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La morte ‘lirica’ nella prima parte del Canzoniere

Il pensiero della morte nei Rerum vulgarium fragmenta

3.1. La morte ‘lirica’ nella prima parte del Canzoniere

Prima di avvicinarci alla lettura delle rime ‘in morte’, occorre breve- mente passare in rassegna occorrenze e significati della morte nella prima parte del Canzoniere. Anticipo che una semplice statistica delle occorrenze del termine morte e dei suoi collegati rischia di sortire risul- tati parziali, dato che il concetto si cela anche sotto perifrasi (“menare a riva”, “scapestrarsi dal cor”), o immagini relative alla morte del lauro come albero («si secchi ogni sua foglia verde», nel moto d’invettiva che chiude il son. 60), o verbi diversi (“dipartirsi”, “disfare”, “occidere”),9 e si aggrega di frequente intorno a loci identificativi del tema (come la vita che «fugge», spesso in clausola di verso o di strofe, come risulte-

8. Gli altri testi citati dal Moos per questo punto sono: Cicerone, De oratore III 1, 1: «illud ingenium, illa humanitas, illa virtus L. Crassi morte extincta»; Girolamo, Ep. XXXIX 1, 1: «plorabo sanctitatem, misericordiam, innocentiam, castitatem; plorabo omnes pariter in unius morte virtutes» (Consolatio, cit., vol. III, p. 42, TT 173–174).

9. Con possibilità, in più, di casi ambigui come quello di Rvf 88, 12 («perch’io viva de mille un no scampa»), in cui il “non scampare”, che dovrebbe significare l’essere colpiti dal dardo amoroso che ha azzoppato l’amante, è però inserito in un’antitesi con io viva, che ne suggerisce la sinonimia con ‘morire’.

rà evidente dalla lettura in sequenza degli esempi). L’indagine dovrà dunque rivolgersi anche alle espressioni metaforiche, eufemistiche o comunque traslate. Si potrà preliminarmente inquadrare il problema dicendo che, assai prevedibilmente, la maggioranza delle accezioni rinvia al topico struggimento amoroso ben noto a Dante (in cui la morte incombente è funzione enfatica dello «stato di dolore dell’inna- morato» o dell’«incapacità di servirsi delle proprie facoltà»)10 e ai suoi contemporanei. E tuttavia, per ragioni d’ordine temporale contestuali (il pieno Trecento rispetto al tardo Duecento) e interne (il cospicuo numero d’anni adibito alla stesura, correzione e collocazione in ordine dei Rerum vulgarium fragmenta), Petrarca interviene sensibilmente sui dati della tradizione: in genere, per lenire il peso specifico del tema.

Si può dire che in Petrarca manchi, in sostanza, quella rappresen- tazione drammatica dell’incontro con la donna come ‘colpo mortale’ inferto all’uomo, che caratterizza largamente il suo antecedente più significativo, ossia la poesia di Guido Cavalcanti. Il fatto potrà certo essere attribuito alla «topicità ormai esausta» del luogo comune lirico della morte amorosa,11 ma anche — e non in contrasto con il pri- mo argomento — alla riassunzione del tópos entro quella prospettiva temporale che caratterizza profondamente i Rerum vulgarium fragmenta. Se Cavalcanti predilige la rappresentazione viva e presente della scena dell’incontro mortale, Petrarca la disloca di preferenza in un tempo lontano. Per riprendere il punto cardinale della lettura di Giuseppe Un- garetti, per Petrarca «le nostre azioni — tutte — non possono diventare oggetto della nostra esperienza se non sono prima divenute passato»;12 e se il presente entra in gioco nelle rime, lo fa con quella attualizzazione del lontano per via di memoria che, ad esempio, costituisce la materia del sonetto esemplare del tema, Rvf 90 Erano i capei d’oro.

Allo stesso ordine di ragioni appartiene l’allentamento petrarchesco del concetto, centrale in Cavalcanti, per cui «la morte è quasi inelut-

10. Cfr. C. Chirico e L. Cassata, s.v. Morte, in «Enciclopedia Dantesca», III, 1971, pp. 1038–41 (e cfr. anche A. Bufano, s.v. Morire, ivi, pp. 1032–5).

11. Antonelli, «Per forza convenia che tu morissi», cit., p. 211; e Rea, Cavalcanti poeta. Uno

studio sul lessico lirico, cit., pp. 349–50.

12. Giuseppe Ungaretti, [Idea del tempo e valore della memoria in Petrarca], in Id., Invenzione

della poesia moderna, cit., p. 107; e ancora: «Non potrei nemmeno esprimere la parola che ora vi

dico, se prima non l’ho pensata, se non ha un passato — sia pure esso brevissimo, fulmineo — da racchiudere. Dunque tutta l’esperienza umana, tutto il sapere dell’uomo è passato. Umanità vuol dire conoscenza del passato. Amore di Laura vuol dire amore del passato: memoria».

tabile conseguenza dell’amore» (o addirittura sua precondizione, per Roberto Antonelli),13 effetto di una rappresentazione lirica ricondot- ta per intero e quasi schiacciata sull’istante dell’incontro, che invece assume le sembianze, in Petrarca, di una misurazione del tempo che separa l’io da quell’evento, e che protendendo i suoi effetti, appunto, nel tempo, lo costituisce per com’egli è ora.

Si può citare al proposito la prima strofe del sonetto 39, in cui l’attualità dell’«assalto» mortale degli occhi (Io temo) si trasforma rapida- mente in un arco temporale lungo che distanzia il soggetto dall’evento, lo costituisce come colui che fugge, anzi è già in fuga, ha già tentato la fuga da molti anni; o, con inversione dei rapporti tra i tempi verbali, l’inizio della seconda stanza del sonetto 133, Amor m’ha posto come segno

a strale, in cui il «colpo» inferto in un passato assai remoto (uscìo) con-

tinua a estendere i suoi effetti nel presente del soggetto (non mi val), condizionando la sua vita attuale:

39, 1–4 Io temo sì de’ begli occhi l’assalto ne’ quali Amore e la mia morte alberga, ch’i’ fuggo lor come fanciul la verga, e gran tempo è ch’i’ presi il primier salto. 133, 5–6 Dagli occhi vostri uscìo ’l colpo mortale

contra cui non mi val tempo né loco.14

Da tale allontanamento e forse rifiuto del dramma attuale di matrice

13. Cfr. Rea, Cavalcanti poeta, cit., p. 357.

14. Nel commento al son. 39, Bettarini trascrive un’osservazione di Arnaldo Foresti che data con precisione il «primier salto» al primo allontanamento da Avignone, nella primavera del 1333 (Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, cit., pp. 69–71); per questo il sonetto potrebbe collocarsi nel 1337, al ritorno dal viaggio a Roma. Per il sonetto 133, significativo il riscontro di Cino da Pistoia addotto da Santagata, commento cit., ad loc.: «lo dì ch’io ebbi quel colpo mortale / [. . . ] / e per campar nulla cosa mi vale?». L’allontanamento nel passato è particolarmente evidente nel confronto con Dante, Amor tu vedi ben, 43, «Da li occhi suoi

mi ven la dolce luce», addotto sempre nel commento Santagata (da P. Trovato, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei «Rerum vulgarium fragmenta», Firenze, Olschki, 1979,

p. 139). Preciso qui che citerò i testi petrarcheschi secondo la versione ammodernata cui si accompagna il mio commento (Torino, Einaudi, 2011): per le motivazioni rimando alla Nota

al testo premessa a quella edizione, pp. XXV–XXVII, nonché a S. Stroppa, L’ammodernamento del testo nel Canzoniere petrarchesco. Materiali per una discussione, «Per leggere», n. 16, 2009, pp.

209–36 (con interventi di E. Fenzi, F. Bausi, S. Carrai, R. Cella), e al saggio fondamentale di L. Petrucci, La lettera dell’originale dei «Rerum vulgarium fragmenta», «Per leggere», n. 5, 2003, pp. 67–134; cfr. ora anche L. Zuliani, Ancora sulla grafia degli antichi e le edizioni dei moderni, in corso di stampa su «Studi (e testi) italiani», letto per cortesia dell’autore.

cavalcantiana, alla morte d’amore «immediata e ineluttabile»,15procede il frequente riferimento a un protratto struggersi a parte a parte (che prende il posto della morte: cfr. ad es. Rvf 221, 5–7 «sì dolci stanno / nel mio cor le faville e ’l chiaro lampo / che l’abbaglia e lo strugge»), l’auscultazione di un interno disfacimento tanto disteso in singoli istanti di tempo da risultare visibile a nessun altro se non al soggetto silenziosamente chino su di sé: «Così mancando vo di giorno in giorno, / sì chiusamente, ch’i’ sol me n’accorgo» (79, 9–10); «e sì le vene e ’l cor m’asciuga e sugge / che ’nvisibilemente i’ mi disfaccio» (202,

3–4).16

L’invisibilità dell’interna consunzione è funzione diretta del fatto che, nella lirica petrarchesca, si allontana fino a cancellarsi la presenza costante di una comunità giudicante, la cerchia d’occhi fissa sulle vicende del poeta–amante:17 sostituita in parte dalla natura, e in parte dal riferimento costante a un’altra comunità cui attingere sapienza e controllo, quella dei classici. Spesseggiano infatti i richiami ai dicta degli antichi sul tema della morte (Rvf 56 e 152, in entrambi i casi come suggello sentenzioso del sonetto),18 con tre occorrenze — non più in explicit — nella sezione 191–263, ovvero la seconda parte delle rime ‘in vita’, aggiunta da Petrarca durante l’elaborazione della forma Malatesta (o il compimento della redazione Vaticana), dunque nei tardi anni Sessanta–inizio Settanta:

15. Rea, Cavalcanti poeta, cit., p. 352; terrò costantemente presente la schedatura del lemma

morte contenuta in quel libro (pp. 349–63).

16. Per questa seconda occorrenza, Carlo Ossola ha rinviato alla fonte agostiniana del

De cathechizandis rudibus, XXV 46 «Nonne de occultis huius creaturae secretis, Domino

Deo invisibiliter formante, processit in lucem?», nel segno della «più amara condanna di sé: dall’“invisibilmente formarsi” del dono biblico all’“invisibilmente disfarsi” dell’“alma stanca”» (C. Ossola, Francesco Petrarca pellegrino della memoria, in F. Petrarca, Canzoniere, a cura di S. Stroppa, Torino–Roma, Einaudi–Gruppo Editoriale L’Espresso, 2005, p. xix; cit. anche in Petrarca, Canzoniere, commento Stroppa 2011, cit., p. 336).

17. Sul tema è d’obbligo il rinvio a Giunta, Versi con destinatario, cit., che studia appunto la presenza della comunità di riferimento nella poesia siciliana e stilnovista, e il mutarsi d’essa in una serie di nuovi destinatari nelle generazioni successive.

18. Per questo tipo di strategia di chiusura rimando a E. Strada, “Suggelli ingegnosi”.

Per un avvio d’indagine sullo ‘stile sentenzioso’ del Petrarca, «Lectura Petrarce», 23 (2003), pp.

371–401 (e cfr. p. 382 per Rvf 56, 12–4, sentenza distesa su tre versi inserita in una serie di richiami espliciti ai classici, quasi ‘citazioni virgolettate’; e p. 379 per una serie di sentenze riguardanti la morte, non necessariamente in clausola [Rvf 140, 14; 152, 14; 207, 91; TM II, 96], nelle quali «fra il primo ed il secondo membro della sentenza — e dunque, nel caso dei versi petrarcheschi, fra il primo ed il secondo emistichio — si stabilisce, in una perfetta sintesi di icastica consequenzialità, un rapporto di causa ed effetto»).