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Il punto di vista spettatoriale

Nella prima parte dell’incipit lo spettatore è invitato alla contemplazione della forza musicale che procede accompagnata dalla negazione visiva provocata dall’uso del nero.

Il pubblico “guarda”, o per meglio dire sente, attraverso gli occhi della protagonista e cerca di immedesimarsi nella sua vita fatta di buio e di note musicali.

La totale negazione della visione, come vedremo anche successivamente nell’incipit di Fargo, è sempre elemento fortemente destabilizzante e angosciante per chi si approccia al film. L’assenza di informazioni visive scatena delle reazioni di isolamento ed estraneità molto forti che agiscono

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nella psiche dello spettatore creando dei veri e propri piccoli traumi percettivi.

Nell’incipit di Dancer in the Dark il prolungamento nel tempo di questa immagine fissa e nera, che dura quasi quattro minuti, accompagna lo spettatore a prendere una posizione mentale comoda e confortevole che, nonostante la volontà di cercare lo stesso la presenza di immagini sullo schermo, lo fa sprofondare in una landa desolata e serena dove lo sguardo non deve sforzarsi, ma allo stesso tempo lo fa cadere in un “sonno visivo” dal quale sarà più difficoltoso ridestarsi e comprendere le immagini che poco dopo faranno un’irruzione violenta e inaspettata sullo schermo.

Con l’arrivo della prima scena, infatti, l’occhio del pubblico è affaticato, inquieto e alla ricerca continua di un modo per riempire quello spazio vuoto, quella separazione che c’è tra lui e la scena mostrata. Lo spettatore non si dà pace e continua freneticamente a muovere lo sguardo dando vita ad un inseguimento serrato della scena che pare sfuggire senza sosta, priva di spazio e di temporalità.

Il pubblico, rendendosi conto di questa calcata disomogeneità espressiva, comincia ad accusare sensazioni di disorientamento e spaesamento, venendo in questo modo a contatto con l’essenza più profonda del tempo, con la sua successione e con la percezione del cambiamento che è indice di un andamento temporale frammentato e sfuggente che sembra costruire e demolire senza sosta le immagini e le emozioni, sottolineando la tragicità dell’esistenza di Selma.

L’insieme di queste micro sequenze autonome che formano l’incipit e che spezzano continuamente il flusso normale degli eventi e del tempo, causano nella mente di chi osserva il sorgere di una serie di piccoli shock percettivi. Ogni inquadratura, come congelata e immobile, riesce a far emergere anche il pensiero che, venendo in contatto con il reale, fa risultare l’immagine del film

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ampiamente trasfigurata. In pratica ciò che avviene è uno sdoppiamento della realtà che procede in due binari separati. Il flusso del reale viene filtrato dal pensiero che trascendendo dalla realtà, si apre verso un’altra dimensione: il mondo parallelo di Selma, un universo mentale, musicale, intimo e spirituale. In questo nuovo mondo noi, sin dall’incipit, abbiamo un posto privilegiato, ne siamo gli ospiti.

Durante l’esordio, per merito del canto, della musica e della danza, Selma riesce a crearsi un proprio spazio, scevro da ogni regola e discriminazione, uno spazio libero, un “dove” alternativo che sembra essere il posto più bello e godibile per lei. In un primo momento per noi è difficile entrare in questo “posto magico” fatto di sensazioni, pensieri ed emozioni che non sono le nostre ma attraverso le quali saremo in grado di interagire con la protagonista e comprenderla fino in fondo. Lo sforzo iniziale a cui siamo sottoposti è stressante ma sarà fondamentale agganciarci fin dalle prime scene alla sua mente sognatrice e sottoscrivere quel patto iniziale tra film e spettatore, necessario nell’incipit, che ci permetterà di interiorizzare e interpretare adeguatamente il contenuto della storia.

Von Trier esce da questa sua ulteriore sperimentazione di un nuovo modo di fare cinema come un dio perdente che non può esprimere il suo giudizio attraverso il montaggio: i cento apparecchi alla fin fine si rivelano cento occhi spauriti di fronte alla possenza della vita, e il regista non può fare altro che pescare dai rimasugli, in mezzo alle tante e beffarde inquadrature vuote. In questo montaggio risultante non c’è il massimo della performance, ma solo quello che la vita stessa gli ha permesso di metterci dentro. Nel momento del sommo sfarzo tecnologico Lars von Trier perde definitivamente il controllo e

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ne sconta gli errori. Ma è proprio nel fondo della sconfitta che trova la vita.91

Apparentemente accomunabile con l’incipit di Dancer in the Dark, sia a livello musicale che visivo, troviamo l’inizio del musical West Side Story (Jerome Robbins e Robert Wise, 1961). Anche in questo caso il film si apre con un’overture musicale accompagnata da uno sfondo fatto di campiture colorate da tinte intense e uniformi. I tre colori primari si susseguono sullo schermo accompagnati dalla musica: per primo compare il giallo che inaugura la scena per poi lasciare spazio al rosso e successivamente al blu. Nella parte finale dell’incipit fanno una breve comparsa anche l’arancione e il verde per poi culminare nuovamente nel blu. Lo schermo, oltre ad essere colorato alternativamente con questi colori, presenta anche delle particolari linee nere disposte verticalmente che sembrano abbozzare il contorno di un’immagine. Lo schermo blu si allarga sul titolo bianco e le linee verticali si uniscono a comporre i confini di una Manhattan stilizzata. (Figg. 7-8)

Gli incipit dei due musical procedono per molti versi in maniera simile: in entrambi i casi la musica procede come forza introduttrice aiutata soltanto dal colore uniforme e priva di alcun supporto di tipo diegetico, ma ciò che divide i due inizi è proprio la differenza cromatica.

Se nel film di Lars von Trier la visione è negata tramite l’uso totalizzante del nero, in West Side Story il susseguirsi di colori accesi e squillanti preannuncia la carica dinamica e spettacolare del film. L’overture così intensamente colorata anticipa uno spettacolo ricco di luci e colori e riesce ad intrattenere lo sguardo dello spettatore grazie ad un dinamismo d’insieme che si traduce in un susseguirsi vorticoso di musica e colore.

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È proprio questo trionfo cromatico e musicale che trova il suo opposto, la sua più totale negazione, nell’overture di un altro musical, questa volta però drammatica, cupa e tinta di nero, Dancer in the Dark.

L’incipit, in questo caso, nega totalmente gli effetti di colore, dinamismo, energia e spettacolo, si svuota dei suoi caratteri più tradizionali per lasciare il posto ad un’inquadratura nera, immobile e intensamente drammatica.

Anche a livello prettamente musicale, i due esordi sono molto differenti:

West Side Story si apre con una sonorità molto marcata, incalzante, allegra,

gioiosa e che procede in crescendo per tutta la durata dell’incipit, mentre in

Dancer in the Dark la sinfonia introduttiva emerge lenta e sussurrata e

altrettanto piano si espande fino a riempire ogni parte dell’inquadratura nera. Entrambi i componimenti sembrano informare preventivamente lo spettatore riguardo i personaggi, i caratteri, le vicende e i significati della storia: da una parte l’overture colorata e spensierata ci anticipa una storia vivace, dinamica, allegra e completa di coreografia, immagini, colori e dialoghi; dall’altra l’overture tetra e seria anticipa la dolorosa e triste storia della cecità inarrestabile della protagonista, “la ballerina delle tenebre”.

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