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Alla riscoperta delle politiche industriali

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Academic year: 2021

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Alla riscoperta delle

politiche industriali

INTRODUZIONI CAPITOLO 1

L’intervento dello Stato in economia

1.3 Definizioni di politica industriale 1.4 La visione liberista

1.5 La visione interventista

1.6 Dal protezionismo all’unione economica 1.7 La globalizzazione

CAPITOLO 2

Le politiche industriali in Italia

2.1 Storia dell’apparato economico-industriale italiano dal dopo-guerra alla crisi del 2008

2.2 I fattori che ostacolano la crescita 2.3 Gli strumenti di politica industriale

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CAPITOLO 3

Le politiche industriali: alcuni esempi dall’estero

3.1 Le politiche industriali durante il processo di costituzione dell'Unione Europea

3.2 La politica industriale active del Regno Unito 3.3 I “pionieri” della politica industriale: gli Stati Uniti 3.4 Le esperienze di alcuni paesi orientali

CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONI

La crisi economica globale del 2008 ha riproposto il tema dell'intervento pubblico nell'economia dopo decenni in cui la politica industriale era stata fortemente ridimensionata, coerentemente con la visione liberista.

L'obiettivo principale di questo lavoro è quello di definire la politica industriale e, attraverso lo studio di diversi casi, individuare i punti di forza e di debolezza che hanno caratterizzato l'intervento dello stato in economia. In questo contesto risulta fondamentale partire dalle diverse definizioni di politica industriale proposte nella letteratura economica, sottolineando la differenza tra i due approcci principali: la visione liberista e quella interventista. Per comprendere le problematiche e il ruolo giocato dai singoli governi, è stato approfondito il percorso dello sviluppo economico di alcuni paesi: dall'analisi storica approfondita del sistema economico-industriale italiano, si passa al processo di costituzione dell'Unione Europea, che ha conosciuto l'evoluzione dal protezionismo all'unione economica, e poi allo studio di alcuni casi esteri, quali il Regno Unito, gli Stati Uniti e alcuni paesi orientali (Giappone, Cina e Corea del Sud).

Il lavoro in particolare è organizzato in tre parti principali. La prima parte si sofferma sull'idea di intervento statale nell'economia: in primis vengono riportate le definizioni di politica industriale proposte nella letteratura

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economica fino ad identificare due posizioni a confronto, ovvero quella funzionale, secondo cui lo Stato deve concentrarsi sulla fornitura di servizi, e quella selettiva, secondo cui lo Stato deve favorire settori o imprese particolari. Successivamente viene ricostruita la dicotomia tra la visione liberista e la visione interventista, fino ad arrivare alla nascita e allo sviluppo della globalizzazione, con la conseguente crisi finanziaria del 2007.

Il secondo capitolo analizza le politiche industriali realizzate in Italia. Partendo da un'analisi storica dell'apparato economico-industriale dal dopo-guerra, vengono ripercorse le tappe fondamentali del processo di sviluppo economico del nostro paese: il “Piano Sinigaglia”, il “miracolo italiano”, le nazionalizzazioni e la politica di salvataggio pubblico, seguita dalla fase di privatizzazioni e liberalizzazioni e il nuovo percorso di politica industriale denominato “Industria 2015”. Ripercorrere le tappe fondamentali della crescita economica degli ultimi sessant'anni ci permette di approfondire dapprima i fattori che hanno ostacolato la crescita, ovvero la specializzazione produttiva, l'inefficienza sul lato dei costi, la mancanza di allineamento tra domanda e offerta di competenze, la dimensione delle imprese, gli investimenti in ricerca e sviluppo, l'apparato amministrativo e giudiziario e le differenze territoriali tra le regioni meridionali e quelle settentrionali. In secondo luogo ci permette di classificare gli strumenti di politica industriale di tipo funzionale, distinti tra processi selettivi e processi automatici di selezione. Sulla base di queste analisi,

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vengono descritte le nuove direzioni percorse dalla politica industriale alla luce della crisi del 2008: i grafici e le tabelle elaborate della Commissione Europea illustrano la composizione e la natura della politica degli aiuti di Stato e la spesa degli stati europei per salvare le banche con l'obiettivo di valutare criticamente l'efficacia di valutare le politiche attuate in Italia, in confronto agli altri paesi.

Il terzo capitolo, infine, mostra alcuni esempi dall'estero di politica industriale. In particolare si ripercorre il processo di costituzione dell'Unione Europea per osservare l'evoluzione delle politiche attuate e realizzate dai singoli paesi, alla luce del mercato comune europeo, fino ad arrivare alla Strategia Europa 2020, con cui i singoli stati si pongono l'obiettivo di raggiungere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. La politica industriale del Regno Unito occupa una parte a sé stante dal lavoro, in virtù delle peculiari modalità di stanziamento e coordinamento delle politiche di sviluppo industriale tra Inghilterra, Scozia e Galles: è interessante osservare come i fondi provenienti da agenzie di sviluppo regionali, programmi di finanziamento nazionali e fondi strutturali europei si sono incentrati sui bisogni delle piccole e medie imprese e hanno supportato il settore dei servizi. Diverso è il caso dei paesi oltre-oceano. Gli Stati Uniti, da una parte hanno svolto il ruolo di leader internazionale durante il XX secolo, dall’altra hanno sempre omesso o persino negato di ricorrere all’intervento di politica industriale, in virtù della loro adesione alle teorie del libero mercato, che interpretano l’intervento pubblico nelle dinamiche

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produttive come un'intrusione del governo. Questa ideologia è divenuta dominante soprattutto negli anni del Washington Consensus contribuendo a radicare l’idea, ancora oggi molto influente, di una non desiderabilità dell’intervento di governo. Infine lo sguardo viene rivolto ad alcuni paesi orientali. Il Giappone merita attenzione per due rilevanti innovazioni, che hanno caratterizzato la sua politica industriale: i consigli per le politiche dei settori chiave e la tecnica di gestione dei cartelli, che hanno trasformato il paese in una vera e propria potenza economica a partire dagli anni '70. La Corea del Sud ha conosciuto un maggiore intervento governativo attraverso i piani quinquennali e le politiche centralizzate, che hanno portato il paese ad avere una delle più alte spese in R&S finanziate dal governo come percentuale del PIL al mondo. La Cina include le politiche industriali nei suoi piani quinquennali, che individuano le industrie strategiche in base alla loro importanza per la sicurezza e l'economia nazionale e al loro potenziale di crescita: è il caso di automobili a combustibile alternativo, biotecnologie e tecnologie per il risparmio energetico e ambientale.

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CAPITOLO 1

L’intervento dello Stato in economia

1.1 Definizioni di politica industriale

Sulla base di un’analisi della letteratura economica possiamo proporre diverse definizioni di politica industriale. Letteralmente significa “una politica che colpisce l'industria, allo stesso modo in cui la politica agricola colpisce l'agricoltura” (Chang, 2010, p. 84).

D’altra parte esistono definizioni più ampie dello stesso concetto. Ad esempio, Donges (1980, p.189) intende la politica industriale come l’insieme di tutte le misure del governo, che influenzano l’industria, dalle politiche d’investimento nazionale e all’estero alle politiche d’innovazione, da quelle di apertura o chiusura del commercio internazionale a quelle regionali e del lavoro. Anche Curzon Price (1981, p. 17) dà una definizione generale, intendendo “l’insieme di tutte le misure usate per promuovere o impedire il cambiamento strutturale”. Lall (1994, p. 651) amplia il concetto, includendo “tutte le azioni di governo realizzate allo scopo di arrivare ad un livello di sviluppo maggiore di quello che permette il sistema di mercato libero”. Allo stesso modo per politica industriale Gual (1995, p. 9) intende “un insieme di interventi pubblici che mirano a cambiare l’allocazione delle risorse tramite imposte, sussidi e

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regolamentazione sui prodotti o sui fattori di produzione in seguito all’operazione libera delle forze di mercato”. Infine Bianchi e Labory (2006, p. 259) hanno definito la politica industriale come un insieme di interventi, che fissano le regole della concorrenza da un lato, e che accompagnano il cambiamento strutturale dell’economia dall’altro. Distinguono tra la politica industriale, intesa come programma o strategia di sviluppo industriale, e le politiche industriali, intese come pluralità di interventi di varia natura: misure che fissano le regole della concorrenza (antitrust, regolamentazione dei prodotti, del lavoro e dei monopoli naturali); misure che favoriscono la partecipazione alla concorrenza (azioni per creare impresa, per l’imprenditorialità, per l’innovazione e per lo sviluppo di tecnologie del futuro); misure orizzontali valide per tutte le imprese (programmi di Ricerca & Sviluppo, formazione, legislazione ambientale); misure verticali specifiche per alcuni settori.

Bisogna fare attenzione a non dare una definizione troppo ampia per evitare il rischio di confondere le politiche industriali con le politiche per lo sviluppo, con le quali condividono le finalità, ma non gli obiettivi strumentali per raggiungerle. Al contempo non bisogna dare nemmeno una definizione troppo restrittiva per evitare di escludere le politiche orizzontali che favoriscono una serie di imprese e industrie. Recentemente Chang (2010, p. 84) ha specificato che per politica industriale non si intende qualsiasi politica che condiziona l'industria, ma una tipologia molto particolare, nota come “politica industriale

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selettiva o targeting”, che favorisce deliberatamente alcune industrie piuttosto che altre, al fine di migliorare l'efficienza e promuovere la crescita della produttività contro i segnali del mercato.

Il dibattito sull'esistenza e la definizione di politica industriale suggerisce due importanti considerazioni: in primo luogo la portata di queste misure non può essere identificata in termini quantitativi, perché si rischia di sottovalutare l'impatto e la profondità della politica industriale, sia a livello di settore, sia a livello comunitario; in secondo luogo non si può valutare l'impatto della politica industriale di un paese esclusivamente sulla base della prestazione dei settori strategici, perchè si rischia di ignorare gli effetti delle misure di una politica “super-settoriale”, che riguardano la complementarietà, i legami e le esternalità tra settori. Per far funzionare al meglio una politica industriale, occorre guardare alle questioni circostanti, come il targeting, la possibilità da parte dello Stato di battere il mercato, l'economia politica, le capacità burocratiche, la misurazione delle prestazioni, le esportazioni e il cambiamento del contesto globale (Chang, 2010, p. 90).

Vengono messe a confronto due posizioni: la prima di chi sostiene una politica industriale generale (o funzionale), secondo cui lo Stato dovrebbe concentrarsi sulla fornitura di servizi, come l'istruzione, le infrastrutture e la R&S, di cui beneficiano ugualmente tutte le imprese. La seconda di chi sostiene una politica industriale selettiva (o di settore), in cui lo Stato cerca di “scegliere i

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vincitori”, favorendo settori o imprese particolari. Le uniche politiche che possono essere chiamate generali sono quelle che riguardano l'istruzione e la salute: considerale politiche industriali spinge il concetto “oltre la ragione” (Chang, 2010, p. 90). L'economista coreano osserva come ogni scelta politica, anche se può sembrare generale, in realtà ha effetti discriminatori, che corrispondono al targeting: ad esempio, un governo che decide di costruire una ferrovia anziché una strada, sta favorendo implicitamente l'industria siderurgica. Selettività e targeting sono coinvolti in ogni misura di politica industriale, definita in senso largo; l'unica differenza è rappresentata dal grado. Più una politica è mirata, più è facile monitorare i benefici e ridurre le perdite. Naturalmente anche il targeting ha i sui costi, in quanto una selettività troppo precisa potrebbe rendere più facile l'attività di lobbying, oppure potrebbe rendere i beneficiari troppo facili da identificare e in questo modo crollerebbe il mito delle politiche imparziali. Nonostante questi problemi, bisogna comunque riconoscere l'inevitabilità del targeting e smettere di pensare che esista una relazione lineare, positiva o negativa, tra il livello di selettività e il successo delle politiche (Chang, 2010, p. 91).

In alcune circostanze i funzionari governativi hanno deciso di investire contro i segnali del mercato, talvolta anche utilizzando le imprese statali come veicolo: questi casi sono noti come “fallimenti del mercato dei capitali”, ma sarebbe più corretto ammettere che lo Stato a volte “può battere il mercato”.

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Molte decisioni vengono prese a livello statale, non perché i funzionari governativi siano onniscienti o intelligenti uomini d'affari, ma perché possono vedere le cose da una prospettiva a lungo termine: se i burocrati prendono decisioni migliori semplicemente perché hanno una visione più sistemica, si possono migliorare le decisioni del settore privato, incoraggiando la formazione di associazioni industriali o di un'associazione imprenditoriale nazionale (Chang, 2010, p. 92).

In merito ai problemi di politica economica, le tre parole chiave sono

leadership politica, struttura interna di controllo statale e potere dello Stato

rispetto alla società. Non si può presumere che i leader di un determinato stato siano interessati allo sviluppo economico, con o senza politica industriale, così come non possiamo credere che tutti i capi politici siano interessati solo alla ricchezza personale. Anche di fronte all'interesse per lo sviluppo economico, i leader possono avere una visione sbagliata, o possono guardare indietro, invece che avanti, oppure possono pensare solo a proteggere la proprietà privata. In secondo luogo, anche se i vertici dello Stato sono interessati a promuovere lo sviluppo economico attraverso la politica industriale, bisogna imporre questa visione al resto dell'apparato statale, non necessariamente attraverso l'organizzazione gerarchica, in quanto i burocrati potrebbero essere più conservatori dei leader e/o potrebbero nascere problemi interni di coordinamento. In terzo luogo, anche se tutti nel governo, dal vertice fino

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all'impiegato minore, condividono la stessa visione di politica industriale, lo Stato deve riuscire a imporre la propria volontà agli altri agenti della società: quest'operazione cambia da paese a paese e anche all'interno della stessa nazione. Ad esempio, in alcuni casi lo Stato non ha il pieno controllo dei suoi territori; alcuni paesi in via di sviluppo non sono in grado di attuare le politiche perché privi di manodopera e risorse, indispensabili per influenzare un settore con numerose piccole imprese; anche quando lo Stato dispone di sufficienti capacità di esecuzione, alcuni agenti del settore privato cercheranno di neutralizzare le politiche attraverso il lobbying e la corruzione. Nella pratica, i paesi di successo sono quelli che hanno trovato soluzioni sufficientemente buone per i loro problemi di economia politica e che hanno continuato ad attuare tali politiche, invece di lamentarsi della natura imperfetta del sistema politico: piuttosto che eliminare i problemi di economia politica o usarli come scusa per non intervenire, bisogna trovare dei modi per individuare soluzioni imperfette, ma adeguate. In altre parole bisogna comprendere:

• come implementare una visione politica efficace per indurre individui e gruppi ad agire in modo collaborativo;

• come costruire uno spirito di comunità rispetto a interessi specifici; • come realizzare coalizioni durevoli tra gruppi di interesse;

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• come minimizzare l'azione dannosa delle lobbies e della corruzione, massimizzando i flussi di informazione tra lo Stato e il settore privato; • come migliorare l'apparato burocratico (Chang, 2010, pp. 93-94).

Anche di fronte ad uno stato volenteroso e forte, che vuole correggere la propria visione, le politiche possono fallire se i funzionari governativi che le attuano non sono capaci. Le decisioni difficili possono essere prese con informazioni limitate o con un'incertezza fondamentale, che richiede decisori con intelligenza e conoscenze adeguate. A questo proposito, la politica industriale selettiva non dovrebbe essere sperimentata nei paesi con scarse capacità burocratiche: una misura che ha avuto esito positivo in un paese, può trasformarsi in un caos in un altro paese tra le mani di burocrati incompetenti. Evidenziare l'importanza delle capacità burocratiche nell'attuazione delle politiche industriali non significa che un paese con una burocrazia di scarsa qualità non debba aspirare ad attuare politiche difficili, come la politica industriale, perché le capacità possono essere implementate nel tempo attraverso investimenti specifici o attraverso il learning-by-doing (Chang, 2010, p. 97).

Quando si lancia una politica industriale, gli obiettivi delle performance, così come i requisiti per misurarli, devono essere chiaramente e pubblicamente specificati, in modo da rendere difficile la manipolazione dei risultati negativi,

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anche se questo riduce la flessibilità politica. In secondo luogo, gli obiettivi devono essere stabiliti in accordo con l'azienda: è necessario che siano realistici, quindi non devono riflettere solo le esigenze burocratiche, né devono essere impostati puramente sulla base di quanto vogliono gli imprenditori, che possono sovra-stimare le difficoltà e sottovalutare i punti di forza. Bisogna ottenere opinioni indipendenti fornite da esperti tecnici, accademici, giornalisti e simili. In terzo luogo gli obiettivi devono essere rivisti nel tempo, perché possono risultare troppo facili o troppo difficili da raggiungere, oppure possono essere colpiti inaspettatamente da shock esterni. È importante per i governi riconoscere rapidamente gli errori e cambiare le politiche senza determinare una grande flessibilità, che può essere abusata attraverso il lobbying. Infine i policy-makers devono prestare maggiore attenzione alle tendenze degli indicatori di performance, piuttosto che ai loro livelli assoluti in un determinato momento, soprattutto per i programmi con un orizzonte a lungo termine (Chang, 2010, pp. 97-98).

L'indicatore più oggettivo per misurare il grado di sviluppo economico di un paese è rappresentato dalla sua performance nel campo delle esportazioni. All'inizio del processo di crescita economica, un paese dovrebbe aumentare le esportazioni delle industrie esistenti e di quelle non tradizionali, che necessitano di un aiuto specifico a causa degli elevati costi fissi di entrata nei mercati di esportazione. Le sovvenzioni dirette all'esportazione possono compensare i costi

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di ingresso, ma oggi sono vietate dall'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ad eccezione dei paesi meno sviluppati. Il supporto deve essere fornito attraverso altri canali: aiutare il settore marketing dei piccoli esportatori; condividere il rischio attraverso garanzie di prestito per gli esportatori e assicurazione contro i mancati pagamenti per lo Stato; rispettare gli standard qualitativi richiesti nei mercati di esportazione attraverso il controllo qualità dei prodotti, la consulenza sui requisiti sanitari, il sostegno giuridico e finanziario agli accordi di cooperazione tra gli esportatori per la fornitura congiunta di servizi di marketing, di R&S, di magazzini e di impianti di trasformazione. Il libero commercio, la promozione delle esportazioni e la protezione di un settore nuovo devono essere integrate al fine di aiutare un paese a migliorare la sua struttura industriale e a crescere rapidamente (Chang, 2010, p. 99).

L'opinione comune sostiene che due eventi tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta hanno reso la politica industriale impossibile da attuare: le modifiche del contesto globale e le modifiche nelle regole del commercio mondiale. In merito alle novità del contesto globale, Chang (2010, p. 100) cita l'aumento dell'importanza degli investimenti diretti esteri e la cosiddetta global

business revolution. La crescente rilevanza degli investimenti diretti esteri ha

indotto molti commentatori a ritenere molto difficile, se non impossibile, che i paesi adottino politiche industriali nazionaliste per paura che le società transnazionali si allontanino. In realtà la fattibilità delle politiche nazionaliste

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dipende dall'apparato industriale e dalle caratteristiche del paese: uno stato con un grande mercato interno e buone risorse sul lato dell'offerta (competenze e infrastrutture) può attuare una politica molto nazionalista in un settore a bassa mobilità (acciaio e automobili), ma un paese senza queste condizioni non può fare altrettanto, soprattutto se si tratta di settori ad alta mobilità (indumenti e scarpe). Inoltre studi empirici hanno dimostrato che le decisioni sugli investimenti diretti esteri sono influenzate dalle dimensioni del mercato, dalle infrastrutture e dalla qualità della forza lavoro, piuttosto che dalla politica industriale. La global business revolution, teorizzata da Nola, Zhang e Liu, indica quel processo che sin dagli anni Ottanta ha registrato un enorme aumento della concentrazione industriale, partendo dalla cima e lungo tutta la catena del valore globale. Questa rivoluzione ha enormemente aumentato le barriere all'ingresso per i settori più avanzati (Chang, 2010, p. 101).

In merito alle modifiche delle regole globali di scambio e degli investimenti, l'uso di molti strumenti classici della politica industriale oggi è vietato o limitato in modo significativo: le tariffe sono state ridotte e vincolate; le sovvenzioni sono state vietate, fatta eccezione per quelle mirate all'esportazione di beni dei paesi meno sviluppati; le altre sovvenzioni sono state bloccate da dazi compensativi e da altre misure di ritorsione; nuove misure, come le norme relative agli investimenti diretti e ai diritti di proprietà intellettuale, sono state poste sotto la giurisdizione della WTO, rendendo difficile

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per i paesi prendere in prestito gratuitamente le tecnologie straniere (Chang, 2010, p. 102).

La politica industriale, dunque, assume un significato diverso a seconda dei momenti storici e degli specifici contesti territoriali. In generale tutti i paesi tendono ad essere maggiormente dirigisti e interventisti nelle fasi iniziali di industrializzazione o ricostruzione, dapprima proteggendo le industrie alla nascita, soprattutto nei settori considerati strategici, per poi fare affidamento alle forze del mercato. Questa fase, caratteristica dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta ha visto un intreccio molto forte tra il governo e l’industria di molti paesi europei. Con le crisi degli anni Settanta1 e l’emergere di problemi di

instabilità economica, l’indirizzo complessivo delle politiche industriali è cambiato. Ad esempio, sono state introdotte nuove modalità di aiuto, come gli

Structural Adjustment Loans (SAL), prestiti su pochi anni condizionati

all’introduzione di una serie di misure economiche di stabilizzazione o all’introduzione di riforme strutturali; è cresciuto notevolmente il ruolo delle istituzioni comunitarie, sia nella promozione della concorrenza e nel contrasto ai monopoli, sia nell’indirizzare attenzione e risorse verso interventi di natura orizzontale (Prodi, 2003, p. 43).

1Le due crisi petrolifere nel 1973 e nel 1979 hanno fatto esplodere la crisi del debito estero in molti paesi dell’America Latina e dell’Africa, a causa dell’aumento dei tassi di interesse internazionali e del peggioramento dei termini di scambio (Prodi, 2003, p. 43).

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Con la crisi del debito estero all’inizio degli anni Ottanta, gli organismi internazionali leader sanciscono la fine dell’epoca basata sul modello dell’Import

Substitution Industrialization (ISI), considerato fallimentare per le inefficienze e i

fenomeni di corruzione, e decretano l’adozione di un approccio di stampo neoclassico-neoliberista, basato sulla liberalizzazione dei mercati. Il nuovo metodo può funzionare solo se si realizzano due condizioni. La prima riguarda la fine della politica di promozione dei “campioni nazionali”, adottata nei regimi collettivistici e in quelli occidentali per tutta la seconda metà del Novecento: eliminando la differenziazione nel mercato tra piccole e medie imprese (PMI) rispetto alle grandi, i governi si aspettano un miglioramento della posizione competitiva delle PMI e un loro maggiore contributo nello sviluppo. La seconda condizione riguarda l’adozione del modello dei vantaggi comparati di Heckscher e Ohlin, che favorisce un mercato di maggiore concorrenza, riducendo il potere di monopoli e oligopoli (Prodi, 2003, pp. 144-145).2 A conferma di ciò, dagli anni

Ottanta alla metà dello scorso decennio il totale degli aiuti di stato alle imprese degli stati membri dell’Unione Europea è sceso da circa il 2% allo 0,4% del PIL comunitario (Commissione Europea, 2013, p. 347).

2 Il modello di Heckscher e Ohlin prende in considerazione due paesi, che dispongono di due fattori di produzione (capitale e lavoro) e che producono due beni uguali di consumo finale: un paese esporterà il bene la cui produzione richiede l’utilizzo del fattore che è abbondante e poco costoso, mentre importerà il bene, la cui produzione richiede l’impiego del fattore che è scarso e costoso. Il modello dimostra che il libero scambio garantisce l’equilibrio delle bilance commerciali perché per ciascun Paese diminuisce il prezzo della merce che impiega la risorsa scarsa (che verrà importata) e aumenta il prezzo di quella che impiega la risorsa più abbondante (che verrà esportata).

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In seguito alla pubblicazione del rapporto Bangemann (Commissione Europea, 1990)3 si diffonde l’idea che la politica deve solo creare le condizioni

per la competitività delle imprese attraverso una forte concorrenza, ed evitare l’intervento diretto dello Stato nell’industria, anche nei monopoli naturali, che vengono regolati da organismi indipendenti: le autorità pubbliche hanno il compito di identificare le tecnologie e le industrie del futuro e di aiutarle a svilupparsi con programmi di ricerca scientifica e tecnologica e con la formazione (Labory, 2006, p. 267). Il ruolo che deve rivestire lo Stato in economia è stato soggetto ad ampi dibattiti, ma generalmente si distinguono due visioni opposte: quella liberista e quella interventista.

1.2 La visione liberista

Il liberismo è la dottrina economica del pensiero filosofico e politico liberale, di cui Adam Smith è uno dei più principali esponenti. L'economista scozzese si fece portavoce delle rivendicazioni delle nuove classi produttive, che volevano vedere riconosciuti in termini politici i diritti di cittadinanza, che le loro

3Il rapporto, intitolato “La Politica Industriale in un contesto aperto e concorrenziale”, presenta la proposta di una politica industriale basata sulla creazione di un ambiente adatto allo sviluppo delle imprese in assenza di barriere e di supporti pubblici: una politica industriale non più centrata su misure verticali, ma su misure esclusivamente orizzontali. La filosofia della Commissione è riassunta in modo chiaro nell'introduzione del documento: “Il ruolo delle pubbliche autorità dev'essere soprattutto quello di apripista per l'innovazione. La principale responsabilità per la competitività dell'industria risiede nelle imprese, le quali tuttavia devono ricevere dalle autorità pubbliche le condizioni indispensabili per la loro attività”.

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capacità economiche avevano affermato nell'economia (Deaglio, 2008, p. 63). Secondo Smith, la ricchezza delle nazioni consiste nell'organizzazione della produzione, che può essere limitata solo dall'estensione del mercato: non vi possono essere diritti feudali a vincolare le iniziative individuali; una nazione riesce a crescere solo se la concorrenza è libera da vincoli corporativi. Il mercato è “un'istituzione sociale, un insieme di relazioni orizzontali, il cui potere relativo è basato sulle capacità di organizzazione delle attività produttive”: la dinamica economica dipende da una molteplicità di soggetti indipendenti tra loro, in grado di competere per affermare il loro potere e la loro posizione sociale ed è tanto più sostenuta quanto più alta è la numerosità e la varietà dei soggetti che interagiscono nell'economia (Deaglio, 2008, p. 64). L'interazione tra gli individui determina un mercato ispirato al principio della cosiddetta “mano invisibile”, secondo cui i privati realizzano indirettamente l’interesse della collettività, mentre perseguono i propri interessi individuali. In particolare, le relazioni economiche tra privati sono regolate dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre il meccanismo dei prezzi di mercato garantisce che non rimangano risorse inutilizzate e permette il raggiungimento dell’equilibrio in tutti i mercati (beni, lavoro e capitale). Ciò è reso possibile dalla flessibilità dei prezzi, che variano rapidamente per riportare in equilibrio i mercati in situazioni di eccesso di domanda e offerta: il meccanismo di mercato agisce in maniera tale che i prezzi tendono ad aggiustarsi finché non viene raggiunto l’equilibrio. Poiché il

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sistema dei prezzi permette di ottenere equilibri automatici, nella visione liberista, lo Stato non deve intervenire nelle relazioni economiche, ma è necessaria una sua forte presenza per garantire i diritti di proprietà acquisiti nello scambio e per dare valore generale ai contratti tra privati, ma anche per garantire le esternalità positive, che il singolo cittadino non è in grado di attivare da solo (difesa esterna e interna, giustizia, comunicazioni, educazione e salute) (Deaglio, 2008, p. 63).

David Ricardo estende il modello smithiano, dimostrando che è possibile ricavare un mutuo vantaggio dal commercio internazionale, anche se un paese si trova in posizione di generale superiorità tecnologica e risulta più efficiente nella produzione di tutti i beni, che possono essere scambiati con gli altri paesi. Il suddetto paese deve specializzarsi nella produzione del bene che sa fare meglio, mentre lo stato meno efficiente deve specializzarsi nella produzione del bene che sa fare meno peggio. Il pensiero ricardiano venne istituzionalizzato attraverso una serie di trattati commerciali, che prevedevano l'abolizione delle barriere commerciali e la creazione di un sistema finanziario mondiale: la libertà dei commerci veniva interpretata non solo come elemento di vantaggio diretto per chi compie le transizioni, ma come elemento positivo in un quadro generale socio-politico (Deaglio, 2008, p. 64).

John Stuart Mill completa il concetto della libertà dei commerci in un quadro globale. Nel periodo delle rivoluzioni liberali europee, quando le

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condizioni favorevoli allo sviluppo dei commerci stavano dando i primi frutti, Mill allarga l’analisi dei benefici del commercio con l’estero, osservando che il vantaggio comparato può essere ancora maggiore con la specializzazione internazionale, perché l’aumento del volume di produzione di ciascun paese consente economie di scala e costi unitari inferiori. MIll fa ricorso anche al protezionismo per consentire alle nuove industrie di crescere senza essere annientate dalla competizione delle imprese già consolidate. È bene ricordare che l’apertura o la chiusura dell’economia ha delle conseguenze sui rapporti interni tra i paesi, che scambiano le loro merci: possono nascere coalizioni di interessi diverse a seconda del tipo di apertura o chiusura che si realizza (Deaglio, 2008, p. 65).

In sintesi, per l’economista classico il mercato non ha inefficienze in quanto, essendo garantito il diritto di proprietà ai suoi attori, questi possono effettuare accordi e scambi senza problemi di costi: se pure ve ne fossero, il mercato stesso sarebbe in grado di superarli. Per l’economista neo-classico il mercato può produrre inefficienze e quindi costi per la società, tuttavia l’intervento correttivo dello Stato comporterebbe costi persino maggiori, per cui anche in questo caso il suo ruolo deve essere minimale.

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1.3 La visione interventista

In concomitanza della Grande Crisi del 1929 si assistette ad una significativa svolta nello sviluppo della teoria economica, che portò alla crisi dell’economia classica o di mercato e contestualmente alla nascita e sviluppo della Teoria Generale Keynesiana. La crisi dell’economia classica fu decretata dalla sua incapacità di spiegare e trovare soluzioni alla crisi economica mondiale, che iniziò nella seconda metà degli anni 1920, culminò con la Grande Depressione del 1929 e si protrasse fino alla metà degli anni '30. Uno dei punti di critica di Keynes era l'idea che i commerci internazionali liberi portassero alla pace e alla concordia tra le nazioni, sostenendo che spesso all'origine dei conflitti militari vi era proprio la conquista dei mercati esteri. I fautori del libero commercio credevano di “risolvere il problema della povertà, e di risolverlo per tutto il mondo, utilizzando al meglio, come una buona massaia, le risorse e le capacità presenti sulla terra; inoltre erano convinti di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale, della giustizia economica tra le nazioni e i propagatori dei benefici del progresso” (Keynes, 1933, p. 755). Uno dei corollari della visione liberista era che l'aumento degli scambi tra gli stati e l'interdipendenza degli uni dalle merci degli altri favorisse la pace mondiale, in quanto difficilmente si sarebbe fatta la guerra ad un fornitore o ad un cliente. Keynes obiettava che l'esperienza e la previdenza dimostravano il contrario: “concentrare i propri sforzi nella conquista dei mercati stranieri, introdurre nelle strutture economiche di un paese le risorse

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e l'influenza di capitalisti stranieri e dipendere strettamente dalle politiche degli altri per la propria vita economica non sono garanzia di pace, ma sinonimi di un imperialismo espansivo e aggressivo” (Keynes, 1933, p. 756). La circolazione globale dei capitali provocava una generale deresponsabilizzazione: se un proprietario, che investiva dove l'efficacia marginale del capitale era massima o dove i tassi di interesse erano più alti, ma era lontano dalla gestione, determinava tensioni e inimicizie nei rapporti tra gli uomini, che annullavano i calcoli finanziari. Soltanto le idee, le conoscenze, l'arte, l'ospitalità e i viaggi dovevano essere internazionali, ma non i beni né il lavoro (Keynes, 1933, p. 757). A questo proposito l'economista inglese introdusse il concetto di “autosufficienza economica”, intesa come capacità di “produrre al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente possibile, assicurandosi che la finanzia sia essenzialmente nazionale” (Keynes, 1933, p. 757). Keynes estese la critica al libero scambio al dominio incontrastato del criterio del contabile, che riduceva tutto il mondo a merce e ogni cosa a profitto marginale, con la conseguenza che tutto ciò che non aveva valore economico veniva distrutto. Tuttavia, in questo caso, era facile cadere nell'errore opposto, ovvero del “nazionalismo economico”, da cui scaturivano tre pericoli, che potevano condurre alla autarchia nazionale: “il primo è la stupidità del dottrinario, che ricorre a discorsi semplificati con toni forti piuttosto che a una cruda struttura dei costi; il secondo è la fretta, che non consente di capire cosa è importante e cosa è urgente; il

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terzo è l'intolleranza e il soffocamento della critica, che invece è condizione necessaria del successo finale, se è audace, libera e senza remore” (Keynes, 1933, p. 769). In conclusione Keynes sosteneva che lo Stato, più che l'individuo, doveva cambiare i suoi criteri, estendere le sue funzioni e i suoi obiettivi, scegliere quello che va prodotto all'interno della nazione e quello che deve essere oggetto di scambi con l'estero (Keynes, 1933, p. 769).

Il grande merito di Keynes fu quello di provocare un profondo rinnovamento non solo della scienza economica, ma anche della politica economica. In una situazione di recessione economica, nella quale si assiste ad un ristagno e ad una diminuzione di consumi e di investimenti, lo Stato deve intervenire con una spesa pubblica aggiuntiva: le manovre dell’erogazione della spesa e del prelievo fiscale consentono di incentivare o scoraggiare l’attività dei privati, a seconda degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Il ruolo attivo dell’ente statale interviene ogni qual volta ci si trova in presenza di fallimenti macroeconomici e microeconomici del mercato (Keynes, 1926, p. 38). Gli investimenti delle imprese sono una voce molto variabile perché soggetti agli animal spirits, cioè all’istinto degli investitori sulle prospettive di crescita in un’economia e in un settore specifico, e questa incertezza genera periodi di sotto-investimento o di sovra-investimento con una serie di conseguenze aggravate dall’effetto moltiplicatore: se gli investimenti privati non vengono bilanciati da una maggiore spesa pubblica, il calo dei consumi e degli investimenti poterà a tracolli e depressioni

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del mercato. I keynesiani sostengono fortemente l’importanza di ricorrere alla spesa pubblica durante i periodi di crisi per rafforzare la domanda e stabilizzare l’economia (Mazzucato, 2014, pp. 46-47).

Gli economisti che si ispirano a Schumpeter aggiungono che la spesa pubblica deve riguardare anche le aree specifiche, che accrescono la capacità di innovazione di una nazione: investimenti in R&S, infrastrutture, formazione della manodopera e sostegno diretto e indiretto a tecnologie e aziende specifiche. I partiti politici di sinistra ritengono meno utili gli investimenti finalizzati a incrementare la produttività rispetto ai capisaldi dello Stato sociale, come scuola o sanità, ma spesso dimenticano che senza un’economia che genera profitti e introiti fiscali, lo Stato sociale non può esistere (Mazzucato, 2014, p. 48). Nelson e Winter analizzano il pensiero di Schumpeter per proporre una teoria evolutiva della produzione: la capacità di innovazione, determinata da procedure e competenze interne, genera un processo costante di differenziazione tra le aziende. Bisogna rivolgere l’attenzione ai rendimenti di scala crescenti dinamici e ai diversi tipi di processo, che generano le differenze tra le aziende. L’innovazione è un’attività caratterizzata dall’esito incerto e legato alla singola azienda, perché la selezione non porta sempre alla sopravvivenza del più adatto, sia per effetto dei rendimenti crescenti, sia per gli effetti di politiche che possono favorire alcune tipologie di aziende rispetto ad altre: la differenza non è data dalla quantità di R&S, ma dal modo in cui è distribuita in un’economia e questo

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spesso dipende in maniera determinante dallo Stato. Gli economisti schumpeteriani criticano la teoria della crescita endogena perché essa presuppone che la R&S corrisponda a una sorta di lotteria, in cui gli investimenti innovativi hanno una certa probabilità di successo (Mazzucato, 2014, pp. 53-54).

In sintesi, per l’economista keynesiano, l’economia è intrinsecamente instabile, poiché subisce frequenti stock della domanda e offerta aggregata. Se i responsabili della politica economica non cercano di stabilizzare l’economia con gli strumenti della politica monetaria e fiscale, questi stock provocano contrazioni di reddito, occupazione e crescita dei prezzi. In quest’ottica le politiche attive dovrebbero stimolare l’economia quando è depressa e frenarla quando si surriscalda. Secondo la visione interventista, si richiede l’intervento dello Stato per garantire l’equità, per evitare che l’individualismo sfrenato possa danneggiare la collettività, per risolvere problemi di coordinamento. In particolare, gli interventi dello Stato possono migliorare l’efficienza delle attività economiche nei casi di fallimenti del mercato di tipo microeconomico e quando la dinamica dell’economia di mercato è accompagnata da fenomeni macro non compatibili con l’idea di equilibrio della teoria neoclassica e con l’idea smithiana di “mano invisibile”: disoccupazione, inflazione, squilibri nella bilancia dei pagamenti e sottosviluppo.

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1.4 Dal protezionismo all’unione economica

La convinzione di fondo nel secondo dopoguerra era che le dinamiche di mercato da sole non bastavano per industrializzarsi e svilupparsi pienamente: era necessario un ruolo diretto, di coordinamento e di intervento dei poteri pubblici. Tutti i grandi paesi europei hanno puntato a favorire la crescita dimensionale delle loro imprese principali, fino a realizzare veri e propri campioni nazionali, a stimolare l’ingresso delle imprese pubbliche e private in settori tecnologici all’avanguardia per il periodo, come l’elettronica, le telecomunicazioni e l’aeronautica: vi era un diffuso consenso, nella politica e nell’opinione pubblica, circa la necessità di guidare lo sviluppo industriale ed economico, soprattutto nei paesi più arretrati, dove il meccanismo dei prezzi non riusciva a garantire un’adeguata allocazione delle risorse ed era ancora troppo prematuro aprire i propri mercati alla concorrenza internazionale (Viesti, 2013, p. 7). Nasceva, così, una richiesta di protezione, che era tanto maggiore, quanto più l’economia di un paese dipendeva dalla produzione di un bene strategico. Questa soluzione favoriva i monopoli, che mantenevano un’offerta limitata e ad alto prezzo del bene al fine di difendere l’industria nazionale, non ancora in grado di competere sul mercato aperto con altri concorrenti. Una situazione autarchica, però, faceva crescere l’insoddisfazione interna, in quanto il costo del bene strategico ricadeva sui consumatori finali, soprattutto su quelli che non traevano beneficio dall’industria nazionale: in questo modo aumentava il rischio di favorire

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coalizioni regressive. La soluzione protezionistica può essere il risultato di un esito negativo, o in alternativa, una soluzione intermedia e strategica, che consente una riorganizzazione interna in tempi e modi tali da rendere le coalizioni regressive in grado di identificare la strada per lo sviluppo. In una situazione simile, per evitare di ingenerare gli effetti dirompenti di un’apertura troppo rapida o di cadere in un protezionismo a tempo indefinito, i governi possono stringere un accordo di integrazione economica su base regionale, che renda idonea la struttura economico-sociale dei singoli paesi (Bianchi, 1999, pp. 32-33).

Esistono diversi gradi di integrazione tra le economie e tra gli stati stessi:  Una zona di libero scambio prevede la semplice riduzione delle tariffe

tra paesi, che mantengono la propria autonomia verso paesi terzi;  L’unione doganale impegna i governi a concludere accordi di

liberalizzazione degli scambi e ad adottare una politica comune verso paesi terzi;

 Con l’unione economica le economie di paesi diversi si assimilano tra loro al punto che capitali e lavoratori possono collocarsi liberamente nell’intera area comune;

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 Con l’unione monetaria le condizioni istituzionali sono talmente integrate, che è possibile sottoporre tutte le transizioni ad un unico regime monetario.

L’unione doganale è “un accordo politico tra governi nazionali per regolare gli effetti economici e sociali dell’apertura delle rispettive economie, attraverso la creazione di un’area comune di scambio” (Bianchi, 1999, p.33). Questa soluzione permette di controllare gli effetti strutturali di un’apertura: vengono ridotti sia gli effetti negativi attraverso scambi limitati, che permettono di preservare parte della produzione nazionale, sia gli effetti positivi, in quanto la domanda non si espande fino al punto in cui sarebbe giunta con un’apertura piena. I neoclassici Cooper, Mansell e Johnson hanno criticato la soluzione dell’unione doganale, dimostrando che abbassare unilateralmente le tariffe porta ad un risultato migliore e più efficiente per il singolo consumatore (Bianchi, 1999, p. 36). Anche Gunnar Myrdal critica la soluzione dell’unione doganale, in quanto crea una situazione, in cui il centro attrae capitali, ma la periferia è sempre più bloccata, perché l’ingresso di capitali in un paese a più alta produttività marginale crea nuove occasioni e attira nuovi capitali (Bianchi, 1991, p. 42). Riassumendo, inizialmente un’unione doganale è una coalizione di paesi deboli, che stabiliscono una protezione comune nei confronti di concorrenti troppo forti per essere affrontati da soli: è quello che avvenne tra la Prussia e gli altri stati tedeschi, che disponevano di un mercato abbastanza ampio per

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sviluppare strutture produttive in grado di competere nel tempo anche con la superpotenza Inghilterra, che aveva liberalizzato gli scambi commerciali internazionali. I paesi aderenti all’unione doganale abbattono le tariffe interne, ma mantengono una comune tariffa esterna per creare un mercato interno abbastanza ampio da permettere economie di scala statiche e dinamiche, a patto che nel tempo venga ridotta anche la barriera esterna per consentire alle imprese interne di essere competitive a livello globale. Il rischio di generare resistenze all’apertura è molto forte, per cui diventa necessario procedere con un’ulteriore integrazione, che prevede l’estensione del mercato unico: un’unione economica permette un’ulteriore apertura internazionale.

Per unione economica si intende “una situazione in cui due o più paesi consentono una libera circolazione dei fattori produttivi e stabiliscono un’estensione comune del mercato dei fattori” (Bianchi, 1999, p. 40): il passaggio all'unione economica mette in discussione il ruolo degli stati nazionali e dei gruppi sociali nella loro identificazione nazionale e modifica la divisione del lavoro, in quanto la singola impresa deve adeguarsi al nuovo livello di domanda e ad una maggiore concorrenza; l’industria deve individuare nuove specializzazioni; l’intera società deve organizzare diversamente le attività produttive e di servizio. Con un’unione economica viene meno la relazione biunivoca tra capitalismo nazionale e stato nazionale, in favore di un mercato comune, non solo per le merci, ma anche per i capitali e il lavoro: i conflitti non scompaiono, ma si

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internalizzano e si ricompongono in un ambito cooperativo e non più conflittuale. Secondo la teoria classica, l’unione economica implica una riorganizzazione della divisione del lavoro con il trasferimento delle attività dove risulta più conveniente localizzarle in base ai rendimenti presenti e ai possibili successivi sviluppi: se in un centro si sviluppano nuove attività, la crescita di queste può generare maggiori convenienze di specializzazione, le quali a loro volta attrarranno e creeranno le condizioni per nuove attività specializzate. Se le aree periferiche e le aree centrali coincidono con i paesi membri dell’unione economica, nascono delle diversità che modificano il rapporto politico tra i paesi che hanno stipulato l’accordo di integrazione economica (Bianchi, 1999, pp. 40-41).

Infine, un’ulteriore fase di integrazione economica e politica consiste nell’unificazione monetaria, che implica la definizione di una moneta unica. Perché una moneta comune funzioni in una determinata area, le strutture economiche devono essere simili, i cicli economici devi vari paesi che fanno parte dell'area devono essere sincronizzati e ci deve essere un'autorità comune per la politica economica e fiscale, che garantisca il debito pubblico e attui trasferimenti di risorse. In sostanza, si deve introdurre qualche forma di federalismo fiscale. In aggiunta devono essere presenti anche altre tre condizioni: unione bancaria; meccanismi di aggiustamento automatico nel caso sorgano divari di produttività e competitività; mobilità del lavoro, in modo che le

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persone si possano spostare verso le zone con elevata domanda di lavoro (Morroni, 2016, pp. 91-92). Per uniformare le condizioni interne dei diversi paesi, bisogna dapprima stabilire un periodo di transizione per allineare, o rendere compatibili tra loro, i tassi di inflazione, i deficit pubblici e i conti con l’estero dei paesi membri, poiché il singolo paese non potrà più ricorrere a manovre sui cambi per stimolare le esportazioni e frenare le importazioni. Tutto ciò comporta una sostanziale cessione di sovranità da parte del singolo governo. Per costruire un accordo di integrazione economica bisogna confrontare le strutture produttive tra loro diverse e con diverse capacità e tempi di aggiustamento, determinati dalla struttura dell’industria, dalla forma dei mercati, dall’organizzazione istituzionale e in particolare dalle modalità di confronto dei diversi gruppi. Bisogna comunque tenere presente che l’efficienza di un paese e del suo sistema industriale non è data solo dalla somma dell’efficienza dei suoi singoli produttori, ma dalle modalità di interazione di questi e delle istituzioni pubbliche (Bianchi, 1999, p. 44).

In merito a quanto avvenuto con l'Unione Europea, i leader europei pensavano che l'euro avrebbe obbligato i paesi che l'adottavano a fondare uno stato federale con una politica fiscale comune, costringendo i governi a cedere sovranità anche sul fronte fiscale. Tuttavia sono stati commessi diversi errori di valutazione. Innanzitutto pensare che l'unione monetaria avrebbe portato successivamente ad un'unione politica e fiscale. In secondo luogo i paesi con un

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alto debito pubblico sono entrati nell'euro senza rinegoziare il loro debito. Il terzo errore è stato considerare l'euro come strumento per compensare l'aumento del peso economico e geopolitico della Germania (Morroni, 2016, p. 92). In realtà l'euro ha favorito la Germania, a danno dei pesi del Sud-Europa: la nazione tedesca ha accumulato un ingente avanzo commerciale a scapito dei paesi mediterranei. Le esportazioni sono state maggiori delle importazioni, per cui la domanda dei beni prodotti dai partner europei si è ridotta. Il vantaggio competitivo della Germania risale alla bassa crescita del costo del lavoro nel periodo 2000-2007 con le “riforme Hartz” promosse dal cancelliere Gerhard Schröder. Anche gli investimenti in ricerca e sviluppo hanno avuto un ruolo notevole: la Germania ha investito meno di quasi tutti i paesi europei negli anni precedenti alla crisi, per cui ha accumulato un eccesso di risparmio. L'attivo nella bilancia dei pagamenti ha alimentato l'afflusso di capitali verso i paesi del Sud-Europa, che si sono indebitati perché non sono riusciti a sostenere il flusso dei prestiti e le conseguenti bolle speculative. Da una parte la Germania ha interiorizzato l'uso delle esportazioni come valida alternativa alla politica di potenza militare; dall'altra i paesi mediterranei non hanno tratto profitto dall'abbassamento dei tassi di interesse, si sono indebitati troppo e non hanno avviato le riforme strutturali. Oggi la Germania chiede agli altri paesi di imitare le sue strategie, dimenticando che una politica basata sull'abbassamento dei salari presuppone che gli altri non seguano la stessa politica. Senza l'euro la

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competitività della Germania avrebbe comportato una rivalutazione automatica del marco con penalizzazioni sulle esportazioni tedesche (Morroni, 2016, pp. 97-99).

1.5 La globalizzazione

Il giapponese Kenichi Omae e gli statunitensi Thomas Porter e Theodor Levitt furono i primi a usare, verso la metà degli anni Ottanta, il termine “globalizzazione” per indicare il cambiamento nelle strategie delle grandi imprese multinazionali, ma è impossibile individuare e definire una teoria generale della globalizzazione (Deaglio, 2008, p. 68).

In un'economia senza confini e senza distinzione tra interno e internazionale, le politiche economiche si sono conformate alle linee guida di tre istituzioni mondiali con sede a Washington, cioè il Tesoro degli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale: il Washington Consensus, termine coniato nel 1989 dall’economista John Williamson durante un convegno

dell’Institute of International Economics, inizialmente era una lista di dieci

riforme da realizzare in America Latina, che riassumeva i principi della politica economica degli Stati Uniti dall’amministrazione Reagan in poi. Questo decalogo indirizzato ai paesi emergenti comprendeva nuove libertà per i privati e le aziende, ma anche nuovi obblighi per i governi, in particolare: la privatizzazione e la riforma del sistema fiscale sul modello statunitense, con una larga base

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imponibile e basse aliquote marginali; una lista di priorità per la spesa pubblica con la riduzione e/o eliminazione dei sussidi; la determinazione da parte del mercato del tasso di interesse e del tasso di cambio; la liberalizzazione delle importazioni; la facilitazione degli investimenti dall’estero; una migliore difesa dei diritti di proprietà e la combinazione di privatizzazioni e deregulation (Deaglio, 2008, p. 69). Il Washington Consensus contribuì a creare il clima di vera e propria adorazione del mercato, considerato regolatore politico-sociale oltre che economico, in virtù di una sorta di “religione dell’ottimismo, basata sulla convinzione che il mercato avrebbe abolito le recessioni e spinto in alto i valori della produzione e del reddito e gli indici di Borsa” (Deaglio, 2008, p. 70). Effettivamente tra il 1991 e il 2000 i commerci internazionali dei paesi in via di sviluppo crebbero per effetto dell’integrazione dei mercati dei capitali, ma, al contempo, cambiò la composizione di questi flussi: i prestiti a medio/lungo termine delle banche, cresciuti dopo la crisi debitoria dell’America Latina negli anni Ottanta, crollarono nuovamente alla fine del decennio in seguito alla crisi dei mercati emergenti; gli investimenti diretti esteri aumentarono, così come gli

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investimenti di portafoglio; i doni, cioè l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) si bloccarono.4

Alla fine del XX secolo una serie di fattori diedero l’impulso decisivo alla globalizzazione, grazie anche alla rivoluzione industriale e all’allargamento dei commerci:

o Il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda;

o Il convergere delle politiche economiche liberiste nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo;

o Un’ondata di nuove innovazioni tecnologiche, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni.

Gli anni Novanta si aprirono con il crollo simbolico e di fatto dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che segnò il trionfo dell’approccio liberista in economia. La linea tracciata negli Stati Uniti da Ronald Reagan e in

4La storia dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) ha inizio con lo scenario post-bellico della seconda guerra mondiale. L’APS è la naturale evoluzione del Piano Marshall e del successo con il quale esso trasferì risorse finanziarie da un paese ricco (gli Stati Uniti) a paesi con enormi bisogni di ricostruzione, promuovendone una rapida ripresa dopo la distruzione causata dalla guerra (Prodi, 2003, pp. 41-42). L’erogazione di APS ai paesi in via di sviluppo ha alle sue radici il pensiero economico prevalente all’epoca, che assegna un ruolo fondamentale al capitale nel determinare le potenzialità di crescita di un paese. La relazione accumulazione di capitale e crescita economica trova la sua formalizzazione e la sua applicazione pratica nel modello Harrod-Domar, in origine concepito con tutte altre finalità – un intervento di breve periodo in una situazione di depressione economica nel contesto di un paese industrializzato, gli USA – e ciò nondimeno impiegato dagli organismi internazionali nelle loro strategie di sviluppo e nelle decisioni di aiuto fino ai giorni nostri. L’APS non è riuscito a sollevare milioni di persone dallo stato di sottosviluppo perché i meccanismi di emancipazione dalla dipendenza dell’aiuto non sono mai stati significativi: oggi si riconosce che, senza stabilità politica, strutture di governo e amministrazione efficiente, tutto ciò è inadeguato (Prodi, 2003, pp. 45-46).

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Gran Bretagna da Margaret Thatcher venne consolidata dalle amministrazioni successive, quella democratica di Bill Clinton negli USA e quella laburista di Tony Blair in Gran Bretagna: scomparvero le differenze ideologiche tra sinistra e destra perché le politiche economiche e sociali convergevano tutte verso il centro. L’unica eccezione era rappresentata dalle “Tigri asiatiche”, quelle vecchie (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan) e quelle di più recente industrializzazione (Malesia, Thailandia e Filippine) (Prodi, 2003, p. 34).

In virtù di questo grande ottimismo lo Stato uscì non solo dai settori produttivi, ma anche da quelli infrastrutturali e dai servizi sociali, come scuole e cliniche sanitarie, limitandosi unicamente a stabilire un quadro regolamentare e normativo certo. Tuttavia, in alcuni paesi come Messico, Argentina e Brasile, alla privatizzazione dei beni pubblici non fece riscontro una riduzione del debito pubblico, che tendeva ad aumentare in rapporto al PIL, alla capacità di generare entrate fiscali e alla capacità di generare valuta.

La globalizzazione raggiunse il suo apice il 1° gennaio 1995 con la costituzione della World Trade Organization (WTO), ma nessuno dei successivi piani di allargamento dei mercati ebbe successo:

o La Conferenza di Seattle nel 1999 doveva gettare le basi per estendere la globalizzazione nel millennio successivo, ma si concluse con gli scontri

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nelle strade e con il rifiuto dei paesi produttori di materie prime di avallare le richieste dei paesi avanzati;

o La Conferenza di Doha del 14 novembre 2001 sui nuovi trattati commerciali non produsse risultati;

o La Conferenza di Cancùn nel 2003 fu un fallimento;

o La Conferenza di Hong Kong nel luglio 2006 cercò di rilanciare le trattative prima che scadessero i poteri speciali del presidente degli Stati Uniti di negoziare un accordo con il Congresso, che poteva solo accettare o rifiutare, ma senza apporvi modifiche. Nel frattempo, il ritorno del Congresso sotto il controllo repubblicano con l’amministrazione Bush, portò ad un clima di ostilità verso le importazioni straniere e di netta opposizione verso ulteriori allargamenti commerciali, per cui Bush si concentrò sui Free Trade Agreements, accordi bilaterali tra Stati Uniti e altri paesi, generalmente piccoli e già con forti legami commerciali con gli USA. È il caso del North American Free Trade Agreement (NAFTA), cioè dell’estensione dell’accordo commerciale già esistente tra Stati Uniti e Canada al Messico. L’industria canadese era già fortemente integrata con quella statunitense e le due economie, diverse per dimensioni, erano già molto vicine come redditi per abitante e strutture dei consumi, ma

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l’estensione di questo accordo al Messico portò a grandi mutamenti strutturali e nel contempo a grandi effetti sociali.

La crisi finanziaria del 2007 ha avuto origine da un rallentamento dell’economia americana, causato dallo scoppio della crisi dei subprime, cioè dei prestiti ad alto rischio finanziario da parte degli istituti di credito in favore di clienti a forte rischio debitorio. In questa situazione, la politica economica è stata sostanzialmente bloccata, soprattutto nell’Europa dell’euro, dove le singole nazioni hanno perso il controllo della moneta e dei loro bilanci pubblici per gli obblighi imposti dal patto di stabilità: le tre economie maggiori (Germania, Francia e Italia, che contribuiscono per l’80% al prodotto lordo dell’area euro) si sono trovate in difficoltà e in conflitto con la Commissione Europea a causa del loro deficit pubblico eccessivo (Deaglio, 2008, pp. 61-62). I governi nazionali sono ricorsi alla politica industriale per orientare e determinare la forma della loro economia: diversamente dai primi decenni del dopoguerra, bisognava creare le condizioni per sviluppare le attività dei settori prescelti, determinando condizioni di abbondanza dei fattori produttivi più importanti per determinate produzioni.

Nonostante la crisi finanziaria del 2007 sia stata provocata da un eccesso di indebitamento del settore immobiliare privato americano, l’opinione pubblica ha considerato il debito pubblico come il responsabile principale. I media, le imprese e i politici ultra-liberisti hanno alimentato la dicotomia tra un settore privato rivoluzionario, dinamico, innovativo e competitivo, e un settore pubblico

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lento, burocratico e immobilista, che intralcia l’economia. Il messaggio è stato ripetuto con tale frequenza, che tanti lo hanno accettato come una verità scontata: la crisi finanziaria, trasformatasi poi in una crisi economica, è stata provocata dal debito pubblico. In effetti il deficit statale è aumentato a causa dei salvataggi delle banche da parte dello Stato e del calo del gettito fiscale causato dalla recessione. Il saggio di Reinhart e Rogoff (2010) dimostrò erroneamente che, oltre la soglia del 90% del PIL, il debito pubblico avrebbe portato un calo della crescita; da qui il corollario era che l’austerità avrebbe riportato automaticamente e senza ulteriori interventi la crescita, sebbene molti paesi, tra cui Canada, Nuova Zelanda e Australia, fossero comunque in crescita costante, nonostante un debito pubblico superiore al 90% del PIL. L'obiettivo dell'austerità non era solo ridurre il debito pubblico, ma anche riequilibrare il deficit dei conti con l'estero dei paesi mediterranei, che avevano perso competitività e non potevano svalutare. I sostenitori dell'austerità espansiva ritenevano che le politiche di rigore avrebbero contribuito a riequilibrare le partite correnti in due modi: riducendo le importazioni tramite la distruzione della domanda interna, e aumentando le esportazioni tramite la riduzione dei costi del lavoro. Tuttavia solo la riduzione delle importazioni ha annullato il disavanzo di parte corrente: la diminuzione del costo del lavoro non ha fatto aumentare le esportazioni, a conferma che il Fondo Monetario Internazionale e i sostenitori dell'austerità espansiva si sbagliassero (Morroni, 2016, p. 108). Le politiche di austerità, da una

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parte sono state un mezzo utile a ridurre il ruolo dello Stato nell'economia, indebolire il potere contrattuale dei sindacati, diminuire il costo del lavoro e facilitare l'approvazione delle riforme strutturali. Ma dall'altro lato hanno diminuito la competitività dei paesi del Sud Europa, perché una domanda debole implica un basso livello di utilizzazione degli impianti, che comporta un abbassamento della produttività, una crescita dei costi di produzione e una conseguente riduzione della competitività. Le ricette rigoriste imposte hanno peggiorato il problema, perché i paesi europei più deboli hanno speso ancora di meno in istruzione e R&S: la crisi dei paesi mediterranei non è stata causata dal debito pubblico, ma dalla crisi delle bilance dei pagamenti, dovuta alla progressiva perdita di competitività, causata a sua volta dalla scarsa crescita della produttività (Morroni, 2016, p. 100).5 Per i paesi dell'area mediterranea un

recupero di competitività rispetto ai paesi del Nord dell'Europa, richiederebbe una deflazione talmente forte da distruggere le loro economie perché accrescerebbe progressivamente il valore reale dei debiti pubblici e privati.6

Un'altra conseguenza più grave della deflazione è che in un periodo di crisi, l'abbassamento dei prezzi induce le famiglie a rinviare gli acquisti, così la domanda di riduce ulteriormente, peggiorando la situazione. Nasce una

5 La produttività corrisponde “alla quantità prodotta in rapporto alle unità di lavoro impiegate: cresce se la quantità prodotta aumenta a parità di ore di lavoro o se diminuiscono le ore di lavoro prestate a parità di quantità prodotta. In sostanza è un indice di efficienza del sistema produttivo. Per misurare la produttività a livello della singola impresa, bisogna fare il rapporto tra la quantità fisica prodotta e le ore lavorate; nei raffronti internazionali il prodotto non è misurabile in termini fisici, per cui bisogna considerare il prodotto in valore. In questo caso entrano in gioco i prezzi, che possono avere andamenti diversi nei vari paesi e nei vari settori” (Morroni, 2016, p. 100).

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contraddizione tra i leader europei, che insistono sulla necessità che i paesi del Sud-Europa subiscano una forte deflazione per riacquistare competitività e ripianare i deficit con i paesi del Nord-Europa e la Banca Centrale Europea, che esprime preoccupazione per la deflazione in atto e applica una politica monetaria fortemente espansiva con l'intento dichiarato di combatterla, il quantitative

easing (Morroni, 2016, pp. 114-115).

Prima dell'euro questi squilibri sarebbero stati annullati grazie alla variazione dei tassi di cambio: i paesi mediterranei avrebbero svalutato, rendendo meno care le loro esportazioni, e la Germania avrebbe rivalutato, con effetti negativi sulle sue esportazioni. Poiché con l'euro si può svalutare, i paesi del Sud-Europa sono costretti a ridurre drasticamente la domanda interna per diminuire le importazioni. Dovrebbero esserci dei meccanismi a carico sia dei paesi in deficit, sia di quelli in surplus per ottenere una simmetria negli aggiustamenti: i paesi mediterranei dovrebbero aumentare la competitività e i paesi in surplus dovrebbero aumentare la domanda interna attraverso un aumento dei salari e della spesa pubblica. Una crescita della domanda dei paesi in avanzo commerciale tenderebbe a riequilibrare le bilance dei pagamenti dei paesi in deficit perché aumenterebbero le loro esportazioni verso questi paesi: il 6 La deflazione è “un processo di riduzione dell'indice generale dei prezzi, che è un fenomeno pericoloso perché l'impossibilità di coordinare la caduta dei prezzi, comporta la riduzione dei prezzi di alcuni beni e redditi di alcune categorie e l'aumento di altri. Questo mutamento nei prezzi relatici crea enormi squilibri, con notevoli disparità tra diverse categorie di cittadini e tensioni sociali. per deflazione si intende comunemente una riduzione dei salari percepiti dei lavoratori dipendenti, dei salari indiretti e di quelli differiti” (Morroni, 2016, p. 114).

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valore dell'euro è diventato troppo alto per i paesi del Sud-Europa e molto basso per la Germania e alcuni paesi del Nord. Questo penalizza le esportazioni dei primi e avvantaggia le esportazioni della Germania e di alcuni paesi limitrofi, che acquistano competitività (Morroni, 2016, p. 117).

La Commissione Europea ha stabilito come indicatori di squilibri macroeconomici da correggere un massimo di deficit nella bilancia commerciale del 4% del PIL, contro un 6% per i surplus. L'avanzo tedesco ha raggiunto '8,5%, ma la Commissione non ha applicato sanzioni per indurre la Germania a diminuire il suo avanzo commerciale nei confronti di tutti i paesi partner europei. Questa rinuncia comporta che l'onore dell'aggiustamento sia esclusivamente a carico dei paesi con disavanzo commerciale e che il riequilibrio sia raggiunto con una deflazione al loro interno. La Germania dovrebbe convincersi a trasferire sulle retribuzioni almeno una parte degli aumenti di produttività ottenuti dall'inizio del primo decennio di questo secolo, aumentando i salari e attuando una politica di bilancio espansiva per aiutare gli altri paesi dell'euro-zona. Ma i tedeschi respingono quest'idea perché la allontanerebbe dal sentiero virtuoso che gli ha permesso di acquisire un grande vantaggio competitivo. La soluzione efficiente richiederebbe che l'inflazione tedesca superasse la media dell'euro-zona in modo da consentire ai paesi del Sud-Europa di recuperare competitività: ad esempio, un'inflazione superiore al 2% in Germania, e sotto il 2% altrove nei

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