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Il settimo libro

Il pensiero della morte nelle Familiari: le consolatorie

2.4. Il settimo libro

Coincidendo in gran parte con l’annus horribilis 1347, minuziosamente delineato da una serie di epistole la cui estensione temporale si riduce sensibilmente rispetto ai precedenti — l’avvicinarsi della raccolta agli anni in cui essa inizia a essere pensata come tale induce un rallentamento del tempo raccontato118—, il settimo libro delle Familiari è di complessa costruzione. Il corpus consolatorio vi incastona due dei suoi capitoli più pregnanti, le lettere 12 e 13, recando temi e argomenti (i rovesci di Fortuna, le vicende dei Colonna) che oltre a proseguire il discorso proprio al genere, ben si addicono alle ragioni e alla struttura del libro: il quale, come non sarà inutile ricordare, comprende nella sua prima parte diverse missive che ruotano intorno all’atteggiamento di Petrarca nei confronti dell’impresa romana di Cola di Rienzo, che le Familiari trattano soltanto per la parte dell’allontanamento e presa di distanza dal tribuno.

Uno dei capitoli più difficili della vita di Petrarca appare qui prepa- rato molto da lontano. Si inizia con le lettere 1 e 2, rispettivamente

dedicate a Barbato da Sulmona sulla discesa delle truppe ungheresi in Italia, a seguito dell’assassinio del re Andrea (Deploratur patrie sue

vastitas ab incursu ferocium barbarorum), e a un non meglio identificato

amico, sulla vera umiltà (De vera humilitate non contemnenda): lettera che avrà poi in certo modo un’eco nella successiva, inviata ad Avignone al suo Socrate e destinata ad argomentare, insieme al racconto di un sogno, la predilezione petrarchesca per una povertà dignitosa e dedita agli studi (Visio nocturna, et otiosam paupertatem solicitis divitiis preferenda). La Fam. VII 3 è probabilmente del gennaio 1343, quindi estranea allo specchio cronologico del libro: ma è evidentemente collocata qui per motivi di convenientia strutturale e tematica. Lo scenario delineato da queste tre lettere si può riassumere nella polemica verso un’impresa, quella di Cola, che tra le numerose colpe di cui si sta macchiando annovera quella di appoggiare l’ennesima discesa di stranieri in terra italica, accostata alla presentazione di sé, da parte di Petrarca, come di colui che ha definitivamente scelto gli studi e la solitudine come fuga dalle tempeste della storia.119 Tema classico, quello del filosofo che si costituisce nella fuga solius ad solum — e di cui Giorgio Agamben ha mostrato di recente il portato politico120—, ma che qui viene declinato secondo i due termini–chiave di humilitas e paupertas, riferimenti non troppo velati alle due opere, il De otio religioso e il De vita solitaria, cui Petrarca mette mano appunto nel biennio 1347–48.

La fuga si insinua nel finale della lettera successiva, la VII 4: la risposta a Giovanni Coci da Tricastro che gli chiedeva di mettere in ordine e declarare le opere di Cicerone si chiude con una rappresentazione di sé come «solivagus» nella natura (e se è vero che Solo e pensoso è anteriore al 1337, secondo le ipotesi di Wilkins, Petrarca qui — nel novembre 1347, alla vigilia della partenza per l’Italia — traduce se stesso: cfr. Fam. VII 4, 6 «inter montes et nemora, inter fontes et flumina», con Rvf 35, 9–11 «sì ch’io mi credo omai che monti e piagge / e fiumi e selve sappian di che tempre / sia la mia vita, ch’è celata

119. La VII 1 a Barbato è dell’11 settembre 1347: il 9 settembre dello stesso anno, Petrarca supplica Clemente VI di potersi ritirare a Montrieux, con un atto che va interpretato alla luce del preciso frangente storico: cfr. E. Fenzi, Per Petrarca politico: Cola di Rienzo e la questione

romana in «Bucolicum carmen» V, ‘Pietas pastoralis’, «Bollettino di italianistica», n.s. 8 (2011), 1,

pp. 49–88, a p. 59.

120. Cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Vicenza, Neri Pozza, 2011, sopr. pp. 65–78 (Fuga dal mondo e costituzione).

altrui», tradotto anche in De vita solitaria, II 15: «Illis therme, fornices, atria, popine; nobis silve, montes, prata, fontes placeant»),121 vita solitaria che ha una implicazione tutt’altro che romantica, bensì politica, se è funzionale, come dice il congedo della lettera, a «preterita oblivisci [. . . ] et presentia non videre», ovvero a distaccare lo sguardo da ciò che sta accadendo a Roma. Proprio questo libero sguardo è ciò che la lettera successiva dichiara impossibile: da tre giorni, scrive Petrarca, non dorme, pensando alle «multa in faciem et in tergum curanda». La lettera, del resto, ha come seconda parte della rubrica de sinistris

rumoribus actuum Tribuni urbis Rome, e come effetto dell’arrivo di quelle

notizie, di nuovo lo sguardo occupato dalle calamità: «Fatum patrie agnosco, et quocunque me verto, dolendi causas materiamque reperio» (VII 5, 6: lettera datata 22 novembre 1347, in viaggio per l’Italia).122 Tra questa lettera e quella a Cola di Rienzo, indignatio precibus mixta (VII 7), ancora una dichiarazione di libertà, congiunta con l’elogio di una mediocritas eletta a scudo dai tormenti del presente, anche politici: «Pauper esse malim quam solicitus» (VII 6, 4: lettera del 25 novembre, ancora in viaggio). E dopo la lettera a Cola, che si trova dunque stretta tra due dichiarazioni apertamente contrastanti con la sua politica, viene l’elogio rivolto a Giovanni Aghinolfi da Arezzo per aver assicurato una «blanda serenitas» e una «pax predulcis» alla sua città (VII 8, 1): lettera probabilmente del 1352, ma che nel montaggio del libro si oppone patentemente alla reprehensio a Cola mostrando un esempio positivo di politica volta allo stabilimento della pace attraverso l’uso corretto, a tempo opportuno, della fortuna (§ 2: «Utendum fortune muneribus, non fidendum»).

Il libro è dunque bipartito. Le prime nove epistole risultano dedicate all’impresa di Cola e al suo risuonare nella vita di Petrarca, compresa la chiusura rappresentata dalla VII 9, Apertae inicimitiae occultis odiis

preferendae, forse fittizia ma comunque estrapolata dal suo contesto, con

la quale Petrarca sembra voler prendere atto del divortium che si sta

121. F. Petrarca, De vita solitaria, a cura di M. Noce, intr. di G. Ficara, Milano, Mondadori, 1992, p. 344 [Siano gradite a loro le terme, i bordelli, i palazzi, le taverne; a noi invece i boschi, i monti, i prati, le sorgenti] (ma bisognerebbe tradurre: “selve, monti, piagge, fonti”). Questo secondo rinvio compare nel mio commento al Canzoniere, mentre né dell’uno né dell’altro testo latino si fa menzione nei commenti moderni.

122. [Conosco i destini della patria, e dovunque mi volgo trovo ragioni e argomento di dolore].

consumando sia con Cola che con i Colonna elogiando le inimicizie palesi al di sopra degli odî nascosti.

Le altre nove epistole si staccano da questo primo gruppo compatto, annoverando una seconda parte all’insegna della variatio (lettere 14–18) a una prima sequenza dedicata alla morte (lettere 10–12, attesa e morte di Franceschino degli Albizzi; lettera 13, morte dei fratelli e nipoti di Giovanni Colonna). Le epistole luttuose si ritrovano dunque anche qui divise tra la sfera pubblica e quella privata, come avevamo visto per il libro IV: partizione tanto più emblematica a questa altezza, ovvero a una data in cui il rapporto con la casata romana è stato scosso dall’appoggio petrarchesco al tribuno Cola, e la comunità degli amici si presenta come unico rifugio alle tempeste della storia, ma immediatamente travolto e decimato dalla peste. La catastrofe che si abbatte sui due fari di Francesco — Roma, e gli amici — ben si può riassumere nella corrispondenza circolare tra due diluvi, quello delle armate straniere che fa da sfondo alla prima lettera del libro VII, nella quale, scrivendo a Barbato da Sulmona, Petrarca deploratur patrie sue

vastitas ab incursu ferocium barbarorum (da Avignone, 11 settembre 1347),123 e quello appunto della pestilenza, dopo la quale la vita e i libri di Petrarca non ospiteranno che croci: ne parla, con lieve arretramento rispetto alla prima posizione, la lettera seconda del libro IX, a Ludovico di Beringen, che ospita la commemoratio premissorum ac superstitum amicorum. 2.4.1. La morte di Franceschino degli Albizzi (Fam. VII 12)

Il planctus sulla morte di Franceschino degli Albizzi (Fam. VII 12,

Ad eundem [Iohannem Anchiseum], de expectati amici morte conquestio),

il «Franceschin nostro» pianto nelle rime in morte (Rvf 287), datato nella versione originale Parma 11 maggio e da attribuire al 1348, entra in tale tessuto complesso e coeso secondo un’altrettanto complessa articolazione di temi. Richiamo brevemente le questioni di datazione reciproca del dittico VII 11–12. La Fam. VII 11 a Giovanni dell’Inci- sa, adventantis amici fama, nella versioneα porta la data del 10 aprile,

dalla Badia di Valserena vicino a Parma, e annuncia l’ansiosa attesa del prossimo arrivo di Franceschino degli Albizzi, amico di Petrarca e parente alla lontana, che da Parigi era andato a cercarlo ad Avignone

e poi, non trovandovelo, si era rimesso in viaggio per raggiungerlo a Parma. La lettera successiva allo stesso destinatario, de expectati amici

morte conquestio, annuncia con strazio la notizia della morte di France-

schino per peste a Savona, contraddicendo la sua morte tutte le attese espresse proprio il giorno prima (VII 12, 15: «quod ad te pridie brevi quadam epystola dixeram»). Vittorio Rossi reperisce e pubblica però la redazioneγ della seconda lettera del dittico, datata Parma 11 maggio e

recante un testo sensibilmente diverso in corrispondenza del paragrafo 15 sopra citato, nel quale tra l’altro non compare la menzione della lettera inviata pridie. Rossi, seguito poi con ampiezza di ragionamenti da Enrico Fenzi, ne inferì il carattere fittizio della prima lettera del dittico, «la breve epistola gioconda» che annunciava come assai prossi- mo l’arrivo dell’amico, collocata poi prima della VII 12 «per ottenere un effetto di chiaroscuro, contrapponendo alla gioia dell’aspettativa il lutto improvviso della notizia ferale».124

E in effetti la successione delle due lettere rende più evidente e clamoroso il colpo della Fortuna, sul quale vorrei soffermarmi.

Il primo grido del lutto, espresso da chi attendeva da un minuto all’altro l’arrivo dell’amico e riceve invece la notizia della sua morte (§ 1: «O spes mortalium fallax, o cure supervacue, o labilis status! nichil hominum tranquillum, nichil stabile, nichil tutum»),125 è tema onnipresente nell’opera petrarchesca, oltre ad addentellarsi con rinvii sottili alle due epistole che lo precedono (e alla declinazione politica di VII 8, 2: «Utendum fortune muneribus, non fidendum»). Il Trionfo dell’Eternità ne riprende i termini in incipit: «Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi / stabile e ferma, tutto sbigottito / mi volsi al cor, e dissi: — In che ti fidi?» (vv. 1–3).126 Ma l’assedio che Petrarca denuncia

124. Cfr. Fenzi, Petrarca e la scrittura dell’amicizia, cit., pp. 555–7, con citazione di Rossi. Per l’identità dell’amico morto, e la sua figura di poeta, cfr. D. Piccini, Franceschino degli

Albizzi, uno e due, «Studi Petrarcheschi», n.s. 15 (2002), pp. 129–86. Sul migrare, nelle lettere

del lutto, dell’espressione oraziana Anime dimidium, annotata da Petrarca sui margini del suo Orazio Laurenziano, cfr. M. Petoletti, Petrarca e i margini dei suoi libri, in Di mano propria:

gli autografi dei letterati italiani. Atti del Convegno internazionale di Forlì, 24–27 novembre 2008,

in collaborazione con il Dipartimento di italianistica dell’Università di Padova, a cura di G. Baldassarri . . . [et al.], Roma, Salerno Ed., 2010, pp. 93–122, alle pp. 105–6.

125. [Quanto ingannevole è la speranza dei mortali, quanto inutili sono le loro preoccupa- zioni, quanto caduca la loro sorte! Nulla c’è di sereno per l’uomo, nulla di stabile, nulla di sicuro].

126. Per il canzoniere si vedano i riferimenti addotti in nota da Ugo Dotti, non a caso tratti dalle rime in morte (Rvf 290, 5 e 294, 14), in eco a Cicerone, De orat. III 2, 7: «O fallacem

nella seconda parte di questo stesso primo paragrafo della lettera ha riflessi precisi nelle rime del Canzoniere, a delineare un sottotesto che innervando alcuni punti della prima sequenza delle rime in morte le sottrae a una interpretazione intonata al ritorno perenne degli stessi temi, in Petrarca, per indirizzarle verso una loro specificità luttuosa.

Alla mancanza di un porto sicuro sopra citata («nichil tutum») fa seguito, nella lettera, il tema topico del giusto assediato dai mali: «hinc fortune vis, hinc mortis insidie, hinc fugacis mundi blanditie: undique circumvallamur miseri» (§ 1),127 che transita qui dai salmi penitenziali, se si devono considerare composti intorno al 1347–48 (cfr. Psalmi

penitentiales VI 1: «Circumvallarunt me inimici mei»).128La struttura tripartita e la metafora bellica si ritrovano nel son. 274, con riduzione delle blanditie mundi ad Amore (vv. 1–4: «Datemi pace, o duri miei pensieri: / non basta ben ch’Amor, Fortuna e Morte / mi fanno guerra intorno e ’n su le porte, / senza trovarmi dentro altri guerreri?»), a delineare dunque uno stato che colloca la “guerra” interiore su uno sfondo luttuoso. Pur essendo sintomatica di uno stato non pacificato che attraversa l’intero canzoniere, la “guerra” va dunque valutata, di volta in volta, come espressione se si vuole ‘monolinguistica’ di un’ampia escursione di significati. La consonanza con l’epistola prosegue poi lungo i versi. Si consideri l’apostrofe al cuore ospitata dalla seconda quartina in poi, in eco a quella, incipitaria, rivolta ai “duri pensieri”: «E tu, mio cor, ancor se’ pur qual eri, / disleal a me sol, che fere scorte / vai ricettando, e se’ fatto consorte / de’ miei nemici . . . » (vv. 5–8). Il ritorno di agenti ben noti (il cuore, i nemici) e di formule in parte stereotipate non deve far velo al fatto che, qui, l’accusa al cuore si sostanzia del riconoscimento di una sua immobilità, passibile d’accusa di connivenza con i nemici, che alla luce della Fam. VII 12 è interpretabile come incapacità di mettere a frutto le esperienze vissute per costruire una conoscenza della Fortuna che non sia labile, e presta a passare di mente:

hominum spem!» (Le Familiari, cit., vol. II, 2007, p. 973); per il Triumpus Eternitatis si veda l’ed. a cura di M. Ariani, che riporta in nota a «stabile» l’esordio della Fam. IV 12 (Milano, Mursia, 1988, p. 391).

127. [da una parte la violenza del destino, dall’altra le insidie della morte, dall’altra ancora le lusinghe del mondo che fugge: dovunque siamo assediati dall’infelicità].

128. L’esordio della Fam. VII 12 è citato a riscontro dell’incipit di Ps. pen. VI anche da Roberto Gigliucci, nell’edizione a sua cura (F. Petrarca, Salmi penitenziali, Roma, Salerno Ed., 1997, p. 74 nota 1).

Totiens frustrati, totiens ludibrio habiti, sperandi consuetudinem et milies elusam credulitatem nescimus exuere; tanta felicitas, licet false, dulcedo est! «Heu demens, heu cece rerumque oblite tuarum» quotiens mecum dixi, «vi- de hic, nota, attende, subsiste, recogita, imprime signum fixum, mansurum indelebile; memento fraudis huius et illius; nichil unquam speraveris, nichil credideris fortune: mendax est, varia levis infida; priora eius blanda et mitia, posteriora eius acerbissima nosti. [. . . ]». Hoc decreveram, hoc mente firma- veram; at post tam virile propositum, ecce rursus quam muliebriter, quam inepte decidi. (Fam. VII 12, 1–3).129

Il sonetto 274 imputa al cuore di continuare a essere se stesso, con- tinuando ad accogliere chi opera per suo danno: l’esperienza stessa del danno non è valsa a scuoterlo, a mutarne l’orientamento. Nella lettera, l’accumulo dei verbi tecnici dell’attività postillatoria (vide hic,

nota, attende, imprime signum) mostra quanto l’Io tenti di scuotere l’i-

nerzia della volontà e della mente attraverso il replicato tentativo di costituire una sorta di ‘sapienza della Fortuna’ che si possa imprimere tanto profondamente nella memoria da non essere cancellata dalle speranze risorgenti, sempre pronte a blandire i pensieri e a dare nuovo ricetto a una proiezione di sé nel futuro basata sul desiderio: quella costruzione di un futuro, immaginato e finanche sognato, che viene appunto frustrata dalla morte improvvisa dell’amico che sta giungendo, quando già Petrarca se lo immaginava con un piede sulla soglia di casa. Il passaggio dell’epistola potrebbe agevolmente essere collocato in eser- go al De Remediis, ancora di là da venire, sia per il tentativo di imprimere

signum, di costruire un manuale articolato e schematico sui colpi di

Fortuna da tenere sotto mano e imprimere nella memoria, sia per la frustrante impossibilità di Ratio di smuovere, con i suoi argomenti, un’interiorità di passioni ferme sulle proprie posizioni.

Additato questo a tema portante, la lettera si ritrova strettamente connessa con la prima di questa sequenza destinata a Giovanni dell’In-

129. [Pur tante volte colpiti e tante volte ingannati, non sappiamo spogliarci dell’abitudine alla speranza e della credulità mille volte disillusa, tanta è la dolcezza della felicità, anche se falsa! Quante volte ho detto tra me: “Stolto, cieco, immemore del tuo destino: sta bene attento, bada, considera, fermati, rifletti, tieni bene a mente, non scordarti mai; ricordati di questo e quest’altro inganno; non sperare mai più, non ti affidare alla fortuna: è menzognera, volubile, incostante, infida; hai sperimentato come di fronte sia lusinghevole e carezzevole e come da dietro colpisca con asprezza”. Questo avevo deciso, questo avevo fermato nella mente, e dopo un proposito così coraggioso, ecco che sono di nuovo caduto nella mia debolezza e nella mia stoltezza].

cisa, la Fam. VII 10, che la rubrica intitola alle speranze deluse (de spe

caduca). Sebbene, come abbiamo annotato, la lettera apra di fatto la

seconda parte del libro VII, la riflessione sull’esperienza della perdita che vi si trova svolta agisce da legame con la prima parte: non foss’altro che per il fatto che oggetto del ragionamento è, di nuovo, Cola di Rienzo. Anzi, a dire il vero l’oggetto è duplice, perché alle speranze perdute relative a Cola la lettera associa il rischio di perdere un benefi- cio ecclesiastico cui Petrarca mostra di tenere in modo particolare (il ricco priorato di San Nicola di Migliarino, conteso al poeta da altro pretendente: la causa si sta discutendo in curia, annota Petrarca). La parificazione dei due oggetti fa sorridere: accostare l’evento che aveva scosso la vita politica italiana alla conquista di una privatissima fonte di denaro non è proprio, diciamo, cosa che si potrebbe attribuire a magnanimità e altezza di vedute. Ma Petrarca tratta i due impari og- getti abbassando la portata del primo e innalzando quella del secondo: ciò che gli preme, è rubricarli entrambi sotto l’etichetta dei ‘colpi di fortuna’, che scuotono la vita dell’uomo in modo quantitativamente diverso, qualitativamente analogo. L’eventuale rinascita di Roma e l’ot- tenimento di un beneficio ecclesiastico valgono entrambi per ciò che insegnano all’uomo, per la loro portata esperienziale che il soggetto deve imparare a trasformare in sapienza.

Per questo gli ultimi quattro paragrafi della lettera sono costellati di espressioni relative all’insegnamento recato dall’esperienza (mentre a noi risuona nell’orecchio il replicato “ho imparato” di Renzo, alla fine del romanzo): «scio», «scio», «et tamen expertus loquor», «adipiscendo cognoscimus» (§ 7); «ut . . . edoctus agnoscerem» (§ 8); «paratus est animus», «didici», «intelligo» (§ 9); «hanc sequi disposui» (§ 10). E qual è l’oggetto dell’esperienza così replicata? che le speranze, seppur

inanes per statuto, hanno il potere di ferire in profondità, e con dolo-

re, quando cadono; e che dunque occorre non cedere mai alle loro lusinghe; e che si tratta di arte da imparare per forza d’esperienza e di filosofia: «didici quibus artibus caduce spei vulnus eluditur» (§ 9).130In questo contesto, assume un valore radicalmente diverso da quello che ricopre nel trattato latino l’espressione «Eant igitur res utcunque» (§ 9),

130. [Ho imparato con quali arti si evitano le ferite della caduca speranza]: ma le “arti” allu- dono a un insieme di tecniche atte a prevenire le ferite e il dolore, consistenti nel circoscrivere e limitare il valore di ciò che si spera di conseguire.

assai simile a quella con cui si concludono le battute di Agostino nel

Secretum: «Sed sic eat quando aliter esse non potest». Ma lì è, appunto,

un’ammissione di desolata resa all’ultimo «sed» di Francesco, che fa ricadere la discussione nella lis antiqua, nell’insufficienza della volontà; nella Familiare, invece, l’eant res segna l’indifferenza dell’animo ben costruito e ben sperimentato ai colpi che gli provengono dall’ester- no: «Eant igitur res utcunque, modo ego non movear», proclama con fermezza Petrarca.

Ma torniamo alla Fam. VII 12, che è così ricca di echi per il lettore del Canzoniere. Nell’invettiva contro Savona, «nocens et impia» perché lì è morto Franceschino, «anime mee dimidium», durante il viaggio che doveva condurlo all’amico, Petrarca le imputa l’incumbere «violen- ter» sul corpo del morto; ma solo sul suo corpo: «Ipse enim abiit, te licet invita; nichil in illum iuris habes, corpus tantum illius et spem meam simul obruis» (§ 17).131La frase disegna però una rete di rapporti complessi, ove ipse e illum indicano l’integrità della persona rappre- sentata dall’anima, che se ne è andata — e si è sottratta così al potere della città impia — distaccandosi da quel corpo sul quale ora, solo, ha