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I fattori che ostacolano la crescita

Le politiche industriali in Italia

3. maggiori finanziamenti attraverso i fondi nazionali di venture capital.

2.2 I fattori che ostacolano la crescita

L’Italia ha un problema di crescita economica, che è emerso quando l’industria italiana non ha saputo reagire al programma di liberalizzazione della

circolazione delle merci, del lavoro e del capitale, determinando un tasso di crescita sensibilmente inferiore rispetto alla media europea (Viesti, 2013, p. 3). Alla radice di questa difficoltà, vi è certamente una molteplicità di fattori, di natura economica, ma anche politico-istituzionale. Tra i fattori di natura strettamente economica possiamo citare una specializzazione produttiva troppo polarizzata verso settori senza prospettiva di crescita; l’inefficienza sul lato dei costi; la mancanza di allineamento tra domanda e offerta di competenze (skill

mismatch). Tra i fattori di natura politico-istituzionale possiamo citare la

dimensione delle imprese; gli scarsi e inefficaci investimenti in ricerca e sviluppo; l’inefficienza e l’inefficacia dell’apparato amministrativo e giudiziario; il permanere di forti differenze territoriali. L’effetto congiunto di questi fattori ha ostacolato il processo di cambiamento verso una struttura economico-industriale simile ai paesi con cui tendiamo a paragonarci, per cui appare opportuno analizzarli dettagliatamente.

Specializzazione produttiva

La specializzazione produttiva si è concentrata nei settori tradizionali e in quelli che fanno poco uso di manodopera qualificata, diversamente da quanto accade nel mercato mondiale, che si concentra sui settori ad alta intensità di ricerca e sviluppo e su quelli ad alto valore aggiunto. Gli imprenditori italiani sono poco propensi ad investire in settori non tradizionali, per cui favoriscono

l’ingresso di capitale straniero, che porta alla crescita e allo sviluppo di settori e produzioni altrimenti destinate allo smantellamento, con la conseguente perdita di capitale umano e di competenze. In questo quadro, bisogna distinguere tra le esperienze positive di multinazionali estere, come Siemens, Alcatel e Bayer, presenti da anni sul territorio italiano con produzioni ad alto contenuto tecnologico, e le esperienze negative di aziende estere, che si sono impossessate dei vantaggi competitivi e del know-how tecnologico di alcune delle produzioni delle imprese acquisite, trascurando le altre attività (Gallo, Silva, 2006, p. 9).

Inefficienza sul lato dei costi

Le imprese italiane non riescono a raggiungere l’efficienza sul lato dei costi, che riguardano non solo la combinazione capitale-lavoro, cioè le tipologie di lavoro e di capitale da utilizzare e i beni da produrre, ma anche i costi di sistema, o “ambientali”. Questi ultimi riguardano i costi di transizione nei rapporti contrattuali con le altre imprese della catena produttiva e i costi non controllabili, ma sostenuti in termini monetari, di tempo, di spreco di risorse manageriali, di coordinamento e di energie per evitarli o ridurli. I costi di sistema hanno un impatto negativo sui conti economici delle imprese e contribuiscono a ridurre la loro competitività. In aggiunta piccole e medie imprese sono penalizzate dai costi di ricerca e dai costi del cambiamento. I primi si manifestano quando l’impresa deve risolvere problemi organizzativi, informatici, contabili,

distributivi, di gestione logistica o delle risorse umane e sono causati da un fallimento di mercato o da un problema di informazione imperfetta. I secondi si manifestano nella fornitura di servizi complessi per acquistare le informazioni contrattuali o per chiudere e aprire conti bancari o polizze assicurative e derivano da problemi di informazione imperfetta o da strategie aziendali sbagliate (Gallo, Silva,2006, p. 28).

Skill mismatch

L’Italia è caratterizzata da uno skill mismatch, cioè una mancanza di allineamento tra domanda e offerta di competenze, che determina aree con

deficit o surplus di abilità. Le aree ad alta domanda di competenze hanno una

performance sul mercato del lavoro nettamente migliore di quella delle aree dove il valore aggiunto per addetto e la quota di lavoratori con professioni manageriali è minore; le aree che investono sull’offerta di competenze, ma non sulla loro domanda, non traggano grande vantaggio dal punto di vista della

performance occupazionale. Se un’area non adotta velocemente nuove

tecnologie e non si adatta ai cambiamenti del mercato, avrà una bassa domanda e una bassa offerta di competenze: si determina un equilibrio verso il basso perché, da una parte le imprese locali non ricercano competenze di alto livello, dall’altra le imprese non aumenteranno il livello di produttività, se vi è una mancanza di lavoratori istruiti nel loro territorio. Al contrario, migliorare l’offerta

di competenze a livello locale può produrre un surplus di competenze, che, in assenza di una adeguata domanda, conduce i giovani qualificati a lasciare la zona di origine per cercare migliori opportunità di lavoro altrove. Per ridurre questo

skill mismatch e portare l’economia del nostro paese a una crescita equilibrata di

offerta e domanda di competenze, è necessario coordinare meglio le politiche volte a promuovere i due lati del mercato. In particolare, occorre coordinare le politiche del lavoro e quelle industriali e potenziare i servizi pubblici all’impiego: stimolando l’innovazione e investendo in domanda di competenze, le comunità e le imprese possono aumentare la produttività e diventare più competitive, offrendo posti di lavoro meglio qualificati e retribuiti. Il problema dell’elevata disoccupazione non si risolve, quindi, solo sul mercato del lavoro, perché recentemente il problema principale riguarda la domanda aggregata: le riforme strutturali del mercato del lavoro e della sua regolamentazione (job acts) da sole non bastano a far ripartire l’occupazione, se non sono integrate con politiche industriali, che mirino a sviluppare le imprese e la domanda di lavoro nelle singole aree territoriali (job creation) (Cappellin et al., 2014, pp. 19-20).

Dimensione delle imprese

Dopo la crisi dei grandi gruppi industriali, come la Olivetti e la Ferruzzi- Montedison, e la privatizzazione delle grandi imprese a partecipazione statale, le

poche grandi aziende rimaste mostrano interesse per i settori protetti dalla concorrenza (soprattutto autostrade, telefonia ed energia elettrica), per i settori immobiliari e per i servizi alla persona. Il gruppo di medie imprese non è riuscito a crescere, a causa della struttura proprietaria di tipo familiare11, che è poco

propensa a sviluppare l’impresa attraverso l’apporto di capitali di rischio dall’esterno e l’affidamento della gestione a manager professionisti in grado di affrontare organizzazioni complesse. Infine vi sono tantissime piccole imprese, che non riescono a concorrere nel mercato internazionale né ad effettuare innovazioni di prodotto, né ad investire in ricerca e sviluppo, né ad adottare modelli organizzativi moderni. La dimensione piccola delle imprese italiane è stata spesso considerata un fattore di vantaggio per la nostra economia, in quanto veicolo di creatività e imprenditorialità ed elemento di flessibilità, ma molte ricerche empiriche hanno dimostrato che la produttività è direttamente proporzionale alla dimensione (Gallo, Silva, 2006, p. 31). I proprietari delle piccole imprese sono essi stessi forza lavoro: avendo in genere un basso contenuto di capitale, di macchine e di impianti, ciò che fa la differenza è il capitale umano, cioè la forza lavoro che non può essere trasmessa tramite processi formativi permanenti o di aggiornamento, ma è accumulata durante il

11 Il capitalismo familiare italiano è il risultato di un processo evolutivo che parte dall’economia di mercato del 1300, acquista i vantaggi della divisione del lavoro e della specializzazione, assimila la nozione di accumulazione della ricchezza da tramandare alle generazioni future e il principio della libertà d’impresa, ma non giunge alla motivazione del profitto, caratteristica del capitalismo maturo. Questa particolare forma di capitalismo, più legata al patrimonio che al profitto, ha causato problemi di ricambio inter-generazionale, di ricerca di risorse sul mercato dei capitali e di scarsa formazione e aggiornamento dell’imprenditore (Gallo, Silva, 2006, p. 32).

lavoro applicato. È la conoscenza tacita (learning by doing), che ha natura collettiva, non è codificabile e non può essere oggetto di transazione sul mercato, a meno che la transazione non comprenda parti intere dell’organizzazione (Leon, 1998, p. 19). La difficoltà a crescere corrisponde alla difficoltà a lasciare il controllo della propria azienda, perché i benefici privati rappresentano una forma di remunerazione dell’investimento: per evitare forme di ingerenza nella gestione dell’impresa, i controllanti preferiscono adottare strategie non ottimali pur di non perdere il controllo. L’unico modo per convincere i controllanti ad aprire la società e riorganizzare il controllo è creare la domanda di partecipazione al capitale azionario, creare l’offerta di capitale azionario e creare un mercato del controllo.

Investimenti in ricerca e sviluppo

L’economia italiana ha una spesa privata per ricerca e sviluppo largamente inferiore a quella di tutti gli altri paesi avanzati: lo 0,7% del PIL, contro l’1,9% della Germania e l’1,2% della media UE (Viesti, 2013, p. 19). Questo dato è confermato anche se si estende la definizione delle attività di ricerca, includendo le spese per modelli e prototipi, che sono tipiche di fenomeni di innovazione incrementale. La differenza con gli altri paesi si registra anche se si tiene conto della diversa composizione settoriale e dimensionale del tessuto produttivo. Per

ridurre l’alto rischio delle spese in R&S, lo Stato dovrebbe intervenire in maniera significativa e duratura attraverso la politica fiscale. Un trattamento fiscale di favore può essere concesso a tutti gli ambiti, settoriali e tematici, di attività di ricerca, anche perché appare difficile selezionare a monte i settori o le attività maggiormente meritevoli. Tuttavia in più paesi, ed in ambito europeo per le recenti iniziative della Commissione, vengono indicate aree tecnologiche prioritarie, prevedendo un sostegno particolare a taluni ambiti di ricerca attraverso incentivi a bando, che si aggiungono allo strumento fiscale orizzontale. In alternativa può essere disegnato un sostegno nazionale automatico per i progetti di ricerca presentati nell’ambito del Programma Quadro europeo, valutati positivamente ma non finanziati per carenza di risorse. Tale sostegno più mirato può produrre due effetti positivi. In primo luogo affronta il problema del coordinamento, cioè può stimolare un’attività contemporanea di più soggetti, con effetti positivi di esternalità incrociate. In secondo luogo prevede attività congiunte fra più soggetti, attraverso la creazione di alleanze o consorzi di scopo o reti di imprese, che possono determinare un maggior successo della ricerca e sviluppo (Viesti, 2013, p. 20).

L’apparato amministrativo e giudiziario

La difficoltà delle norme e la lentezza delle autorità amministrative e giurisdizionali ad applicarle costituiscono un ostacolo allo sviluppo industriale: le

imprese italiane sostengono costi amministrativi maggiori di quelli di altri paesi; subiscono illeciti e inadempimenti da parte delle istituzioni nella tutela dei loro diritti; le imprese straniere preferiscono investire altrove a causa delle difficoltà burocratiche e dei tempi della giustizia italiana. In seguito alla pubblicazione nel settembre 2005 dei risultati del rapporto “Doing business in 2006”12 da parte

della Banca Mondiale, le parole d’ordine per l’Italia sono divenute semplificazione e accelerazione, anche se in realtà è più di un secolo che si parla di semplificazione amministrativa.13

Le prime norme di semplificazione del procedimento amministrativo risalgono al 1990 e in questi anni hanno avuto per oggetto le norme, le procedure amministrative e l’attività contrattuale della pubblica amministrazione. La semplificazione è un punto comune nei programmi elettorali delle varie forze politiche, ma l’obiettivo è stato perseguito in modo frammentario e disordinato. L’ordinamento italiano conosce decine di migliaia di leggi, ma il problema non è tanto il numero, quanto il contenuto eterogeneo e la difficoltà di coordinarle: si pensi alla legge di Bilancio, che interviene su

12 Il rapporto mette a confronto l’ambiente regolatorio di 155 diversi Stati, prendendo in considerazione le norme che regolano le imprese e la loro attuazione, ma non fattori rilevanti, come ordine pubblico e inflazione. Ad ogni modo l’Italia si posiziona al settantesimo posto in graduatoria e penultima tra i venticinque Stati membri dell’Unione Europea: le voci da cui dipende questo piazzamento riguardano le difficoltà di ottenere autorizzazioni amministrative, di lavorare all’estero, di ottenere l’adempimento coattivo dei contratti, di porre in essere gli adempimenti fiscali, di assumere o licenziare dipendenti e di ottenere una sentenza da un giudice (Gallo, Silva, 2006, pp. 307-308)

13“Nel campo amministrativo soprattutto occorre rendere l’amministrazione dello Stato meno complicata, meno lenta e più curante dei legittimi interessi dei cittadini” affermava Giovanni Giolitti nel discorso agli elettori del collegio di Dronero nel 1899 (Gallo, Silva, 2006, p. 311).

moltissime materie. Il rimedio di fronte all’incertezza del diritto e all’arbitrarietà nell’applicarlo e alla possibilità di corruzione nell’accesso ai diritti per i cittadini e le imprese è la codificazione. A partire dal 1997 sono stati approvati numerosi codici e testi unici, che hanno semplificato la vita di operatori e cittadini: beni culturali e ambientali; tutela e sostegno della maternità e della paternità; edilizia; circolazione e soggiorno dei cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea; spese di giustizia; protezione dei dati personali. Nonostante questi buoni risultati, è mancata la visione d’insieme, in cui ogni legge trova la sua collocazione in modo da risolvere i problemi di conflittualità tra le diverse iniziative di riordino (confusione tra il Codice dei beni culturali e del paesaggio, quello dell’ambiente e quello dell’urbanistica) e individuare le responsabilità dei vari organi di Governo (Gallo, Silva, 2006, p. 313). Determinante nella riuscita della semplificazione e della codificazione è l’aspetto organizzativo: è necessario ricorrere a professionalità adeguate, come consiglieri di Stato, avvocati dello Stato, funzionari parlamentari e professori universitari; coinvolgere le varie amministrazioni di settore e i singoli ministeri; prevedere un centro di coordinamento, come il Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, costituito presso la Presidenza del Consiglio nella XIII Legislatura e soppresso nella Legislatura successiva, nonostante avesse realizzato molti codici e testi unici.

Altre misure da adottare per la semplificazione dei singoli procedimenti amministrativi sono l’eliminazione di singoli adempimenti (certificati e documenti), la soppressione di alcune fasi (pareri e ispezioni), l’abbreviazione di termini e la concentrazione di fasi procedurali. In aggiunta bisogna alleggerire gli oneri informatici imposti alle imprese dalle leggi e dalle amministrazioni: oneri di denuncia e comunicazione relativi al reddito e al fatturato, ai dipendenti, alle condizioni di lavoro, al rispetto dell’ambiente e alle modalità di produzione. Le imprese dedicano a questi adempimenti fiscali circa 360 ore l’anno e potrebbero essere ridotte con la semplice modifica delle prassi amministrative. Altra rilevante priorità riguarda l’informatizzazione, intesa non solo come dotazione di apparecchiature informatiche, ma anche l’erogazione di servizi a distanza, la connessione tra le amministrazioni e la formazione del personale: spesso manca un sistema che colleghi i siti delle amministrazioni pubbliche, o mancano le competenze per sfruttare l’informatizzazione, o i dipendenti non sono in grado di applicare le norme sulla firma elettronica e sul protocollo informatico (Gallo, Silva, 2006, pp. 319-320).

Per quanto riguarda il problema della durata dei processi, si scontrano due principi costituzionali: da una parte il diritto fondamentale dei cittadini alla tutela giurisdizionale (da cui il doppio grado di giurisdizione, il ricordo alla Cassazione, l’obbligatorietà dell’azione penale) e dall’altra l’art. 11 della Costituzione sulla ragionevole durata dei processi. L’esperienza della Corte Costituzionale alla fine

degli anni Ottanta ha dimostrato che si possono ridurre i tempi del processo costituzionale attraverso piccoli accorgimenti sull’organizzazione interna del lavoro. Il problema investe soprattutto la giustizia civile, che ha adottato norme e prassi per accelerare i processi, ma con scarsi risultati. Per ridurre la durata dei processi, il legislatore dovrebbe introdurre alcune correzioni per via legislativa al fine di: evitare che la durata del processo sia un risultato economicamente vantaggioso per una delle due parti; limitare i formalismi processuali a quelli necessari per la garanzia delle parti; favorire forme di motivazione succinta per le questioni di manifesta infondatezza o inammissibilità o in cui vi è già una giurisprudenza consolidata. In aggiunta i giudici potrebbero: prendere decisioni in forma abbreviata per le questioni di manifesta infondatezza; coordinare diversi magistrati e diverse sezioni degli stessi organi per risolvere problemi frequenti; controllare la correttezza e la puntualità dei consulenti tecnici d’ufficio; unificare la trattazione delle cause uguali (Gallo, Silva, 2006, p. 322). Oltre alle regole processuali, occorre intervenire sui magistrati e sulla discontinuità nel loro reclutamento, che avviene con grandi assunzioni seguite a periodi di vuoto: al di là dei problemi di finanza pubblica, il blocco di assunzioni ha prodotto prevalentemente danni e il concorso per uditore giudiziario, nonostante la preselezione con quesiti a risposta multipla, rappresenta una vera e propria prova fisica, in cui non sempre vengono selezionati i migliori. Sicuramente la soluzione migliore per ridurre il numero dei singoli processi è

agire sulla domanda di giustizia, che è alimentata in modo innaturale dal numero eccessivo di avvocati: ogni anno migliaia di avvocati si aggiungono ai circa 170.000 già presenti, che non essendo impegnati tutti in contenziosi di alto livello, si concentrano sulle cause minori (Gallo, Silva, 2006, p. 326). Tuttavia l’esito di molte cause dipende sempre più spesso dagli errori dei difensori, che lasciano scadere i termini o omettono di proporre argomenti di difesa o sbagliano su questioni pregiudiziali: i clienti più deboli non sono in grado di scegliere adeguatamente l’avvocato, così il problema della disoccupazione si trasforma in un danno al funzionamento della giustizia e al sistema produttivo. In questo senso è necessaria una riforma della giustizia, in virtù della quale diminuire il numero di chi può accedere alla professione forense, aumentare le tasse sui contributi previdenziali per chi esercita la professione con un basso volume di fatturato, stabilire l’onorario degli avvocati in proporzione alla natura e al valore della causa (e non alla durata di essa). In aggiunta bisogna sviluppare forme di Alternative Dispute Resolution (Adr), come la conciliazione o l’arbitrato, che si svolgono dinanzi a organi diversi da quelli giurisdizionali (Gallo, Silva, 2006, p. 328).

Differenze territoriali: la “Terza Italia” e il Mezzogiorno

L’espressione “Terza Italia”, coniata dal sociologo Arnaldo Bagnasco nel 1977, identifica un’area del centro e nord-est Italia, accomunata da caratteristiche

simili, quali una struttura industriale prevalentemente di piccole e medie imprese, l’elevata flessibilità alle variazioni di mercato, l’eccellenza del settore manifatturiero. Ancora oggi questi territori sono accomunati da caratteristiche omogenee e da una sostanziale ricchezza e prosperità, che si traduce in welfare e servizi pubblici di standard elevato e alta qualità della vita. Di fronte all’assenza di una politica industriale regionale, alla prolungata crisi economica e alla feroce competizione delle potenze industriali dei paesi emergenti, i governi regionali di quest’area hanno cercato di mantenere alti i livelli di prosperità e di qualità della vita attraverso strategie di rilancio dei propri sistemi manifatturieri. Le Regioni hanno prima individuato, e poi implementato le specializzazioni economiche settoriali tradizionali attraverso investimenti in specializzazioni tecnico- scientifiche, che hanno portato a competitività e innovazione. L’impatto di particolari tecnologie abilitanti è stato tanto maggiore, quanto tali tecnologie si sono integrate con la specificità e le caratteristiche dei processi produttivi e dei prodotti delle imprese regionali: diventa indispensabile un’analisi del contesto produttivo esistente e del potenziale di crescita e di innovazione dei diversi settori tradizionali, in virtù della quale adottare poi metodologie in grado di individuare i settori strategici. I governi di alcune regioni italiane, in particolare Emilia-Romagna, Marche e Toscana, hanno cercato di “battere il mercato”, promuovendo interventi di politica industriale efficaci, efficienti e rivolti all’interesse generale della comunità: particolare attenzione è stata rivolta ai

settori manifatturieri, in quanto caratterizzati da un’elevata produttività del lavoro, economie di scala dinamiche, cambiamento tecnologico e innovazione, ed esternalità positive. Oltre all’impatto economico positivo sull’occupazione in questo settore, bisogna considerare anche la variabile di crescita del valore aggiunto, della produttività del lavoro e dei salari medi, che compongono le caratteristiche di un settore strategico in chiave dinamica (Tassinari et al., 2014, pp. 47-49).14

Il Mezzogiorno, invece, rappresenta un problema e un ostacolo alla crescita da diversi anni. Le prime misure di politica regionale in favore di quest’area risalgono al 1951 con la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, un organismo che doveva attuare la politica di sviluppo delle regioni più arretrate del Paese attraverso la costruzione di infrastrutture e gli incentivi finanziari per localizzare le imprese pubbliche nelle aree obiettivo. Le tipologie di aiuti più comuni per ridurre il costo di insediamento delle imprese nelle regioni più deboli erano incentivi fiscali, prestiti a tasso agevolato, sovvenzioni in conto capitale, contributi all’occupazione, aiuti per i costi di trasporto (Viesti, Prota, 2007, p. 83). Ad esempio, dal 1958 sono state realizzate aree industriali, in cui attirare gli investimenti delle grandi imprese pubbliche e private e sono stati costruiti grandi complessi di industrie di base, chimica e siderurgica secondo l’approccio top-

14Nel 2012 il settore manifatturiero ha registrato un valore aggiunto pari a oltre 250 miliardi di euro, se si pensa che per 100 posti di lavoro creati nell’industria manifatturiera, se ne sono generati da 60 a 200 nel resto dell’economia (Commissione Europea, 2012).

down: il governo centrale ha solo definito la politica generale, scegliendo le aree e le modalità di attuazione degli interventi. Negli anni Settanta la necessità di