbene poi nei suoi usi linguistici l’abyssus sia normalmente adibito a significare l’im- perscrutabile sapienza divina, la profondità dei suoi iudicia (secondo Ps 35, 7), mentre la gutta — in altri contesti, dedicati in maniera specifica al problema del tempo e dell’eternità del mondo — è quella, exigua o brevissima, della temporalità.65 Ma ciò che Petrarca mette a sistema, entro un sonetto tutto tramato di espressioni alludenti all’impossibilità di parlare,66 appartiene più propriamente al linguaggio degli spirituali.

contratti da Petrarca con la Scala claustralium di Guigo II nella costruzione del De otio religioso, si veda ora l’analisi dettagliata di R. Brovia, «Vacate et videte». Il modello della “lectio divina” nel ‘De

otio religioso’, «Petrarchesca», 1 (2013), pp. 77–92, a p. 86 e ss. Non parla che tangenzialmente

di Adam Scot il libro di D. S. Yocum, Petrarch’s Humanist Writing and Carthusian Monasticism.

The Secret Language of the Self, Turnhout, Brepols, 2013.

64. Entrambe dal commento di Rosanna Bettarini (Il Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, Torino, Einaudi, 2005, 2 voll., p. 1501, ad loc.).

65. «Quid abyssus» recita una postilla marginale petrarchesca alle Enarrationes in Psalmos: cfr. D. Coppini, Petrarca, i salmi e il codice Parigino Latino 1994 delle ‘Enarrationes’ di Agostino, in

Petrarca e Agostino, a cura di R. Cardini e D. Coppini, Roma, Bulzoni, 2004, p. 26. I passi

agostiniani addotti come «fonti» per la breve stilla di Rvf 339 da Giovanni Bárberi Squarotti in un suo recente studio («Breve stilla d’infiniti abissi». Verità, conoscenza e rappresentazione in

‘Rerum Vulgarium Fragmenta’ 339, in La ricerca della verità, a cura di P. De Gennaro, Torino,

Trauben–Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, 2010, pp. 225–33: 229) riguardano infatti strettamente la questione della temporalità: cfr. En. in Ps. CI, II 9: «totum hoc tempus . . . exigua gutta est comparata eternitati», e De civ. Dei XII 12 [ma: 13], in cui Agostino tocca il problema dell’eternità del mondo, e paragona il riposo di Dio prima della creazione dell’uomo al tempo finito, che per quanto lungo apparirebbe nulla a confronto di quello, «quanta si humoris brevissimam guttam universo mari . . . comparemus». Sono passi che si potranno dunque piuttosto allegare, per prossimità d’argomento, a De ignorantia, IV 132 («Unius enim diei, vel unius hore, ad mille annos sive ad mille milia annorum, sicut unius exigue stille levi imbre delapse ad omnem Occeanum, . . . aliqua tamen est comparatio et nonnulla proportio»). 66. Sulla topica dell’indicibilità mi limito a rimandare a G. Ledda, La guerra della lingua.

In un sermone, san Bernardo argomenta che il gaudium di cui in terra, a tratti, l’uomo ha vaga contezza non è che una piccola goccia di quello eterno, discesa dal fiume impetuoso di cui si avrà esperienza nella città di Dio («Quando conscindes saccum meum, Domine Jesu, et circumdabis me laetitia, ut cantet tibi gloria mea, et non compungar? Principium gaudii illius, quod hic quandoque sentimus, stilla est, guttula

est de flumine illo descendens, suius impetus laetificat civitatem Dei»).67 Nel Liber de quadripertito exercitio cellae certosino, l’immagine della stilla

parvula riguarda propriamente l’incapacità della lingua umana di pro-

nunciare una lode commisurata all’oggetto — nel suo caso, sono i beni racchiusi dalla contemplazione che si esercita nella quiete della cella —, e il secondo termine di comparazione, tutto compreso in una metafora d’acqua che oppone la stilla parvula al flumen latissimum, è dotato di quei superlativi che Petrarca renderà con «infiniti», recuperando forse, dal linguaggio agostiniano a lui ben familiare, la resa analogica del fiume con l’abyssus:

Et quando sufficienter quae in hac coeli aula sunt bona poterimus admirari, enarrare, collaudare? In tantum certe et omnem eorum et magnitudo mensu- ram, et multitudo excedit numerum, ut ad eorum immensitatem explicandam sic

aliqua lingua sit loquens, sicut est stilla parvula tenuiter cadens, ad flumen latissimum et profundissimum perenniter fluens.68

Nel cap. xix, il Liber espone il tipo di meditazione che «specialiter pertinet» all’«habitator cellae»: le movenze agostiniane dell’incipit (il «volvens . . . et revolvens» che si richiama direttamente all’inizio dei

grandissime cose»: protasi, invocazioni, indicibilità); e a B. Faes de Mottoni, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, Firenze, Sismel–Edizioni del Galluzzo, 2007 (cap. III, «Et audivit arcana verba, quae non licet homini loqui». Arcani, segreti e misteri nella teologia all’inizio del ’200: Roberto Grossatesta, Guglielmo d’Auxerre, Rolando di Cremona).

67. Bernardo, Sermo XIX de diversis, 7. Trascuro qui, perché il suo uso è completamente diverso, l’adibizione della stilla nella famosa metafora bernardina dell’unione a Dio: «Quomodo stilla aquae modica, multo infusa vino, deficere a se tota videtur, dum et saporem vini induit, et colorem; et quomodo ferrum ignitum et candens, igni simillimum fit», etc. (De diligendo

Deo, in PL 182, col. 990; l’immagine ricorre anche nel De gradibus charitatis di Riccardo di

San Vittore, in un passaggio che argomenta la virtus unitiva degli amanti).

68. Guigo II Prior Carthusiae, Liber de quadripertito exercitio cellae, in PL 153, col. 810, miei i corsivi [E quando potremo ammirare, narrare e lodare insieme, in modo adeguato, i beni che si trovano in questa stanza celeste? Di certo la loro grandezza supera la misura, il loro numero è senza numero, così che se tenta di spiegarne la loro immensità, la lingua riesce a parlarne come fa una piccola goccia che cade a poco a poco, rispetto a un fiume vastissimo e profondissimo che perennemente scorre (trad. mia)].

Soliloquia) cedono presto a una modalità non intellettiva ma memoriale

del pensiero, tesa cioè non a investigare che cosa sia la sapienza o a distinguere il vero dal falso, come nei due libri del dialogo agostiniano, ma a ricapitolare nella mente i tempi e i luoghi della vita passata, le intenzioni dell’animo e le sue debolezze:

Sedens itaque in cella tua recogita in amaritudine animae tuae annos et dies tuos; volvens intra te et revolvens quae et quanta et qualia mala, ubi et quando, qua voluntate et intentione, sed et quandiu sive in mente sive in carne tua commissisti.69

L’attitudine meditante, che comprende anche un’attenzione portata sulla posizione del corpo — «sedens in cella tua» —, è la stessa che Petrarca disegna nella figura ‘a specchio’ di Laura, nel son. 100 («e ’l sasso, ove a’ gran dì pensosa siede / madonna, e sola seco si ragiona»), che, come il testo monastico, suggerisce una meditazione effettuata nel chiuso di una mente concentrata nella clausura del corpo. È un’attitu- dine che, nel succedersi degli atti interni del meditante, delinea una viva mobilità del pensiero, al quale vengono richieste attività diverse in successione:

Cogita et recogita intra te, quam sis et mente et corpore infirmus, quam proclivis

ad vitia, quam invalidus ad virtutes, quam multis sis timoribus contractus, doloribus afflictus, erroribus vagus, curis anxius suspicionibus inquietus [. . . ], quam magnorum sis multorumque malorum molibus oppressus. Qualiter fere incessanter alien[er]is a te, dilanieris in te, dilacereris intra te, dissiperis extra te, deiiciaris infra te, et prosternaris subtus te, sed et inaniter eleveris supra te. [. . . ] Repraesentet tibi post haec in mente tua ipsa meditatio tua, quam terribilis sit ipse universae creaturae Conditor in consiliis super filios hominum [. . . ].

Statue post haec ante oculos considerationis tuae, ipsum animae tuae a corpore

egressum depingens modo intra te, quam terribilis tibi erit hora illa, et ideo non mediocriter etiam nunc metuenda quanta erit tunc, et in anima tua trepidatio, et in corpore tuo afflictio, quando duos istos (ut sic dicam) socios, qui simul aliquanto fuerunt (dico autem de corpore tuo et de anima tua) separabit ab invicem amara et inimica mors. Meditare nunc apud te, imo intra te,

69. Ivi, cap. XIX (De illo meditationis modo, qui in animo meditantis timoris gignit causam

et doloris, qui in octo modos dividitur), col. 832 [Così, sedendo nella tua cella, pensa e ripensa

nell’amarezza della tua anima agli anni e ai giorni tuoi, volgendo e rivolgendo fra te e te quanti e quali peccati hai commesso, dove e quando, con quale volontà e intenzione, ma anche quanto a lungo, sia nel pensiero che nel tuo corpo (trad. mia)].

quae tunc erit tibi in mente, non solum omnium quae in hoc mundo sunt rerum, sed et cunctorum charorum, amicorum et parentum oblivio.70

Misurare quanto questi testi abbiano influito su Petrarca, equivale a indagare su una forma mentis: «cogitare et recogitare» quanta sia l’infirmitas dell’uomo equivale, in questo testo e nella meditazione petrarchesca, soprattutto del Canzoniere, a pensare “quanto incessantemente tu riesca ad alienarti in te, a dilaniarti in te, a dilacerarti in te, a dissiparti fuori di te, a gettarti sotto di te, a prosternarti davanti a te e a innalzarti senza frutto sopra di te”; così come alle rime ‘in morte’ appartiene la considerazione che la morte “amara e nemica” separerà ab invicem, con distanza misurata da entrambi i lati, il corpo e l’anima; mentre è del

Secretum il «depingere intra te» quanto terribile sarà l’ora suprema, da

temere ora come allora.

E torniamo, appunto, al Secretum: nel cui avvio l’apparizione della Verità si impone prima a Francesco «cogitans qualiter in hac vitam intrassem, qualiter ve foret egressurus», poi alla «meditatio profundis- sima» di Agostino. Il dialogo si svolge interrompendo la felicità e il frutto della sua taciturna meditatio, mettendo in voce il silenzio del maestro. Le prime righe del primo libro mettono poi in scena come primo gradino della conoscenza di sé l’«alta et fixa meditatio» della propria miseria, e della morte, mentre il ruolo di Agostino si fissa da subito come quello di un maestro di pensieri. Il suo primo monito riguarda la recordatio mortis, come parte di quella memoria futuri su cui si fonda una parte essenziale della meditatio morum: per portare frutto, il pensiero della morte non deve serpeggiare lievemente sulla superficie dell’intendimento, ma penetrare in profondità, farsi carne nella carne, aderire alle midolla («modo non leviter, aut superficietenus serpat, sed in ossibus ipsis ac medullis insideat»).71 Le insufficienze di Francesco sono ravvisate in primo luogo nella sua incapacità di pensare. Ancora si può rinviare ai testi che fondano la spiritualità certosina: nella celebre

Scala claustralium, o Lettera sulla via contemplativa, a lungo attribuita ad

70. Ivi, coll. 832–833 (miei i corsivi, a scandire la successione delle varie fasi della meditazione).

71. Secretum, lib. I, ed. Fenzi cit., p. 100. Petrarca, insomma, «non parla di riflessione sulla morte, ma di meditazione della morte, ovvero fa riferimento a un’azione dell’intelletto intimamente legata a un profondo coinvolgimento dei sensi e dell’immaginario mnemonico» (A. Torre, Petrarcheschi segni di memoria. Spie, postille, metafore, Pisa, Edizioni della Normale, 2007, p. 110).

Agostino, che alla fine del XII secolo codifica il fenomeno della lectio

spiritualis «facendone la pratica contemplativa ondamentale nei cenobi

fino almeno alla fine del XV secolo», Guigo II descrive appunto una «meditazione attenta» che «non resta all’esterno, non si arresta alla superficie, ma mette il piede oltre, penetra nell’intimo, scruta ogni dettaglio».72

La meditazione, o riflessione, fa parte del cursus stesso di attività necessarie all’uomo di lettere, riassumibile nella serie «legendo scri- bendo meditando imitando» alla quale Petrarca narra di aver iniziato il giovane, e poi ingrato e fuggitivo, Giovanni Malpaghini (Sen. V 5, 2): attività strettamente connessa alla lettura, in tale doppia dittologia, come l’imitatio è connessa alla scrittura; ma che non risulta sufficiente quando, in luogo della scrittura cui risulta finalmente funzionale, si pensa alla meditatio morum e dunque alla crescita di sé.

Nel Secretum, la prima forma di meditazione in cui le sue stesse parole mostrano un Petrarca rudis è quella che nasce dalla lettura: le rampogne di Agostino alle prime proteste dell’allievo mostrano che quanto vi è di grossolano in quelle risposte discende dall’incapacità di Francesco di leggere correttamente gli auctores, e dunque — la memoria essendo inestricabilmente connessa con la qualità della lettura — di mandare a mente le sentenze salutari. Il maestro si propone anche come modello, se è vero che i testi agostiniani, ‘libri di libri’, di quelle stesse sententiae sono depositari e latori: «si illas philosophorum veras saluberrimasque sententias, quas mecum sepe relegisti, memorie