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CAPITOLO I. ALLE RADICI DELLA RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE

I.3 Filosofia della rappresentanza proporzionale

Quando parliamo di radici filosofiche della rappresentanza proporzionale, non possiamo, almeno inizialmente, non far riferimento a due sommi autori che furono considerati un po’ come i precursori della proporzionale stessa: Aristotele e Jean-Jacques Roussseau. Caso curioso il loro, perché in realtà è noto che le loro tesi furono utilizzate, e a ragione, anche a sostegno del principio maggioritario, del quale sono ritenuti i massimi sostenitori.

E in effetti è difficile, anzi è impossibile, non ammettere che i due grandi filosofi affermarono con forza quel principio e lo difesero strenuamente. Vedremo nel corso di questo e del prossimo paragrafo come le due interpretazioni date alla loro opera in tema di rappresentanza politica non siano necessariamente contraddittorie l’una rispetto all’altra. Per il momento resteremo nel campo strettamente filosofico, analizzando in che modo Aristotele e Rousseau giustificarono e fondarono il principio maggioritario e perché

possono, al contempo, essere annoverati anche tra i fondatori ideali della proporzionale. Subito dopo, arriveremo a quello che è probabilmente il cuore della questione proporzionale: la distinzione tra il diritto di deliberazione e il diritto di rappresentanza, una distinzione per mezzo della quale le suddette, apparenti contraddizioni, verranno in qualche modo risolte.

Nella sua opera più importante, per ciò che qui ci interessa, la Politica, Aristotele spesso parlò di maggioranza, maggior numero, di moltitudine rispetto al minor numero: parole utilizzate sia per indicare la democrazia in genere, sia nel senso specifico di prevalenza che la maggioranza avrebbe dovuto far valere sulla minoranza, in caso di pronuncia collettiva di tutto il popolo, ma anche nel caso nel quale la decisione fosse stata di spettanza di un’assemblea, o di una ristretta cerchia di persone, o anche solo di un tribunale.73 Un principio che dunque trovava applicazione sia in regime di oligarchia che in regime di democrazia. Il fondamento di tale principio era, secondo le parole del sommo stagirita, il seguente: “Che poi le decisioni siano prese dalla maggioranza esiste in tutte, e in realtà nell’oligarchia, nell’aristocrazia e nelle democrazie quel che decide la maggioranza di coloro che partecipano al governo ha valore sovrano”74

Aristotele parlava poi di “senno del maggior numero” per spiegare che a dare i migliori giudizi poteva essere solo il corpo sociale preso nel suo complesso, nel suo tutto, non già il singolo che avesse fatto parte delle assemblee dei cittadini, di un tribunale o di un altro organo collettivo. Ecco perché “può darsi in effetto che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a loro, non presi singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha la sua parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza. Per tale motivo i molti giudicano meglio anche le opere di musica e le creazioni dei poeti: questo ne giudica una parte, quello un’altra, ma tutt’insieme gli uomini tutt’insieme.”75 Il principio della prevalenza della maggioranza era quindi considerato non tanto e non solo come il risultato della necessità, come una scorciatoia confortevole per giungere a una decisione collettiva (come invece la concepirono i Romani ricorrendo alla finzione giuridica che la volontà della maggioranza dovesse essere vista alla stregua della volontà di                                                                                                                

73 Gaspare Ambrosini, Sistemi Elettorali, Firenze, G. C. Sansoni, 1946, p. 2

74 Qui e in seguito terrò presente la traduzione di Renato Laurenti in Aristotele, Politica, Roma-Bari, Laterza,

2011 (1 ed. 1993), p. 132

tutti, dal momento che raggiungere l’unanimità era praticamente impossibile) ma come un vero e proprio portato della giustizia.

Una conclusione trascinata alle estreme conseguenze in età moderna dalla scuola del diritto naturale e in particolare da colui che di quella scuola fu uno dei massimi esponenti: Jean- Jacques Rousseau, che andò anche oltre Aristotele, facendo derivare il fondamento e la giustificazione del principio maggioritario (anche in questo caso ritenuto non semplicemente un prodotto della necessità, ma anche e soprattutto della giustizia), dalla stipula dell’originario contratto sociale (l’unico per il quale fosse necessaria l’unanimità dei contraenti), in base al quale ogni cittadino conferiva i propri diritti alla collettività con la consapevolezza di dover rispettare le sue leggi e conseguentemente uniformarsi alle decisioni della maggioranza. “Mais on demande comment un homme peut être libre, et

forcé de se conformer à des volontés qui ne sont pas les siennes. Comment les opposants sont-ils libres et soumis à des lois auxquelles ils n’ont pas consenti?

Je réponds que la question est mal posée. Le citoyen consent à toutes les lois, même à celles qu’on passe malgré lui, et même à celles qui le punissent quand il ose en violer quelqu’une: la volonté constante de tous les membres de l’État est la volonté générale; c’est par elle qu’ils sont citoyens et libres.

Quand on propose une loi dans l’assemblée du peuple, ce qu’on leur demande n’est pas précisément s’ils approuvent la proposition ou s’ils la rejettent, mais si elle est conforme ou non à la volonté générale qui est la leur. […] Quand donc l’avis contraire au mien l’emporte, cela ne prouve autre chose sinon que je m’étois trompé, et ce que j’éstimoit être la volonté générale, ne l’étoit pas.”76

Ecco le argomentazioni poste dal filosofo ginevrino a fondamento del principio di maggioranza che, come dicevamo, è, a suo avviso, oltre che strumentale alla decisione collettiva, anche rispettoso della libertà dei cittadini (abbiamo appena spiegato perché proprio attraverso le parole del Rousseau) e giusto, dal momento che “la volonté générale

est toujours droite et tend toujours à l’utilité publique.”77

Argomentazioni, queste, sostanzialmente accolte dalla Rivoluzione americana e, lo abbiamo già visto, da quella francese e incorporate quasi automaticamente nelle legislazioni dei paesi che via via andavano percorrendo la strada del governo rappresentativo. Del resto, affermavano i sostenitori del maggioritario, “lo Stato, essendo                                                                                                                

76 Jean-Jacques Rousseau, Du Contrat Social, ou Principes du Droit Public, Amsterdam, Michel Rey, 1762,

pp. 165-166

un organismo, non può avere una volontà frazionata, ma […] deve avere un’unica volontà e quindi un’unica rappresentanza, e […] quindi quest’unica volontà, che vien poi in concreto dichiarata dal corpo legislativo, non può essere che quella della maggioranza, perché, data l’uguaglianza dei cittadini, non c’è altro mezzo per arrivare alle soluzioni che quello di adottare la soluzione voluta dal maggior numero di essi, cioè dalla maggioranza.”78 Il passaggio dal piano delle deliberazioni delle assemblee a quello dell’elezione di quelle assemblee e dunque del metodo di rappresentanza (la formula elettorale in pratica) era breve, quasi impercettibile, almeno dal punto di vista dei propugnatori più convinti dell’elezione maggioritaria. Tra questi non può non essere annoverato Adhémar Esmein, il quale sosteneva che il governo di un paese dovesse appartenere, per tutta la durata di una legislatura, ai rappresentanti scelti dalla maggioranza degli elettori e che quindi, in linea di principio, se il paese intero avesse costituito un unico collegio elettorale, al suo interno la maggioranza avrebbe dovuto avere il diritto di nominare tutti i deputati. Nessuna ingiustizia sarebbe stata perpetrata, a suo avviso, nei confronti della minoranza; semplicemente, la maggioranza non avrebbe ottenuto nient’altro che i diritti a essa spettanti. Tradotto: la minoranza non poteva accampare alcun diritto se non quello di diventare a sua volta maggioranza e di usufruire quindi di quei diritti. “Nous avons […] montré que le droit de désigner les représentants du peuple

appartenait au corps electoral pris dans son ensemble; que la décomposition de ce corps en collèges électoraux particuliers résultait simplement d’une nécessité pratique et qu’elle ne conférait aucun droit propre à ceux-ci, qui statuent toujours au nom du corps tout entier.”79

Un sostegno a oltranza del principio maggioritario che, come vedremo, venne contestato aspramente dai proporzionalisti di ogni latitudine, in quanto contrario alla logica e alla giustizia, nonché ai principi stessi del sistema rappresentativo.

Prima però dobbiamo vedere in che modo sia Aristotele che lo stesso Rousseau potessero essere annoverati tra i fondatori anche del principio della rappresentanza proporzionale. Anche in questo caso è Nicolas Saripolos a fornirci un importante aiuto per districarci meglio nel labirinto delle idee, mettendo in evidenza come il padre della Scienza politica, parlando di stato democratico, avesse sottolineato i tre caratteri fondamentali che lo dovevano per forza contraddistinguere perché potesse essere considerato tale. Caratteri                                                                                                                

78 Gaspare Ambrosini, Op. cit., p. 9

79 Adhémar Esmein, Éléments de Droit Constitutionnel Français et Comparé, I, Paris, Librairie de la Société

derivanti da quelli che Aristotele considerava i principi ordinatori della forma di stato in questione: la sovranità popolare e la libertà. Il primo carattere consisteva “nell’essere governati e nel governare a turno: in realtà, il giusto in senso democratico consiste nell’avere uguaglianza in rapporto al numero e non al merito […]” 80 Parole che sottolineavano come il cittadino non fosse soltanto soggetto, ma anche sovrano, “il ne fait

pas qu’obéir, il commande à son tour.”81

Il secondo carattere della democrazia stava nella perfetta eguaglianza di ciascun cittadino, non sussistendo tra di loro alcuna differenza se non quella del numero. Essa vuole “che i poveri non abbiano affatto più potere dei ricchi e non siano sovrani esclusivi, ma che tutti lo siano su un piano di uguaglianza in rapporto al numero. Così, dunque, si pensa di poter realizzare nella costituzione eguaglianza e libertà.” 82 Partecipazione effettiva di tutti i cittadini (sia essa diretta o indiretta) al governo della cosa pubblica e influenza degli stessi in virtù del loro numero: questi dovevano essere i primi due principi della democrazia, coniugati naturalmente con il terzo: laddove vi fosse stata una decisione da prendere, la maggioranza avrebbe dovuto prevalere. “En présence de la nécessité d’une choix à faire

entre deux directions différentes ou opposées, l’égalité exige qu’on suive l’avis de la majorité.”83

Principi che Aristotele coniugava chiaramente con l’unica forma di democrazia allora conosciuta, quella diretta. Ma questi principi sarebbero stati validi a maggior ragione in un regime di democrazia rappresentativa. Secondo questa scuola di pensiero, infatti, ritenere il principio maggioritario come un idolo assoluto, capace di risolvere anche il problema della rappresentanza delle minoranze in parlamento (che, ripetiamolo, secondo un’interpretazione spinta alle estreme conseguenze di quel principio stesso, avrebbero dovuto reclamare solo il diritto a diventare un giorno maggioranza), avrebbe significato mistificare il pensiero dello stagirita che, se traslato dal campo della democrazia diretta a quello della democrazia rappresentativa, avrebbe permesso viceversa di sostenere anche filosoficamente la proporzionale rappresentanza delle minoranze. Del resto, il primo principio, quello dell’alternanza di governo e obbedienza, designando il cittadino allo stesso tempo come sovrano e soggetto, non avrebbe potuto consentire l’esclusione dalla rappresentanza delle minoranze, ai cui componenti, in questo caso, sarebbe rimasta solo la                                                                                                                

80 Aristotele, Op. cit., p. 203 81 Nicolas Saripolos, Op. cit., I, p. 2 82 Aristotele, Op. cit., p. 204 83 Nicolas Saripolos, Op. cit., I, p. 4

qualifica di soggetti, privati di ogni tipo di sovranità. Il secondo principio, invece, quello dell’eguaglianza tra i cittadini e della loro partecipazione effettiva al governo dello Stato, era il pilastro stesso sul quale fondare la rappresentanza proporzionale delle minoranze che, se escluse, si sarebbero viste preclusa quella partecipazione.

La distinzione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa è dunque fondamentale per riuscire a comprendere i due volti della filosofia politica aristotelica, o meglio i due volti tratteggiati dal pensiero e dalla riflessione moderna e contemporanea su di essa. Analogamente il Rousseau, le cui motivazioni alla base del principio maggioritario, come abbiamo visto, erano molto simili (sebbene più estreme) a quelle addotte da Aristotele, venne ritenuto, secondo questa interpretazione, come uno dei padri anche della proporzionale. La libertà dei cittadini e la loro eguaglianza nel determinare la volontà generale, inevitabilmente infranta soltanto dal peso del loro numero, erano, se portate nel campo rappresentativo (sappiamo bene comunque, e lo abbiamo visto, che il Rousseau concepiva soltanto la democrazia diretta, senza nessuna forma di rappresentanza; diverso fu invece il discorso per coloro che al suo pensiero si ispirarono), ampiamente sufficienti ai sostenitori del proporzionalismo per affermare che l’elezione a maggioranza pregiudicava l’eguale partecipazione alla formazione della volontà generale, la quale, nel governo rappresentativo, non poteva che prendere corpo all’interno dell’assemblea legislativa, privata, nel caso del sistema maggioritario, delle minoranze, dunque incompleta e impossibilitata a decidere in base alla reale maggioranza.

“La parola democrazia evoca due idee assai diverse. Nel primo senso, la parola democrazia è sinonimo di eguaglianza di tutti i cittadini e rimanda all’idea pura secondo la quale la democrazia significa, secondo la sua stessa etimologia, governo di tutto il popolo esercitato attraverso eguali rappresentanze. Nella seconda accezione, democrazia vuol dire governo di privilegi a vantaggio della maggioranza numerica che domina lo Stato. Questa sarebbe la inevitabile conseguenza del modo con il quale oggi si contano i voti. Il conteggio avviene escludendo completamente la minoranza.”84

Vedremo nel prossimo paragrafo gli sviluppi di questo discorso, centrale nel dibattito sulla proporzionale nel XIX secolo. Per il momento è interessante proseguire sulla via del fondamento filosofico che, a partire da Aristotele e, soprattutto, dal Rousseau, i sostenitori dell’idea proporzionalista diedero a quell’idea stessa. A loro avviso, il grande torto dei fautori del principio maggioritario stava nell’aver confuso la volontà della maggioranza,                                                                                                                

espressa in modo quasi meccanico, con la volontà generale, che invece era tutt’altra cosa e che, in un regime di democrazia rappresentativa, al contrario di quanto avvenisse sotto quella diretta, non poteva essere espressa dal popolo. La legge doveva essere considerata come l’espressione di un “io comune”, data non semplicemente, meccanicamente appunto, dalla somma degli “io” di tutti i cittadini, meno che mai dalla somma di quelli della loro maggioranza. “La volonté générale du peuple tout entier, de l’État, n’est pas le résultat

d’une action mécanique de volontés individuelles séparées et rigides, come souvent Rousseau lui-même, Rousseau surtout peut-être, semble le croire; l’État forme une unité psychologique; il est plus, il est autre chose qu’un arrangement mécanique.”85 Quindi, la

volontà dello Stato doveva essere considerata un prodotto organico di azioni e reazioni reciproche tra le diverse unità sociali, un prodotto di un’elaborazione morale, molto diversa dalla semplice somma aritmetica delle volontà isolate. Solo in questo modo quella volontà, espressa dalla legge, quella ragione del popolo, poteva diventare veramente un punto d’incontro, un compromesso tra questi elementi: il giusto mezzo insomma. E non è un caso che proprio il teorico del giusto mezzo, François Guizot, sostenesse che lo scopo del sistema rappresentativo fosse raccogliere, concentrare tutta la ragione sparsa all’interno della società e di applicarla al suo governo. “De là suit necéssairement que les députés

doivent être les hommes les plus capables, 1° de découvrir, par suite de leur déliberation commune, la loi de la raison, la verité qui, en toute affaire, dans les moindres come dans les plusgrandes, existe et doit décider, 2° de faire reconnaître et exécuter par la généralité des citoyens cette loi une fois découverte et rendue.”86 Del resto, in una democrazia rappresentativa, il popolo non poteva certo esprimere la volontà dello Stato sotto forma di legge. Tra i suoi organi, ve n’era solo uno, il corpo legislativo, che poteva farlo e la cui funzione quindi consisteva nel concentrare i sentimenti, le tendenze, le idee e anche gli interessi che si trovavano sparsi nella società. L’assemblea rappresentativa aveva dunque il compito di fondere tutti questi elementi, ricavandone la volontà generale e dandole espressione giuridica. Per questo essa doveva essere costituita in modo tale che vi si ritrovassero tutti i suoi elementi costitutivi. Un parlamento che così sarebbe divenuto molto più che l’immagine, lo specchio della nazione, ma la sua anima, il suo educatore. “This is

the soul that gives form, life and unity to the commonwealth: from hence the several

                                                                                                               

85 Nicolas Saripolos, Op. cit., II, p. 135

86 François Guizot, Histoire des Origines du Gouvernement Représentatif en Europe, II, Paris, Didier, 1851,

members have their mutual influence, simpathy and connection.”87 Stando così le cose, secondo questa filosofia della rappresentanza, soltanto la proporzionale avrebbe potuto restituire un corpo legislativo capace di formare la legge, espressione autentica della volontà generale: solo i deputati eletti liberamente da tutti i, e non solo da una parte dei, cittadini, infatti, avrebbero potuto portare in parlamento tendenze di spirito e sentimenti vari, esprimendo più o meno confusamente gli elementi di quella volontà generale che poi il parlamento stesso avrebbe raccolto e assemblato, attraverso l’azione libera e indipendente dei deputati deliberanti in comune e sottoposti alla spinta di azioni, reazioni e influenze reciproche.

All’inizio il deputato avrebbe cominciato con il precisare, con il dare forma alla volontà degli elettori da lui fatta propria, ma poi, in parlamento, il suo pensiero sulla volontà generale, così precisato provvisoriamente, sarebbe stato nuovamente influenzato dalle visioni, dai pareri dei suoi colleghi, che gli avrebbero permesso di vedere quella stessa volontà generale in un orizzonte più vasto. Solo da queste azioni e reazioni reciproche sarebbe derivata la vera volontà dello Stato, espressa dal suo organo rappresentativo. “Très differenciés au début, les avis peuvent aboutir à la vraie unité, celle qui résulte de la

combination de toutes les parties; la loi serait ainsi une veritable moyenne, τờ µέσoν; elle serait la vraie expression de la souveraineté nationale, de la conscience juridique de la nation qui sert de base à cette souveraineté.”88

Ed essendo la base morale di questa sovranità formata dai sentimenti e dalle volontà di tutti i cittadini, i poteri pubblici, fondati su questa sovranità, non avrebbero potuto non contenere tutti i suoi elementi e quindi non avrebbero potuto non essere eletti con il sistema proporzionale. La coscienza popolare avrebbe dovuto esercitare un’influenza più o meno ampia sui parlamentari, la cui azione, a sua volta, avrebbe dovuto riflettersi sulla prima, arricchendola con i frutti della loro esperienza e della loro capacità.

“They individually, and the Chamber they form, shall have a reflex action on the people

[…] while they drive authority from the people, they shall also give the people the benefit of the experience they acquire in the Chamber as well as of the superior knowledge and capacity they may be presumed to possess.”89

Un beneficio reciproco che sarebbe stato mutilato nel caso in cui l’accesso agli organi elettivi fosse stato riservato soltanto a una metà della popolazione, come sarebbe avvenuto,                                                                                                                

87 John Locke, Two Treatises of Government, London, Whitmore and Fenn, Charing Cross, 1821, p. 371 (1

ed. 1690)

88 Nicolas Saripolos, Op. cit., II, p. 140

all’interno di ciascun collegio, con l’elezione maggioritaria, che, secondo la filosofia dell’elezione proporzionale, racchiudeva una concezione materialista e meccanica, da contrapporre all’idea organica e morale dello Stato che avrebbe invece informato il pensiero proporzionalista.