ULTIMO TANGO A PARIGI di Bernardo Bertolucc
2.5 Film dentro il film
Fino a qui abbiamo affrontato delle strategie cinematografiche, sia visive che sonore, che sono costruite appositamente con l’intento di disorientare e traumatizzare lo spettatore che si appresta a vedere il film. Abbiamo considerato il potere disturbante dei colori forti, la capacità di negazione totale della vista e il conseguente spaesamento che provocano il bianco e il nero e abbiamo anche analizzato come in molti casi sia invece l’apparato sonoro stridente e dissociato che provochi nello spettatore ansia, paura e shock.
Ora è il momento di affrontare l’ultima tecnica cinematografica atta a confondere la mente dello spettatore e a depistarlo verso qualcosa di fasullo e poco determinante ai fini della vicenda. Sto parlando dell’incipit che procede utilizzando la strategia del “film dentro il film”.
Questa modalità d’inizio non è giocata, come le precedenti, sulla presenza di colori sgargianti o suoni fastidiosi, ma più che altro sulla sovrapposizione di piani temporali, spaziali e narrativi che alternandosi confondono e rendono più faticosa la delicata operazione di ancoraggio alla storia.
Il procedimento che si sviluppa negli inizi di questo tipo è molto semplice, ma costituisce una trappola molto efficace in cui far cadere lo spettatore. Possiamo considerarla una falsa partenza: si crede che le prime scene sullo schermo costituiscano l’incipit del film per cui si è acquistato il biglietto ma poco dopo si scopre che in realtà appartengono ad un secondo film a cui solitamente fa riferimento un altro pubblico riconducibile alla realtà del diegetico.
Questa partenza ritardata costituisce motivo di disorientamento per lo spettatore, che già concentrato ed attento a percepire ogni indizio ed ogni
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traccia utile alla comprensione corretta della storia, si trova spiazzato e ingannato quando scopre che la vera vicenda in realtà deve ancora iniziare.
Christian Metz nel suo libro L’enunciazione impersonale o il luogo del film, dedica un intero paragrafo del suo lavoro all’analisi delle diverse tipologie di uso della strategia cinematografica del film nel film. Come prima cosa afferma che
Il film nel film, o più precisamente la sua relazione con il film che lo ingloba, può tracciare percorsi molto diversi, suscettibili di inscrivere con nettezza e complessità ineguali il lavoro dell’enunciazione, anche se la sola presenza del film secondo si offre già come “marca” automatica e minima.119
A questo punto distingue tre grandi tipi, che identifica come gradi, di forza enunciativa o “se si vuole di esattezza nel ripiegamento del testo su se stesso”.120 Nei primi due gradi il film e la sua storia ci parlano di altri film, mentre la terza variante è considerata, secondo l’autore, “la sola in cui si organizzi una vera e propria costruzione in abisso”121, ovvero all’interno della quale non troviamo un “raddoppiamento semplice” o meta cinematografico ma un “doppio raddoppiamento” più pienamente riflessivo.122
I film che ho deciso di analizzare come facenti parte di questa categoria, anche se non rispecchiano fedelmente le caratteristiche della trattazione di Metz e non sarebbero perfettamente inseribili in uno dei suoi gradi di forza enunciativa appena descritti; trovo che si avvicinino molto alla definizione
119 C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995,
p. 106.
120 Ivi. 121 Ivi.
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che l’autore ci fornisce parlando del terzo grado di film nel film, ovvero quello in cui la messa in abisso e la riflessività del film sono propriamente detti.
Quest’ultima potrebbe avere la seguente formulazione: “Presenza di un film secondo, che sia anche lo stesso del primo”.123
Occorre precisare però che il film contenuto si può realizzare in moltissimi modi differenti e infatti, per esemplificare e rendere più chiara questa tecnica che possiamo definire come meta cinematografica, ho voluto isolare alcuni casi di incipit che procedono in maniera molto diversa ma che hanno in comune la volontà di creare appositamente confusione e stress percettivo nella mente del pubblico. Seppur non siano collocabili nella terza categoria di Metz, questi incipit contengono allo stesso modo una forte carica di disorientamento e un’alta potenzialità di far cadere lo spettatore nell’inganno.
I primi due casi riguardano due film di Brian De Palma. Nel primo, Blow Out, il film che vediamo in scena è un horror erotico di cui il protagonista sta sistemando l’audio e gli effetti sonori; lo spettatore è messo di fronte a quella che Metz definirebbe
Una variante aggressiva della costruzione in abisso, variante che non è più tanto rara, ma che non è ancora comune: un piccolo film che occupa giusto l’inizio della pellicola, in modo tale che si è costretti a prenderlo inizialmente per quello “vero”.124
In Omicidio a luci rosse, invece, la presenza nell’incipit di un altro film è facilmente intuibile in quanto lo spettatore riesce anticipatamente a capire
123 Ivi.
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che ci si trova in un set di Hollywood. Metz in questo caso non parlerebbe propriamente del film nel film poiché allo spettatore non viene presentato nulla di completo e preesistente e manca la proiezione sullo schermo, ma
Ci viene invece fatto vedere, per così dire, un pro filmico estraneo: il materiale profilmico (= che si mette davanti alla macchina da presa) di un film diverso dal film primo. Il procedimento è assai comune. Fa sempre un certo effetto, un effetto facile, dato che il profilmico filmato somiglia per definizione al filmico: lo spettatore non può non confondere, per un istante, il profilmico incluso con il filmico che lo include, cosa che permette diverse sorprese e astuzie di sceneggiatura.125
L’ultimo film preso in considerazione è Scream 4 di Wes Craven. Come gli appassionati sanno, è già successo che un precedente episodio della saga horror, Scream 2, cominciasse proprio con le immagini di un altro film, “Stab”, che costituiva il rifacimento delle vicende “realmente” accadute nella cittadina americana di Woodsboro (nel primo Scream). In questo ultimo episodio, invece, il gioco raddoppia facendosi più interessante e prima di poter realmente conoscere la continuazione della storia di Sidney, il pubblico si dovrà destreggiare in un continuo rimando alla finzione nella finzione senza capire, fino alla comparsa del titolo, se quello che sta guardando è il vero film o un precedente rifacimento.
Questo ultimo esempio presuppone una costruzione molto più complicata e stratificata dei due precedenti in quanto i livelli narrativi sono più di due e si contengono l’uno nell’altro creando nel pubblico difficoltà di orientamento nel distinguere il film primo dagli altri. Per quanto riguarda l’ultimo film di
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Craven siamo molto vicini a quello che Metz chiama “raddoppiamento
perfetto”.
Con il raddoppiamento perfetto, il rovesciamento su se stesso, il film “primo” si tesse attraverso un altro film, che non è veramente altro e che non è veramente “dentro” l’altro. […] Il rapporto tra i due strati testuali è proprio un rapporto di attraversamento, di embricatura, di intreccio o di intrico, al limite della simbiosi. Le varianti sono numerose, e ogni opera innovatrice ne aumenta il numero, ma in tutti i casi è la stessa dualità dei livelli filmici presenti che si trova ad essere minacciata, superata o messa in questione.126
In questo ultimo esempio la “disparata molteplicità dei livelli e la frammentazione numerica degli episodi rendono fin dall’inizio inconsistente ogni tentativo di separazione troppo rigida tra film primo e in conclusioni seconde, mentre la caratteristica propria della struttura enunciativa è al contrario quella della continua mobilità del suo foyer e della mescolanza disordinata del materiale utilizzato”.127
126 Ibidem, p. 112. 127 Ibidem, p. 114.
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