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Storia dell’apparato economico-industriale italiano dal dopo guerra alla crisi del

Le politiche industriali in Italia

2.1 Storia dell’apparato economico-industriale italiano dal dopo guerra alla crisi del

Come la maggior parte dei paesi europei, anche l’Italia ha adottato una politica industriale interventista nella fase di ricostruzione post-bellica. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, l’economia italiana era molto arretrata rispetto a quella degli altri paesi europei e gli ingenti danni provocati dalla guerra avevano colpito la produzione agricola e quella industriale: i settori più danneggiati furono quello siderurgico, quello cantieristico, meccanico, chimico e quello elettrico (Bianchi, 2013, p. 67). Il nuovo contesto internazionale portò i governi del dopo-guerra a realizzare una maggiore apertura dell’economia, in modo da aumentare le esportazioni. Proprio la politica di liberalizzazione degli scambi con l’estero richiese un rilancio rapido dell’industria: lo Stato intervenne per modernizzare e sviluppare il paese tramite sussidi, grandi investimenti da parte dell’IRI8 e il supporto delle grandi imprese pubbliche. In questo contesto

venne approvato il “Piano Sinigaglia” per la ristrutturazione ed il potenziamento del settore siderurgico italiano: dal 1948 al 1953 il governo mise al centro

8 L’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) fu creato dallo Stato nel 1933 per gestire quasi interamente i settori siderurgico, cantieristico, meccanico pesante, energetico e telefonico, e quasi tutti gli altri settori industriali, che erano stati acquisiti in maniera indiretta mediante il finanziamento bancario degli istituti di credito statali. La legge n. 634 del 1957 stabiliva che gli investimenti effettuati dagli enti e dalle aziende sottoposte al controllo del Ministero per le partecipazioni statali dovevano essere effettuati per il 60% nell'Italia meridionale (Chang et al., 2013, p. 37).

dell’economia del paese l’industria siderurgica, al servizio del settore meccanico privato, attribuendo allo stato il compito di sostenere lo sviluppo tramite le partecipazioni statali per ricostruire le grandi industrie già esistenti a Bagnoli, a Piombino e a Cornigliano. L’aumento della domanda interna di beni di consumo privato, le esportazioni, il basso costo della forza lavoro e i maggiori investimenti nelle industrie favorirono l’aumento della produttività e la diminuzione dei costi operativi, che determinarono un periodo di crescita economica (Bianchi, 2013, pp. 127-129).

Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta l’Italia fu attraversata da un’immensa trasformazione del tessuto economico e produttivo, tanto che da paese prevalentemente agricolo si trasformò in una potenza industriale a livello mondiale: il “miracolo italiano” coincise con la creazione del mercato comune europeo e la conseguente eliminazione delle barriere tariffarie interne fra i vari paesi europei. Il vero traino allo sviluppo economico, però, era costituito dai beni di consumo durevole, come l’utilitaria, il frigorifero e la televisione, che divennero i simboli del miracolo economico di un paese che si inurbava rapidamente.

Con la crisi di stabilizzazione del 1964-65 si concluse il miracolo economico italiano9, per cui divenne necessario assicurare un ritmo regolare e

9Nel 1964, l’aumento delle retribuzioni, nettamente superiore a quello della produttività, spinse l’inflazione al 7.5%. L’inflazione interna e l’aumento della domanda globale furono accompagnati da un disavanzo crescente della bilancia commerciale, che ruppe l’equilibrio nei conti con l’estero: nel periodo tra il 1963 e il 1964 la bilancia dei pagamenti si chiuse con con un disavanzo

non squilibrato allo sviluppo tramite la programmazione. Il governo centrale cercò di incoraggiare la ricostruzione e l'espansione della capacità produttiva in settori strategici selezionati, come l'automobile, fornendo denaro e beni intermedi prodotti dalle imprese pubbliche a società private, come la FIAT. Inoltre, le imprese, che non erano in grado di pagare i prestiti statali vennero nazionalizzate sotto la holding EFIM (Ente Finanziamento Industrie Meccaniche): l'esempio più emblematico fu la costituzione di ENEL con la legge del 27 novembre 1962, con cui nasceva una nuova agenzia nazionale per la fornitura di energia elettrica, molto spesso sovvenzionata nel corso degli anni.10 Le imprese

pubbliche erano molto attive nella modernizzazione dei fattori produttivi, nella costruzione di infrastrutture e negli investimenti in industrie pesanti, come l'acciaio attraverso il “Piano Sinigaglia” e l'energia, inizialmente con l'AGIP per il gas e successivamente con ENI per i prodotti petroliferi e chimici (Chang et al., 2013, p. 37).

Durante gli anni sessanta, grazie al supporto di investimenti industriali e pubblici da parte di banche specializzate, come le Banche Specializzate per l'Industria e lo Sviluppo delle Infrastrutture o gli Istituti di Credito Speciale per l'industria e le opere pubbliche, vengono indirizzate nuove risorse verso le

di 774,8 milioni di dollari, con un peggioramento di 256,2 milioni di dollari rispetto all'anno precedente (Verde, 2002, p. 77).

10 L’operazione di nazionalizzazione fu realizzata ricorrendo ad indennizzi calcolati sulla media dei corsi azionari dei titoli delle società quotate alla Borsa di Milano tra il 1° gennaio 1959 e il 31 dicembre 1961: in tale periodo i titoli delle società elettriche risultavano sovrastimati rispetto ai valori normali (Bianchi, 2013, p. 158).

industrie ad alta intensità di capitale, come quella dell'acciaio e delle sostanze chimiche, o verso i settori tradizionali, come l'industria alimentare e tessile. In sintesi mentre le regioni meridionali sperimentavano un processo di “industrializzazione dipendente” (Chang et al., 2013, p. 38), le PMI delle regioni settentrionali conoscenvano un rapido sviluppo delle esportazioni di prodotti strategici, come macchine utensili e automobili, prodotti tessili e altri a bassa tecnologia, in cui l'Italia era più competitiva grazie ai salari più bassi.

Alla fine degli anni Sessanta lo scenario internazionale cambiò completamente i rapporti economici: si decretò la fine degli accordi di Bretton- Woods del 1944, che avevano stabilito il regime dei cambi fissi per ottenere stabilità nei rapporti internazionali; terminò la condizione di bassi prezzi delle materie prime, che era stata alla base della stabilità negli acquisti; aumentarono i prezzi del petrolio e di tutte le materie prime, anche per effetto della svalutazione delle valute; diminuì notevolmente il peso delle imprese italiane e aumentò quello dei gruppi pubblici e la quota di fatturato delle imprese a capitale straniero. Nello stesso periodo si attuò la politica di salvataggio pubblico nei confronti delle grosse imprese in difficoltà, in particolare nei settori ad alta intensità di manodopera: così diventarono di proprietà pubblica il settore alimentare, il tessile e l’abbigliamento, a dimostrazione del fatto che l’intervento delle partecipazioni statali divenne il modo per porre al riparo l’industria privata da eventuali crisi (Bianchi, 2013, p. 162).

Diversamente dagli altri paesi europei, l'Italia ha affrontato la crisi petrolifera degli anni settanta attraverso “la politica dei redditi, che si è rivelata una grande fallimento, dovuto all'aumento complessivo delle sovvenzioni, che però non sono state utilizzate strategicamente per incoraggiare gli adeguamenti strutturali: si passa dall'1,2% del PIL nel 1964 al 4,6% nel 1975, fino all'8,9% nel 1985 (Chang et al., 2013, p.38). In questo contesto si sono sviluppati i distretti industriali, basati su gruppi di PMI, che decidono di mettersi insieme per ottenere economia di scala esterne, complementarietà nella produzione e costi di transazione ridotti. I governi nazionali e regionali hanno incoraggiato la diffusione e la crescita dei distretti industriali, fornendo soprattutto prestiti agevolati, che rappresentavano un terzo del totale dei fondi per gli investimenti negli anni settanta. Con la legge di politica industriale n°675 del 1977 a sostegno delle azioni di ristrutturazione e riconversione degli impianti industriali, che rappresentò la nuova tendenza verso legislazioni organiche di settore, in cui le parti sociali e il governo convenivano su linee d’azione concordate a livello tecnico-amministrativo. Tale legge fu oggetto di un contenzioso con la Comunità Economica Europea (CEE), in quanto i sussidi previsti potevano essere distorsivi della concorrenza, ma dopo un lungo scontro tra governo e CEE vennero autorizzati gli interventi per gli impianti localizzati nel Mezzogiorno e le azioni di ristrutturazione e innovazione industriale a favore di imprese minori (Bianchi, 2013, p. 220).

Le partecipazioni statali e le imprese ad esse collegate entrarono in crisi intorno al 1980: lo Stato cedette ai privati diversi settori industriali; i due pilastri del capitalismo privato italiano, FIAT e MONTEDISON, furono colpiti da una profondissima crisi interna; l’ENI e l’IRI entrarono in crisi a causa di deficit consistenti, che richiedevano un fabbisogno crescente di trasferimenti statali, che determinarono una dipendenza maggiore dai partiti politici. Gli obiettivi politici industriali degli anni ottanta si concentrarono sempre di più sul sostegno alla R&S, all'innovazione e alla competitività, nonché all'allargamento e alla modernizzazione delle PMI, dovuta all'aumento della concorrenza internazionale soprattutto nei settori tradizionalo a bassa tecnologia: ecco il Giappone, nei primi anni ottanta l'Italia “ha visto il maggior aumento degli investimenti pubblici in R&S, anche se i risultati sono stati modesti a causa della scarsa gamma di strumenti adottati e del complesso sistema burocratico, che ha regolato l'accesso al sostegno pubblico” (Chang et al., 2013, p. 39).

Nella fase politica successiva la strada della programmazione prese nuove direzioni. Da una parte si rilanciò il ruolo di un organo centrale di programmazione, la Segreteria Generale presso il Ministero del bilancio, che ridefinì i propri compiti di coordinamento e predispose un Fondo Investimenti ed Occupazione (FIO) per il finanziamento di interventi straordinari; dall’altra si articolarono interventi territoriali da parte di singole regioni e interventi settoriali da parte di singole amministrazioni centrali, tra cui il Ministero dell’industria

(Bianchi, 2013, p. 228). Nel decennio tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta emerse un gruppo molto ampio di nuovi imprenditori, che si affermò come nuova categoria imprenditoriale: le piccole e medie imprese produttrici di tessile si rivelarono gruppi dalle dimensioni notevoli, non solo fortemente proiettati sui mercati internazionali, ma soprattutto in grado di utilizzare i vantaggi acquisiti per affermarsi come leader industriali. In questi anni il settore pubblico cambiò in modo sostanziale: il decreto legge 333 del 1992 trasformò IRI (liquidato definitivamente solo nel 2002), ENI, ENEL da enti pubblici in Società per Azioni, permettendo così la privatizzazione (D.L. 11 luglio 1992, n. 333. “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica”, convertito con legge 8 agosto 1992, n. 359).

Negli anni Novanta le privatizzazioni e le liberalizzazioni hanno avuto come obiettivo la riduzione del debito pubblico, ma anche il miglioramento della produttività delle nuove imprese privatizzate, riducendo al contempo il monopolio e la collusione tra imprese pubbliche. Le privatizzazioni hanno conosciuto due fasi: in primo luogo sono state vendute grandi banche nazionali, che detenevano le azioni di molte società pubbliche; in secondo luogo, le imprese pubbliche sono state vendute direttamente alle aziende private; fu adottata una legislazione antitrust; si riformò la regolamentazione delle industrie di rete (telecomunicazioni, gas, elettricità, trasporti, autostrade) con l’implementazione delle leggi europee, che creavano mercati unici per questi

prodotti. Il processo di riforma e regolamentazione dei servizi a rete ha conosciuto l’apice nel periodo 1994-1997, ma solo il settore della telefonia è riuscita a rimuovere gli ostacoli della concorrenza attraverso meccanismi competitivi; il settore energetico ha toccato il mercato all’ingrosso dell’elettricità, senza produrre effetti nel settore del gas; il settore del trasporto pubblico locale aspetta il completamento della riforma del 1996; il settore assicurativo non ha visto l’ingresso di nuovi soggetti, mentre le fusioni di compagnie assicurative hanno portato ad un aumento del potere di mercato delle aziende di maggiori dimensioni, senza alcun vantaggio sulle tariffe per gli utenti; il settore delle autostrade ha visto la privatizzazione della Società Autostrade, senza l’istituzione di un’autorità con poteri sanzionatori (Gallo, Silva, 2006, p.27). Restano da completare alcuni processi di liberalizzazione e privatizzazione delle attività in condizioni di concorrenza molto imperfetta e da correggere le distorsioni delle istituzioni finanziarie sui mercati dei capitali. In alcuni settori, la privatizzazione ha prodotto i risultati desiderati, ma in molti altri, la mancanza di una visione strategica ha portato alla perdita del cotrollo delle attività produttive strategiche, a benefici minimi per i consumatori, che continuano a pagare tariffe più alte, o alla semplice sostituzione dei monopoli pubblici con quelli privati, come nel caso di Telecom Italia per le telecomunicazioni o Austrade per le infrastrutture (Chang

A metà degli anni 2000, il processo di privatizzazione ha subito un rallentamento e le società di holding statali, come ENEL e ENI, sono riuscite ad aumentare la propria presenza sui mercati europei e globali. Allo stesso tempo, il governo è intervenuto nel processo di ristrutturazione della FIAT, consentendo alla società di beneficiare di ingenti crediti messi a disposizione da banche recentemente privatizzate. Prima della crisi, solo il breve governo Prodi del 2006- 2008 ha cercato di avviare un nuovo percorso di politica industriale, de- regolando il settore dei servizi e proponendo una nuova agenda nazionale per l'industria nazionale, chiamata “Industria 2015”, che seguiva tre strategie principali:

1.

la promozione degli investimenti in progetti di innovazione nei settori