Le politiche industriali: alcuni esempi dall'estero
2. azioni per accelerare l'andamento delle imprese a un miglior sfruttamento delle loro potenzialità tecnologiche con azioni volte a
3.4 Le esperienze di alcuni paesi orientali Giappone
Il Giappone merita particolare attenzione nel dibattito sulle politiche industriali, che si è sviluppato recentemente. In realtà, fino alla seconda Guerra Mondiale, il Giappone non era ancora una potenza economica: tra il 1900 e il 1950 il tasso di crescita del reddito pro-capite era appena dell'1%. Fino alla fine
degli anni cinquanta, lana e seta costituivano i prodotti di maggiore esportazione; le imprese necessitavano di denaro pubblico per evitare il fallimento; la produzione di output totale crollò da 2,897 $ nel 1941 a 1,555 $ nel 1946 (Chang et al., 2013, p. 21). Successivamente il governo giapponese decise di adottare una forte politica industriale per sviluppare settori ad alto valore aggiunto, come l'acciaio, l'automobile e l'elettronica, non attraverso sovvenzioni, ma attraverso finanziamenti a lungo termine elargiti dalla Japanese Development
Bank (JDB) e da altre istituzioni finanziarie pubbliche, come la Banca di credito a
lungo termine e la Banca Industriale. Al contempo vennero utilizzate in maniera attiva misure protezionistiche e normative severe sugli investimenti diretti esteri e sulle importazioni tecnologiche in modo da assicurare al paese royalties ragionevoli e tecnologie non obsolete. Le industrie selezionate venivano supportate con sovvenzioni per le esportazioni e investimenti in ricerca e sviluppo. Il governo inoltre utilizzò la pianificazione indicativa e il razionamento in valuta estera per impedire alle grandi imprese di abusare della loro posizione di monopolio o di oligopolio e spingerle ad investire nel miglioramento delle capacità produttive dei propri fornitori.
La performance giapponese dopo gli anni cinquanta, soprattutto nell'era "d'oro del capitalismo" (1950-73) è stata incredibile: il reddito pro-capite è cresciuto al tasso dell'8,05%, oltre tre volte superiore a quello degli Stati Uniti (2,45%). Il miracolo economico del Giappone è stato merito della presenza di un
development state, cioè di un coordinamento realizzato dal MITI (Ministry of International Trade and Industry) mediante una politica industriale mirata e
deliberata, che interveniva direttamente nell'economia con una pianificazione decisa e che era promossa da una burocrazia statale relativamente indipendente. La politica industriale del MITI non consisteva nel decidere chi doveva vincere e chi doveva perdere, ma nel coordinare il cambiamento intra-industriale, i collegamenti inter-settoriali e inter-aziendali e lo spazio pubblico-privato in modo da consentire una crescita mirata. Il ruolo dello Stato non era solo quello di creare conoscenza attraverso laboratori di ricerca nazionali e università, ma anche quello di diffondere ad ampio raggio la conoscenza e le innovazioni fra diversi settori dell’economia (Mazzucato, 2014, p. 59). Su queste basi, negli anni settanta, il Giappone si è lanciato nei mercati, che fino ad allora erano considerati domini esclusivi dell'Europa e dell'America settentrionale: automobile, acciaio, costruzione navale ed elettronica. Negli anni novanta, i prodotti giapponesi, come l'automobile Toyota o Lexus, erano diventati sinonimo di qualità, design innovativo e affidabilità.
Sebbene la politica industriale giapponese fino al 1990 non fosse molto diversa da quella adottata nel Regno Unito tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo e quella degli Stati Uniti tra la metà del XIX e la metà del XX secolo, possiamo riscontrare due significative innovazioni. La prima riguarda l'istituzione di consigli per le politiche dei settori chiave, composti da funzionari governativi,
rappresentanti di settore e altri osservatori obiettivi, come giornalisti e accademici: questi consigli hanno reso più efficace la politica industriale, migliorando i flussi di comunicazione tra il governo e il settore privato. La seconda riguarda la migliore tecnica di gestione dei cartelli: il governo giapponese ha considerato positivamente il ruolo di quest'ultimi nello sviluppo industriale, in quanto potevano ridurre la wasteful competition, che distruggeva il profitto e pregiudicava le capacità di innovare e investire nel lungo periodo. Il rischio che i cartelli potessero diventare forze conservatrici e impedire il progresso venne ridotto al minimo, perché la creazione di cartelli era consentita solo in condizioni chiare in termini di finalità e di durata (Chang et al., 2013, p. 23).
Il crollo del mercato azionario del 1990, seguito alla cosiddetta lost
decade ha prodotto significativi cambiamenti nell'approccio governativo alle
politiche industriali, che nel complesso sono diventate meno mirate a livello settoriale e più decentralizzate a livello regionale. A metà degli anni novanta, l'agenda di politica industriale è stata dominata dagli interventi di deregulation, che hanno indebolito il quadro nazionale delle politiche industriali. Nel 2000 questo nuovo approccio ha portato alla trasformazione del MITI in METI (Ministry of Economy, Trade and Industry) e, successivamente, alla possibilità di fusioni e acquisizioni di imprese giapponesi da parte di società straniere attraverso lo scambio di titoli. Nonostante questi cambiamenti, la politica
industriale è comunque proseguita nelle due nuove aree chiave della promozione e dell'innovazione delle PMI.
Le PMI hanno sempre svolto un ruolo chiave nell'economia giapponese come fornitori di componenti e input intermedi alle grandi imprese di successo a livello internazionale, soprattutto nell'industria automobilistica, elettronica e in altri settori di assemblaggio. Tuttavia, con la prima stagnazione degli anni novanta e nei primi anni 2000, sono emersi la lenta crescita della domanda interna e la maggiore competizione in ambito internazionale. In questo periodo le piccole e medie imprese giapponesi sono state indirettamente aiutate dai fondi pubblici immessi nel sistema bancario, che hanno permesso loro di avere accesso a un prestito con bassi tassi di interesse. Oltre a questo, il governo giapponese ha implementato un pacchetto completo di politiche industriali e dell'innovazione mediante una maggiore coordinamento nel consiglio del METI per le PMI, al fine di promuovere le attività di start-up e aumentare la capacità di innovazione delle PMI esistenti: le forme di sovvenzionamento (come il trattamento fiscale agevolato per gli investimenti in R&S) e le riforme normative (come la soppressione del requisito minimo patrimoniale per avviare le imprese) sono state integrate con misure volte a favorire l'infrastruttura scientifica e tecnologica (Chang et al., 2013, p. 24). Dal 2001 al 2010 il piano scientifico e tecnologico prevedeva un budget di quasi 400 miliardi di euro da investire in quattro aree prioritarie: scienza della vita, ICT, ambiente e nanotecnologie. In
aggiunta sono state identificate una serie di industrie chiave per soddisfare le esigenze sociali future. Si trattava di robot, celle a combustibile, contenuti digitali ed elettronica di consumo digitale. Tra le misure politiche adottate, particolare attenzione è stata dedicata ai "cluster regionali di consorzio", cioè reti formate da industrie, università e centri di ricerca. Secondo Harayama (2001, p. 272), i grandi progetti giapponesi sono stati caratterizzati da:
• obiettivo di sviluppare nuove tecnologie e nuovi prodotti che il settore privato non avrebbe sviluppato da solo a causa dei costi e rischi elevati; • investimenti a lungo termine, totalmente finanziati dal governo, ma che
mobilitano la capacità di ricerca delle imprese private;
• progetti mirati su tecnologie che hanno un potenziale di impatto economico elevato;
• imprese partecipanti selezionate secondo la capacità di ricerca e il peso nel mercato potenziale;
• organizzazione basata sul sistema di ricerca commissionata che coinvolge l'università, le imprese private e i laboratori di ricerca privati;
• monitoraggio e valutazione dei risultati.
A partire dal 2002 il livello delle esportazioni era aumentato del 10% annuo fino al 2007, quando è crollato a causa della crisi internazionale: nel 2009
le esportazioni risultavano diminuite del 36,5% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Le ragioni sono riconducibili ad un mercato interno largamente maturo, di fronte al quale le imprese hanno spostato le loro produzioni all'estero, in particolare verso gli altri paesi asiatici, sia per far fronte alla domanda locale in crescita, sia per reimportare una parte delle produzioni in patria: tra il 2003 e il 2008 gli investimenti diretti in Asia sono aumentati del 150% (Comito, 2009). Con la caduta del PIL durante la crisi del 2008 (-6,3% nel 2009, cioè il dato peggiore tra le economie avanzate), si è messa in evidenza la vulnerabilità di una catena produttiva globale: in alcuni settori la velocità con cui la produzione ha rallentato o si è bloccata del tutto a causa della mancanza di produzioni intermedie made in Japan ha portato molti a rievocare l'effetto contagio, sperimentato già con la crisi dei mutui negli USA. I settori automobilistico ed elettronico sono stati i più penalizzati: basti pensare che due imprese giapponesi controllano il 90% del mercato di una resina necessaria alla produzione di smartphone e apparecchi simili, e che le batterie dell'iPod sono realizzate con un polimero prodotto da un'impresa giapponese, che controlla il 70% del mercato (Carletti, Costagli, 2011). Nel 2010 il Giappone ha registrato la maggiore crescita degli ultimi venti anni (+3,9%), uscendo dalla crisi più velocemente degli altri paesi avanzati, grazie ad imponenti misure fiscali e ad una forte ripresa delle esportazioni, che rappresentano circa il 4,6% delle
esportazioni mondiali. Tuttavia alla fine dello stesso anno, il paese ha ceduto alla Cina la seconda posizione al mondo per ammontare di PIL.
Corea del Sud
Tra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso, anche la politica industriale coreana ha seguito una traiettoria molto simile a quella giapponese, anche se il percorso è stato più drammatico, sia perché tecnologicamente la Corea era più arretrata rispetto al Giappone, sia perché il settore privato coreano era più debole di quello giapponese, per cui era necessario un maggiore intervento governativo per sollevare le imprese competitive a livello internazionale. L'implementazione delle politiche industriali coreane è stata anche più centralizzata rispetto a quella giapponese: la responsabilità era affidata all'Economic Planning Board (EPB), che controllava anche il bilancio governativo. Di conseguenza i piani quinquennali per lo sviluppo economico tra il 1962 e il 1993 e la relativa politica industriale erano molto più diretti rispetto al Giappone, da cui la Corea aveva emulato i consigli di deliberazione, anche se le imprese del settore privato avevano meno influenza nelle loro decisioni rispetto a quelle giapponesi (Chang et al., 2013, p. 30). Inizialmente il settore privato coreano era totalmente soggetto alla razionalizzazione del credito e degli scambi esteri. La razionalizzazione dei crediti è stata possibile perché tutte le banche sono state di proprietà statale fino al 1983 e perché le privatizzazioni sono state controllate dal governo attraverso i regolamenti fino agli inizi del 1990. La
razionalizzazione dei cambi è stata condotta "attraverso il sistema di bilancio in valuta estera, basato su un monopolio statale di tutte le operazioni in valuta estera fino ai primi anni novanta. Ciò ha dato al governo un'enorme potere sulle imprese del settore privato, perché il basso livello di sviluppo tecnologico della Corea e la sua scarsa disponibilità di materie prime consentivano alle società di acquisire beni strumentali necessari, beni intermedi o materie prime solo attraverso l'accesso a scambi stranieri" (Chang et al., 2013, p. 30). In questo modo i produttori di beni di consumo hanno ricevuto una protezione naturale, poiché le importazioni di tali beni erano molto al di sotto nell'elenco prioritario del bilancio governativo della valuta estera e pertanto non potevano essere importati a causa della mancanza dei fondi finanziari per pagare, e non per i controlli o le tariffe di importazione. Anche i produttori nazionali nei settori strategici sono stati protetti dalla concorrenza delle multinazionali produttrici in Corea, poiché esistevano regolamenti sugli investimenti diretti esteri molto rigidi, come in Giappone. Infine vi erano anche disposizioni sulla licenza tecnologica sia in termini di qualità che di prezzo della tecnologia importata allo scopo di sviluppare produttori locali con capacità produttive di livello mondiale (Chang et
al., 2013, p. 31).
A differenza del Giappone, il governo coreano ha scelto di utilizzare le imprese pubbliche statali: a questo proposito l'esempio più importante è il POSCO (Pohang Steel Company), privatizzato nel 2000, che è stato il secondo più
grande produttore di acciaio al mondo fino alla recente fusione con l'industria siderurgica mondiale. Altra differenza con il Giappone riguarda il processo di ristrutturazione aziendale nel settore privato, perché le normative sul mercato azionario rendevano impossibili le fusioni e le acquisizioni: la banca di sviluppo coreano, la Korea Development Bank, ha svolto un ruolo chiave nel processo di crescita, talvolta fornendo prestiti sovvenzionati a scadenza prolungata alle imprese in fasi di ristrutturazione e talvolta assumendo una partecipazione in tali imprese, che poteva portare anche allo loro effettiva nazionalizzazione.
Dal 1990 la politica industriale coreana ha attraversato un periodo di declino abbastanza drammatico: le ideologie neoliberiste difese dagli economisti del libero scambio negli Stati Uniti e l'intensa attività di influenza delle lobbies del settore privato hanno portato il governo a ridurre la politica industriale fin dal 1993. L'episodio più simbolico in questo senso è stata l'interruzione del piano quinquennale nel 1993 e l'abolizione nel 1994 dell'EPB, che venne accorpato con il Ministero delle finanze. Con la crisi finanziaria del 1997 ci fu un ulteriore ciclo di riduzione della politica industriale: il risultato più evidente fu il trasferimento del mandato di politica commerciale internazionale dal Ministry of Trade and
Industry (MOTI) al Ministry of Foreign Affairs (MOFA), a dimostrazione che il
governo considerava il commercio internazionale come un problema di negoziati diplomatici piuttosto che un elemento di politica industriale (Chang et al., 2013, p. 32).
La liberalizzazione del mercato dei capitali dal 1997 ha esercitato pressioni a breve termine sulle imprese e ha influenzato negativamente il ruolo del settore privato nell'investimento e nella R&S. Tra il 1998 e il 2010 la formazione privata di investimenti fissi lordi come percentuale del PIL è stata in media del 18,4%, con un calo rispetto al periodo 1990-1997 , quando è stata pari al 23,7%. Nonostante questa tendenza generale verso un peso minore di politica industriale negli ultimi due decenni, la pratica di considerare determinate industrie come strategiche e di fornire sostegni mirati ad esse è stata comunque perseguita. Le industrie di biotecnologia, di nanotecnologia e quelle green sono state oggetto di tale sostegno sotto forma di finanziamento della R&S, garanzie di credito e finanziamenti pubblici per la formazione: la quota di spesa pubblica in termini di spesa per la R&S è salita dal 20% al 26,7% nel 2010. La crescita costante della spesa in R&S si è tradotta in una delle più alte R&S finanziate dal governo come percentuale del PIL al mondo. Infine, fin dagli anni novanta, il governo ha tentato di sviluppare cluster industriali nelle regioni economicamente più deboli, ma non hanno avuto successo, a causa della mancanza di reti istituzionali solide e forti (Chang et al., 2013, p. 32).
Cina
A prescindere dal regime politico instaurato (dinastia Qing, governo nazionalista e governo comunista), la Cina ha svolto un ruolo importante nella mobilitazione di risorse, nello sviluppo delle infrastrutture e nella crescita delle
industrie strategiche fin dalla fine del XIX secolo. Durante la transizione verso un'economia di mercato negli anni ottanta e novanta, la politica industriale ha continuato a pesare nelle scelte dei funzionari cinesi e molte iniziative negli anni ottanta sono state ispirate dalle esperienze del Giappone e della Corea. Nel 1987 è stato istituito un dipartimento di politica industriale sotto la commissione per la pianificazione dello stato e nel 1989 il concetto di politica industriale è stato menzionato esplicitamente per la prima volta in un documento ufficiale. Nel 1994 è emersa la necessità di accelerare lo sviluppo delle industrie principali e di alta tecnologia e di rivedere la composizione del commercio estero, rafforzando la competitività produttiva. Il regolamento sugli investimenti diretti esteri, modificato nel 1997, ha tracciato le linee guida per i settori ad alta tecnologia, in cui sono stati incoraggiati, limitati o proibiti gli investimenti esteri (Chang et al., 2013, p. 42).
Le politiche industriali della Cina sono incluse nei suoi piani quinquennali. Il Sesto Piano del 1981-1986 ha segnato una sostanziale differenza rispetto ai piani precedenti, perché più orientato all'estero. Il commercio estero e il capitale sono stati incoraggiati per facilitare l'importazione di tecnologie avanzate nel paese. La promozione delle industrie ad alta tecnologia e della R&S sono divenute tematiche ricorrenti nei piani quinquennali successivi. Le industrie strategiche sono state individuate in base alla loro importanza per la sicurezza e l'economia nazionale e al loro potenziale di crescita: ad esempio, automobili a
combustibile alternativo, biotecnologie, tecnologie per il risparmio energetico e ambientale, energia alternativa, tecnologia informatica di nuova generazione. Analogamente alla Corea e al Giappone, la Cina ha sviluppato con successo le grandi imprese nazionali: in questo senso la politica industriale cinese condivide alcune caratteristiche con le sue controparti asiatiche e va oltre le tariffe dirette, le sovvenzioni e il protezionismo commerciale. In primo luogo, le industrie chiave identificate nei piani quinquennali per lo sviluppo sono state protette dalla concorrenza straniera attraverso barriere tariffarie e non, e sono state finanziate da prestiti provenienti da banche statali come la ExportImport Bank of China, la
Agricultural Development Bank of China (ADBC) e la China Development Bank
(CDB). In secondo luogo, attraverso il sistema delle licenze, gli investimenti sono stati diretti in modo strategico: ad esempio, gli investimenti diretti esteri sono stati incanalati in settori mirati e in aree geografiche designate come Special
Economic Zones (SEZ). Ciò è stato evidente negli anni sessanta, quando il governo
ha individuato nuove industrie nelle aree interne in modo da distribuire lo sviluppo industriale; negli anni ottanta gli investimenti pubblici furono indirizzati nuovamente verso le aree costiere, al fine di massimizzare gli impatti sulla crescita e sull'accesso ai mercati esteri; recentemente le disparità regionali hanno costretto nuovamente il governo a spostare gli investimenti verso le aree interne. In terzo luogo, lo stato cinese ha avviato le fusioni e le acquisizioni con un decreto amministrativo: ad esempio, il consolidamento statale delle imprese
più piccole e competitive nel settore dell'elettronica ha portato alla formazione di grandi aziende come la China Electronics Corporation. Nel corso degli anni, il governo ha continuato a perseguire la propria politica di consolidamento del settore per sviluppare grandi imprese a livello internazionale: un esempio recente è la fusione tra la China Electronics Corporation e la Irico Group, azienda produttrice di apparecchi fotovoltaici. In quarto luogo sono state promossi gruppi industriali per sfruttare i vantaggi derivanti dagli effetti di un'agglomerazione, come l'integrazione più stretta tra fornitori, produttori e clienti, da un lato, e una crescita più rapida dell'innovazione dall'altro. In quinto luogo le politiche sono state sviluppate per facilitare i trasferimenti di tecnologie provenienti da nazioni economicamente più avanzate: i regolamenti sulle importazioni tecnologiche e sulle multinazionali sono stati fatti per formare joint
venture con società cinesi, la maggior parte delle quali sono imprese nazionali
pubbliche oppure sono associate a partner governativi. Attraverso le joint
venutre lo stato ha mantenuto un controllo efficace sulle affiliate estere in modo
da favorire gli interessi cinesi. Altre strategie di trasferimento tecnologico comprendevano acquisizioni e fusioni di maggioranza e fusioni con società straniere provenienti dai paesi più avanzati, oltre a incentivi per stimolare le imprese straniere a creare centri di ricerca e sviluppo in Cina. Infine sono state utilizzate sovvenzioni all'esportazione e svalutazioni monetarie al fine di
migliorare la competitività delle esportazioni nei mercati internazionali (Chang et
al., 2013, pp. 42-44).
La Cina ha chiuso il 2014 con un tasso di crescita del 7,4%, oltre tre volte e mezzo il ritmo di crescita del resto del mondo (2,2%). Tale risultato è frutto di un processo di trasformazione in primis strutturale: la strategia di sviluppo della Cina si è basata per lungo tempo su un'elevata capacità di investimento e sui rilevanti incrementi di produttività ottenuti dalla trasformazione di una società arretrata e contadina in una realtà industriale. La crescita demografica e l'imponente trasferimento di forza lavoro dal settore primario al settore secondario hanno consentito di realizzare un processo di industrializzazione estensiva mai visto prima. Con lo sviluppo della capacità produttiva degli altri paesi asiatici, soprattutto verso le produzioni a minore valore aggiunto, la Cina ha intrapreso un processo di arricchimento e affinamento della sua strategia industriale, realizzando a livello mondiale investimenti in R&S per il 17%, con la previsione di sorpassare gli Stati Uniti nel 2022 (Carletti, 2015). In sintesi diverse sono le considerazioni a sostegno di una visione positiva della sviluppo cinese. Innanzitutto la maggiore importanza dedicata alla realizzazioni di produzioni industriali destinate all'esportazione. In secondo luogo, la leadership nelle attività ad alto valore aggiunto, come il settore ferroviario: si pensi al collegamento ferroviario di oltre undicimila chilometri in costruzione tra
Chongqing, megalopoli della Cina centrale, e Duisburg in Germania, che farà abbassare da 36 a 13 giorni i tempi di trasporto delle merci.
CONCLUSIONI
L'idea di approfondire il tema delle politiche industriali è nata durante