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All’inizio: Eletta e Magone

rappresentare e meditare la morte

1.1. All’inizio: Eletta e Magone

1.1.1. «Parens dulcissima»: la vista del cadavere materno

Inviando, nel maggio del 1352, una consolatoria a Gui de Boulogne per la perdita della madre, Petrarca riferisce di trovarsi ad affrontare questo particolare tipo di discorso per la prima volta, con una sola significativa eccezione. La Fortuna, scrive, mi ha reso dotto in ogni genere di dolore, ma tra tutti coloro che amo o venero, a nessuno si

9. [La morte ci viene incontro da ogni dove, e dovunque andiamo / essa prepara mille lacci e reti nel mezzo del cammino]: Buc. carm. IX, 85–6, trad. Canali cit. infra, p. 153.

10. «Quante volte per te, spietata morte, / stancar gli occhi e lo stil, quante degg’ io / mescer lacrime ai versi, e versi al pianto. / Oh prole umana: oh sovra tutte acerba / sorte di un viver lungo! i volti esangui / de’ cari tuoi veder tra’ sassi; il crine / lacerar tante volte, il crin caduco; / e vedova condur l’ultima etate, / lungamente morendo» (in Petrarca nel tempo, a cura di M. Feo, cit., p. 305, con riproduzione dell’autografo leopardiano a p. 306, e bibliografia di riferimento).

era finora reso necessario offrire conforto per un tal genere di vulnus, se non a me stesso nella prima parte dell’adolescenza (cfr. Fam. XIII 1, 2).11 L’accenno discreto allude all’eccezione di cui sopra, ovvero al panegirico In funere matris, poi raccolto come Epyst. I 7, il «funereum . . . cantum» dedicato alla madre Eletta: versi latini che rappresentano, almeno nella versione γ, la prima prova poetica petrarchesca di cui

siamo a conoscenza, se è verosimile che siano stati composti a stretto contatto con la morte della madre, avvenuta nel 1318 o ’19.12 Collocato al centro del primo libro delle Epystole, che risulta dunque tutt’altro che disposto in ordine cronologico, il carme vi si trova stretto tra due lettere, indirizzate rispettivamente a Giacomo Colonna e al suo

11. Cfr. F. Lo Parco, Il Petrarca e la famiglia dopo il suo primo ritorno in Avignone, «Rassegna critica della leteratura italiana», 11 (1906), 1, estratto pp. 1–17, a p. 7. Sulla lettera a Gui de Boulogne si veda ora D. Bersano, «Hoc unum stilo meo deerat»: la ‘Fam.’ XIII 1, «Petrarchesca», 1 (2013), pp. 135–40.

12. Arnaldo Foresti dedicava la maggior parte di un suo saggio sull’epistola a confermare la tesi di Isidoro Del Lungo circa la sua composizione a stretto contatto con la morte di Eletta Canigiani, confutando l’ipotesi del Lo Parco che voleva i versi composti quattro o cinque anni dopo, al ritorno da Bologna (cfr. A. Foresti, In funere matris, in Id., Aneddoti della vita di

Francesco Petrarca. Nuova ed. corretta e ampliata dall’autore, a cura di A. Tissoni Benvenuti, con

una premessa di G. Billanovich, Padova, Antenore, 1977, pp. 13–7, a p. 13). Riguardo al titolo, annoto qui che l’edizione Rossetti porta il titolo di Panegyricum in funere matris (Francisci Petrarchae Poemata minora / Poesie latine del Petrarca . . . volgarizzate. . . , Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1834, vol. III, pp. 100–5), ricordando che in varie edizioni antiche si trova Breve panegyricum defunctae matris (ivi, p. 243, nota 19; ma la tradizione non è concorde, se l’edizione cominiana del 1732, cui pure Rossetti rinvia, reca Carmina Petrarcae in

Funere Electae Matris), mentre nei manoscritti laurenziani non c’è generalmente indicazione di

titolo (Laur. XXXIII 30, f. 17v, testo α; Laur. Acquisti e doni 687, f. 15v, testo α; Laur. XXVI sinistra 3, f. 14v, testo α con qualche infiltrazione da γ), fatta eccezione per il Laur. Strozz. 141 (testo γ), f. 76v, che porta l’intitolazione Eiusdem versus in funere matris sue (e ringrazio Enrico Fenzi per i controlli effettuati). Ignoro dunque da quale fonte abbia attinto Elena Giannarelli la forma pangerycum ricorrente nel suo ampio studio sull’epistola (E. Giannarelli, Fra mondo

classico e agiografia cristiana: il ‘Breve pangerycum defuncte matri’ di Petrarca, «Annali della Scuola

Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. III, 9, 1979, pp. 1099–118), lì non motivata, ma da quel momento usata correntemente nella bibliografia critica (cfr. ad es.

Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine, a cura di M. Feo, Firenze, Le Lettere, 1991, p.

421), mentre ad esempio il Wilkins definiva l’Ep. I 7 «An elegy for Petrarch’s mother» (E.H. Wilkins, The «Epystolae metricae» of Petrarch. A Manual, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956, p. 13). La forma pangericum è peraltro usata da Petrarca, nel senso di ‘discorso laudativo’ (cfr. Fam. II 9, 2; IV 3, 13; XI 3, 2; XIX 12, 3; e soprattutto XXIV 2, 3: «palinodiam . . . seu pangericum dici placet»): ma l’autrice non ne fa menzione. Ricordo infine le considerazioni di Giuseppe Frasso sul codice Laurenziano 53, 35 di Lodovico Beccadelli, e l’espunzione del passo riguardante la morte di Eletta dalla seconda redazione della Vita di Petrarca del Beccadelli medesimo (G. Frasso, Studi su I ‘Rerum vulgarium fragmenta’ e i ‘Triumphi’, vol. I, Francesco

Lelio, che parlano entrambe del suo amore per Laura.13 Difficile dire se occorre interpretare la cosa come una sorta di sudario posto su un amore che Petrarca teme possa infiammarsi nuovamente, o se il trittico riunisce i nomi delle due donne amate sopra ogni altra;14 certo però è che il tema funebre non vi si trova isolato, giacché da qui trascorre nell’epistola I 13, per la morte di Dionigi da Borgo San Sepolcro, e nella I 14, Ad se ipsum;15ed è anticipato dai primi 30 versi dell’Epystola I 4 allo stesso Dionigi, canto funebre intonato sul mito di Procne e Filomena.16

Ancor prima che per il tema della morte, il planctus per la madre è notevole per la lingua che Petrarca vi dispiega. Esso lascia infatti affiorare «una tessera medievale (dal poi detestatissimo Gauthier de Châtillon) che getta luce sui primordi dell’officina petrarchesca, tut- t’altro che immune dalla raucitas mediolatina», contribuendo in ciò a costituire il tono generale, solcato da «notevoli fenomeni di escursione stilistica», di quell’organismo stratificato e vario che sono appunto le epistole latine, missive di corrispondenza a cui Petrarca ha sottratto occasionalità e chiarezza di riferimenti nella raccolta in ordine. Il fatto poi che i quindici anni dell’autore siano significati attraverso l’immagi- ne del bivio pitagorico, appresa a quell’altezza forse dalle Etimologie di Isidoro,17 sarà anche interpretabile come prova della «impressionante

13. Anche la prima è giovanile: facendo una recensione degli studi a disposizione, Wilkins la assegnava al 1338–39 (Wilkins, The «Epistolae metricae» of Petrarch, cit., p. 28).

14. La prima ipotesi è quella di G. Velli, A Poetic Journal. Epystole, in Petrarch. A Critical

Guide to the Complete Works, ed. by V. Kirkham and A. Maggi, Chicago and London, The

University of Chicago Press, 2009, pp. 277–90 e note pp. 452–5, a p. 283; la circostanza dell’inclusione dell’Epyst. I 7 tra due lettere su Laura, «come tra due medaglioni a riscontro», era già stata notata da Arnaldo Foresti, che ne traeva però diversa conclusione: l’«accostamento delle due donne ch’egli amò di più sopra la terra . . . rivela . . . l’anima del poeta, e la sua tenerezza, come la purezza del suo amore per Laura» (Foresti, In funere matris, cit., p. 17).

15. Sempre Velli, A Poetic Journal. Epystole, cit., p. 283, che nota poi come, contro l’«abating love motif in the above letters», il secondo libro insista sulla poetica. L’Ad se ipsum condivide poi con la nostra I 7 e con la III 24 la peculiarità di non essere una lettera, come notava già il Wilkins (The «Epistolae metricae», cit., p. 20).

16. Sulle complicazioni delle letture medievali di questo mito, che giocano su due diverse identificazioni delle donne con gli uccelli recate dalla tradizione esegetica virgiliana e ovidiana, e sulla contrapposizione di Petrarca a Dante anche su un punto apparentemente minimo come questo, rispetto al quale avevo già attirato l’attenzione nel mio commento al Canzoniere a proposito del «rosignuol» di Rvf 311, si veda ora l’ampio studio di S. Conte, La ricezione del

mito di Filomena e Procne nella ‘Commedia’: “Dante filologo” a confronto con Virgilio e Ovidio e un’eco petrarchesca, «Critica del testo», 14 (2011), 2 (Dante, oggi, 2), pp. 483–521, che tuttavia, a

proposito di Petrarca, discute solo il «garrir» di Rvf 310, 3.

congruenza, nel tempo, di una inventio che già nell’epistola proemiale pone se stessa all’ombra di una triade (Tempus edax–Mors–Amor) che lega a fil doppio le nuge epistolari ai maiora, ossessionati dagli stessi avversari».18 Il bivio pitagorico indica qui, ai vv. 16–17, non solo l’età dell’autore alla morte della madre, ma anche la condizione esistenziale di dubbio e difficoltà in cui ella, morendo, ha abbandonato Francesco e il fratello — sebbene poi quegli stessi versi racchiudano un’apostrofe alla «parens dulcissima» che, da sola, abrade dallo stato di derelizione ogni responsabilità materna, ogni sua colpa.

Dell’orazione funebre per la madre, Elena Giannarelli ha studiato come il linguaggio classico, ricco di echi e formule risalenti a Virgilio, Lucano e Ovidio, risulti filtrato dalla poesia funeraria cristiana tardoan- tica e medievale;19 e sebbene complessivamente l’epistola possa dare l’impressione di un «esercizio stilistico non sempre felicemente risolto», con passaggi logici non sempre limpidi,20 resta notevole il tentativo

della scelta; su un’altra sua forma, quella di Ercole al bivio, ricordata da Petrarca nel De vita

solitaria I 4, 1 e II 9, 4, cfr. U. Rombach, Francesco Petrarca ed Ercole al bivio, in Petrarca e la cultura europea, a cura di L. Rotondi Secchi Tarugi, Milano, Nuovi Orizzonti, 1997, pp. 56–70. Una

terza forma di bivio è quella tra la «via recta» che conduce verso l’alto, segnata dalla scarsità di coloro che la scelgono, dalla difficoltà e dalla strettezza, e la via che conduce alle paludi stagnanti e maleodoranti d’Averno (cfr. Buc. Carmen IX, Querolus, vv. 89–96).

18. M. Ariani, Petrarca, Roma, Salerno Ed., 1999, cap. XI 1 Le Epystole, pp. 194–203, a p. 197 (anche per la citazione precedente). Per l’eco di Gauthier de Châtillon cfr. G. Velli,

Petrarca e la grande poesia latina del XII secolo, «Italia Medioevale e Umanistica», 28 (1985), pp.

295–310, a p. 295 e ss.; e M. Feo, Fili petrarcheschi, «Rinascimento», 19 (1979), pp. 3–89, alle pp. 87–8; ma anche più indietro, nella stessa monografia di Ariani, la p. 93 e nota 9 sul «polemico distacco dall’epica medio–latina», con rimando al De vir. ill. XV 44 e 50 contro l’Alexandreis di Gauthier de Châtillon, definito «plebeius poeta» in Fam. XIII 10, 7. Sulle Epystole, oltre ai rimandi obbligati al lavoro di Michele Feo (da L’edizione critica delle «Epystole», «Annali della Scuola Normale di Pisa», s. III, 19, 1989, pp. 239–50, con discussione delle tesi di E. Bianchi, Le epistole metriche del Petrarca, ivi, s. II, 9, 1940, pp. 251–66), si veda ora Velli, A

Poetic Journal. Epystole, cit. (su quell’«apparente disordine [che] è il criterio ordinatore della

raccolta», secondo Marco Ariani, Velli nota che nel fluire apparentemente casuale del discorso epistolare si riscontra una «skilled strategy of parallels, contrasts, and balance»: ivi, p. 283).

19. Il saggio (Giannarelli, Fra mondo classico e agiografia cristiana, cit.) è rimasto titolo fondamentale sul carme. In quella sede, l’autrice dichiarava di ricavare il testo dall’edizione Muscetta–Ponchiroli (nota 5: e cfr. F. Petrarca, Canzoniere, Trionfi, rime varie e una scelta di

versi latini, a cura di C. Muscetta e D. Ponchiroli, Torino, Einaudi, 1958, pp. 679–83), ma

fonte primaria sarà stata piuttosto l’edizione Rossetti (Petrarchae Poemata minora, cit., vol. III, pp. 100–5), come testimonia la lezione del v. 3 («digna ferens virtus alios non spernit honores», riportata a p. 1107 del saggio), che i curatori delle rime einaudiane emendano in «digna ferens, alios tibi tu non spernis honores» seguendo il Cochin (ed. cit., p. 680 e nota 3): cfr. H. Cochin, Les «Epystolae metricae» de Pétrarque. Remarques sur le texte et la chronologie, «Giornale storico della letteratura italiana», 74 (1919), pp. 1–40, a p. 26).

petrarchesco di offrire una fisionomia della madre post mortem, ottenuta incrociando l’agiografia delle sante, l’innologia mariana e la poesia classica.21

Ancor più significativo è il complesso sistema di corrispondenze con l’Africa rilevabile nel carme. Come è stato osservato, il solenne incipit dell’Ep. I 7 («Suscipe funereum, genetrix sanctissima, cantum / atque aures adverte pias») — il cui verbo d’avvio «ricalca un modulo tipico della lingua liturgica del Messale Romano» — si ripete nell’altrettanto solenne invocazione al re Roberto: «Suscipe, ianque precor, regum inclite, suscipe tandem / atque pias extende manus» (Afr. I 38–39); e si ritroverà nel lamento di Massinissa il tema della morte comune, del seppellimento in un unico sepolcro (Afr. 540–41).22 Ma altro si può aggiungere. La tempesta senza pace che disegna l’unico scenario del mondo a cui la madre, morendo, ha consegnato i figli («rerum sub turbine linquis») delinea infatti una iunctura, quella della morte che lascia il sopravvissuto alla mercé delle tempeste, che si ritroverà nel libro IX dell’Africa, in corrispondenza del lamento per la morte del re Roberto — morte “intempestiva” non certo per l’età del re, ma per la situazione che lascia morendo, e che viene a incidere sulla crescita stessa del poema (vv. 421–24 «O mea non parvo michi consummata labor / Africa! dum crescis [. . . ] / [. . . ] magnanimum Mors importuna Robertum / intempestive mundo subtraxit egenti»). Morendo colui che ha saputo dare il giusto onore agli studia, «cuncta bona» muoiono con lui: «secumque simul spes nostra recessit» (v. 445). E mentre per l’opera viene espresso il desiderio di lunga vita, secondo un modulo già esperito appunto nel carme funebre per la madre, come vedremo (vv. 453–54 «At tibi fortassis, si — quod mens sperat et optat — / es post me victura diu»), sull’autore cala il riconoscimento di un destino votato al turbine rerum: «Michi degere vitam / impositum varia rerum turbante procella» (vv. 451–52).

Non mancano poi nel carme funebre elementi che saranno propri delle (future) rime volgari petrarchesche, come certe figure–base della

dispositio,23 ma soprattutto i modi della laudatio: la quale, in diversi

21. Ivi, p. 1116. 22. Ivi, pp. 1106 e 1117.

23. Si veda ad es. il tricolon dei vv. 13–4 («efficit ut populo maneas narranda futuro, / eternum veneranda bonis, michi flendaque semper»), il cui doppio chiasmo della tessera di base (gerundio+dativo: populo narranda, veneranda bonis, michi flenda) potrà essere accostato

punti, coincide con quella rivolta poi a madonna — quasi a dar ra- gione a Umberto Saba, per il quale Laura è la ‘donna che non si può avere’, la madre perduta. Si pensi all’unione di nomen e di honestum che segna l’esaltazione della madre, anch’ella toccata da un nomen omen (v. 5 «Electa Dei tam nomine quam re»), e destinata ad essere celebrata per aver incarnato esemplarmente la pudicizia (vv. 6–7 «Sic quoque perpe- tuum dabit hic tibi nomen honestas / musarum celebranda choris»), che è virtù clara, ovvero gloriosa (vv. 10–11 «notissima clarae / cura pudicitiae»), già ricordata da Agostino per la madre Monica, «Educata [. . . ] pudice ac sobrie» (Conf. IX 9, 19),24 e tale da conferire un valore

a moduli come quello di Rvf 134, 1–2: «Amor m’ha posto come segno a strale, / some al

sol neve, come cera al foco». Anche Elena Giannarelli cita questo tricolon, ma per mostrarvi il

passaggio «dalla sfera pubblica a quella personale»: il campo di chi dovrà venerare o piangere la donna — con espressioni mutuate «dalla consuetudine liturgica e funeraria» — si restringe progressivamente dalle generazioni future ai buoni all’io (Fra mondo classico e agiografia cristiana, cit., p. 1111).

24. Sull’incidenza della figura di Monica nella costituzione dei brevi ritratti della madre Eletta rinvenibili nelle sue opere (cfr. ad es. la Sen. X 2 a Guido Sette, § 24 ed. Dotti: «Atque ita matre illa omnium optima quas quidem viderim, que carne mea, amore autem comunis michi tecum fuit, vix tandem exorata sed multa pavente ac monente»), cfr. K.I. Grimes, A

proposito di ‘Rvf’ 285: Petrarca tra Laura e Monica, «Lectura Petrarce», 25 (2005), pp. 273–95, con

studio dell’iconografia di Monica visibile ai tempi di Petrarca nelle chiese degli Agostiniani. Solo una giustapposizione di figure si aveva invece in R. Argenio, Tre figure di madri, «Rivista di studi classici», 17 (1969), pp. 219–23: la madre di Stazio, brevemente descritta nella lunga ecloga al padre (Silv. V 3, 242–3); la madre di Agostino; e appunto Eletta (a p. 223 l’autore offre una traduzione dell’Epystola petrarchesca). Sulla figura di Monica, e il suo ritratto filtrato, come tutti i ritratti di madri, attraverso l’opera letteraria dei figli, cfr. ancora E. Giannarelli,

La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia cristiana del IV secolo, Roma, Istituto Storico

Italiano per il Medioevo, 1980, cap. IV (La ‘mater’. Tra idealizzazione, realtà e prassi letteraria

in Agostino e Gregorio di Nazianzo), pp. 67–81. La castitas della madre del religioso è luogo

comune: si veda ad esempio il ritratto della madre — che tanta parte ha nella vita dell’autore, dalle prime scelte alla scena della morte — nella Vita sua di Guibert de Nogent: lib. I, cap. ii («Primum potissimumque itaque gratias ago, quod pulchram, sed castam, modestam mihi matrem timoratissimamque contuleris») e cap. xviii (sulle visioni della madre); e lib. II, cap. iv (De felici Guiberti matris obitu). Cfr. Guibert de Nogent, Autobiographie, intr., édition et trad. par E.R. Labande, Paris, Les Belles Lettres, 1981, pp. 10, 146–8, 242–6 (per la storia editoriale moderna del De vita sua, di cui non si conoscono manoscritti antichi, cfr. G. de N., Histoire de sa vie, 1053–1124, publiée par G. Bourgin, Paris, Picard, 1907; Self and society

in medieval France: The Memoirs of Abbot Guibert of Nogent (1064?–c. 1125), edited and with an

introduction and notes by J.F. Benton, New York, Harper and Row, 1970, repr. Toronto, University of Toronto Press, 1994; Sogni e memorie di un abate medievale: ‘La mia vita’ di Guiberto

di Nogent, a cura di F. Cardini e N. Truci Cappelletti, Novara, Europia, 1998; e G. de N., Autobiographie d’un moine du XIIe siècle, trad. du latin par M. Guizot et [rev. par] R. Fougère,

Clermont–Ferrand, Paleo, 2002; rist. parziale 2011. Si aggiungano le monografie di R.B.C. Huygens, La tradition manuscrite de Guibert de Nogent, Spoleto, Centro studi medievali, 1964, e di J. Rubenstein, Guibert of Nogent. Portrait of a medieval mind, New York, Routledge, 2002). Claudio Giunta nota che «l’autobiografia medievale che più si avvicina ai paradigmi moderni»,

di esemplarità, e dunque di narrazione e legenda, alla vita della donna: «Efficit ut populo maneas narranda futuro; / eternum veneranda bonis» (vv. 13–4).

Emerge poi il concetto della poesia eternatrice, sebbene ancora, a questa altezza, la sopravvivenza della parola poetica sia meramente eventuale, e come tale sottoposta a lungo dubbio: un dubbio, però, che non intacca il valore della fama in sé, comprendendola nella vanità delle ambizioni terrene — tema sul quale lungamente Petrarca si interroga negli anni a venire, come si sa25—, ma si esprime nei termini dell’impossibilità di sapere se al valore della poesia la posterità saprà dare il giusto riconoscimento (v. 29: «nisi me premat immemor etas»), se la fama avrà durata più lunga di quella del corpo pereunte (vv. 31–2: «Sin aliter fors dura parat, morsque invida nostram / extinctura venit fragili cum corpore famam»). Tolta questa formula attenuativa, di ascendenza biblica (è il discorso degli empi in Sap. 2, 3–4: «cinis fiet corpus nostrum [. . . ]. / Et nomen nostrum oblivioni tradetur per tempus»), nei voti del figlio la poesia vincerà il tempo legando il lodante e il lodato, Francesco alla madre, eternando «non solo chi ne è oggetto, ma anche chi lo canta»:26

tempusque per omne hac tua, fida parens, resonabit gloria lingua, has longum exequias tribuam tibi; postque caduci corporis interitum, [. . . ]

nisi me premat immemor etas, vivemus pariter, pariter memorabimus ambo. (vv. 24–30)

Preme qui, tuttavia, segnalare gli elementi che contraddistinguono il discorso sulla morte: che, se possono essere considerati nel loro complesso come elementi di quell’“esercizio stilistico” imputato al carme, testimoniano anche del sicuro possesso, da parte del giovane Petrarca, di una retorica già formata.

quella di Guibert appunto, si conclude sul nome di Maria (C. Giunta, Versi a un destinatario.

Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 140).

25. Si veda, tra tutti i rinvii possibili, l’escussione del tema della gloria terrena vs gloria celeste tra Africa e Secretum nella ricostruzione di E. Fenzi, Dall’‘Africa’ al ‘Secretum’, in Id.,

Saggi petrarcheschi, cit., pp. 345–9.

26. U. Dotti, Vita di Petrarca, Bari, Laterza, 1992, p. 19 (per il quale l’elogio funebre, «per quanto non privo di commozione, ha fondamentalmente l’aspetto di un esercizio stilistico»).

Si noti intanto che nel Panegyricum non viene menzionato il mo- mento della morte, a differenza di analoghi racconti medievali nei quali il momento del transito, il felix obitus, esprime la concordia perfetta della vita santa con una morte accettata pacificamente.27Così, ad esem- pio, Petrarca narra la morte del bisnonno Garzo, udita raccontare dai familiari:

Is ergo, post innocue ac feliciter actam vitam, ut audiebam senes nostros dicere, quarto ac centesimo etatis anno, ipso etiam, ut Plato, natalis sui die, sed trium et viginti annorum spatio vivacior quam Plato, et preterea eodem in thalamo in quo natus fuerat, longe ante predicta multis transitus sui hora, in gremio filiorum ac nepotum nulla corporis aut animi molestia, nil nisi de Deo et de virtutibus loquens, inter loquendum quodammodo consopitus est. Quod ex eius ore sonuit extremum, illud daviticum fuisse ferunt: «In pace in