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Il proporzionalismo italiano e l’Associazione per lo studio della rappresentanza

CAPITOLO II. LA DIFFUSIONE DEL PROPORZIONALISMO IN EUROPA:

II.5 Il proporzionalismo italiano e l’Associazione per lo studio della rappresentanza

Anche il proporzionalismo italiano, così come quello svizzero e quello inglese, conobbe parecchi sviluppi nel corso degli anni anche precedenti all’unità e, pur non potendo contare sulla medesima fioritura di discussioni e pubblicazioni dei due stati menzionati, si può dire che la questione della giusta rappresentanza anche nel nostro paese avesse radici, se non antiche, almeno fortemente ancorate al passato. Il primo a parlare più o meno esplicitamente di proporzionale in Italia, l’abbiamo già visto, fu Antonio Rosmini-Serbati nella sua opera La Costituzione Secondo la Giustizia Sociale. Si tratta di un libro di rilievo, per ciò che qui ci interessa, perché, al di là degli aspetti molto retrogradi della sua proposta, l’autore fece ricorso al metodo del quoziente, che, nel suo caso, sarebbe dovuto servire, però, non a determinare il numero di voti necessari perché un gruppo elettorale fosse rappresentato, bensì i collegi elettorali: una proporzionale lato sensu dunque, peraltro non basata sulla popolazione, ma sulla proprietà, sul totale delle imposte dirette pagate dai cittadini. È interessante, per capire come il Rosmini intendesse il quoziente, o meglio il “quoto”, per utilizzare la sua terminologia, riportare alcune clausole del suo progetto di costituzione, quelle riguardanti il diritto elettorale e la determinazione dei collegi:

“Art. 45. Le Camere legislative sono due, entrambe elettive.

Art. 46. Dividendosi il totale della popolazione dello Stato per 15 mila si avrà il numero complessivo de’ Deputati: se il numero riuscirà dispari, trascurate le frazioni, lo si accrescerà di uno

Art. 47. L’una e l’altra Camera ha egual numero di membri

Art. 48. La prima Camera viene eletta dai proprietari maggiori; l’altra dai proprietari minori.

Art. 49. I proprietari si considerano maggiori o minori a seconda dell’imposta diretta che pagano allo Stato.

Art. 50. I Deputati sono eletti da collegi elettorali, ciascun de’ quali elegge un Deputato. Art. 51. Divisa la somma totale delle imposte dirette pel numero complessivo de’ Deputati, il quoto è rappresentato da un collegio elettorale.”259

Al di là dei contenuti della proposta, certamente molto poco aperti agli sviluppi della                                                                                                                

società e della rappresentanza che già si intravedevano nel 1848, e del fatto che l’elezione da lui prevista fosse un’elezione di tipo maggioritatio all’interno di collegi uninominali, il Rosmini ebbe il merito di introdurre per primo nel nostro paese la nozione di quoziente, destinata agli sviluppi che sappiamo in tutta Europa. Ora, la parola che, nell’ambito del proporzionalismo, normalmente viene accostata a quoziente è quella di giusta rappresentanza, o meglio di eguale rappresentanza di tutti gli elettori e dunque di rappresentanza delle minoranze. Un tema che in Italia venne affermato con forza tra i primi, contemporaneamente all’opera del Rosmini, da Camillo Cavour, che in un articolo su “Il Risorgimento” proprio sulla legge elettorale scriveva: “Noi non dubitiamo dichiarare che una delle condizioni essenziali, a parer nostro, di un buon sistema elettorale, si è l’assicurare alle minorità nella rappresentanza nazionale un’influenza adeguata alla sua importanza elettorale.” 260 In linea di principio, si trattava di un’affermazione inequivocabile della necessità della rappresentanza proporzionale. Tuttavia, bisogna tener presente che nel 1848, nell’Italia pre-unitaria, se il termine quoziente stava muovendo i suoi primissimi passi, il termine rappresentanza proporzionale era ancora praticamente sconosciuto. Del resto lo Hare era ancora di là da venire e la lettera del Considérant al Gran Consiglio costituente del Cantone di Ginevra assumeva allora più il carattere di una vicenda locale, non tale comunque da assurgere a repentina notorietà. E quindi l’alternativa che si presentava in quel momento al Cavour era tra maggioritario a scrutinio plurinominale all’interno di grandi circoscrizioni, dove il partito che avesse ottenuto la maggioranza avrebbe conseguito l’intera rappresentanza, o maggioritario in collegi uninominali: chiaramente, tra le due opzioni, la seconda, prevedendo un restringimento dei collegi e quindi, l’abbiamo detto, una maggiore possibilità di compensazione tra una costituenza e l’altra, era molto più favorevole alle minoranze rispetto alla prima. Di conseguenza, il Cavour esprimeva una netta preferenza per il maggioritario uninominale anche e soprattutto per le maggiori garanzie che esso dava alle minoranze rispetto allo scrutinio plurinominale di lista.

Il Cavour e il Rosmini, però, pur introducendo concetti gravidi di conseguenze nel dibattito successivo, si ponevano ancora, per quanto riguarda il nostro paese, in un’era di pre- proporzionalismo, quando il tema della rappresentanza delle minoranze veniva affrontato in termini di affermazioni di principio piuttosto che di studio per così dire “scientifico” e di                                                                                                                

260 Camillo Benso Conte di Cavour, Legge Elettorale. 3. Della Circoscrizione Elettorale, “Il Risorgimento”,

48, 1848

proposte sistematiche. Il salto di qualità, da questo punto di vista, fu tutto merito di un professore di Diritto costituzionale presso l’Università di Parma, Giuseppe Saredo, che, nella sua XXII lezione dell’anno accademico 1861-62 (intitolata “Delle elezioni politiche”), non solo sostenne la necessità dell’equa rappresentanza di tutti gli elettori, ma introdusse in Italia, appoggiandolo con forza, il metodo che cinque anni prima Thomas Hare aveva cominciato a diffondere e a rendere famoso: il sistema del quoziente con unicità e trasferibilità del voto. Il Saredo criticava fortemente il sistema maggioritario uninominale a doppio turno in vigore in quel momento in Italia e identificava tutte le riforme proposte fino ad allora più come palliativi che come rimedi, ma, scriveva, “ve n’è una che, a mio avviso, adempie tutte le condizioni volute di razionalità ed efficacia: è quella ideata da un pubblicista inglese, Tommaso Hare, e divulgata da Stuart Mill,”261 una proposta la cui adozione, secondo il costituzionalista, avrebbe avuto la conseguenza di “rinnovare le abitudini civili e politiche dei popoli liberi”262 e che, sola, sarebbe stata in grado di permettere di superare i particolarismi locali e di affermare compiutamente l’unità nazionale appena conseguita, con il deputato che, con l’elezione all’interno di un unico collegio nazionale, sarebbe divenuto davvero un autentico rappresentante dell’intera nazione. “Si parla di unità nazionale. E quale miglior mezzo di effettuarla davvero che questo sistema elettorale? Il cittadino Palermitano dà nel Collegio del suo Comune il suffragio ad un cittadino fiorentino: altri elettori Napoletani, Romani, Parmensi, Genovesi e Torinesi danno il loro voto al medesimo candidato. Non vi pare che questa fratellanza di votanti sia un vincolo quasi sacro fra i cittadini delle varie parti dell nazione? Non vedete come tutti sentirebbero maggiormente la solidarietà che li lega? Non è questo il modo di affermare splendidamente e periodicamente l’unità nazionale?”263 Insomma, quella del

Saredo era un’adesione convinta ed entusiastica, cui però non faceva da contraltare la precisione nella spiegazione del funzionamento del sistema, in realtà abbastanza sommaria e inevitabilmente breve visto il contesto nel quale fu fornita, cioè quello di una lezione universitaria.264 Ma tanto bastò per introdurre nel nostro paese un metodo destinato, più nella pubblicistica, in realtà, che nelle applicazioni pratiche, a conoscere un immenso successo. Da allora, infatti, l’attenzione nei confronti delle questioni elettorali crebbe a dismisura e cominciarono a moltiplicarsi, nei dieci anni che intercorsero tra le lezioni di questo docente dell’Università di Parma e la fondazione in Italia della prima associazione                                                                                                                

261 Giuseppe Saredo, Op. cit., p. 153 262 Ivi, p. 156

263 Ivi, p. 157

proporzionalista, le pubblicazioni sull’argomento, che, oltre naturalmente ad approfondire con grande precisione e dovizia di particolari il funzionamento del sistema (e anche degli altri sistemi di rappresentanza proporzionale fino a quel momento proposti, sebbene il metodo migliore restasse sempre, secondo gli autori di queste opere, quello elaborato dal giurista inglese), portarono alla ribalta dell’attualità il tema della riforma elettorale, tanto che questa fiorente e prolifica pubblicistica si tradusse anche in alcune proposte in tal senso. Il primo mattone, dopo quello posto dal Saredo, di questa complessa costruzione, lo mise Emilio Serra-Groppelli, anch’egli, come lo Hare, dottore in legge, in un’opera del 1866, dal titolo Della Riforma Elettorale, premiata in occasione di un concorso bandito dalla Regia Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli e pubblicata nel 1868. Il vincitore di questo concorso fu un altro illustre proporzionalista, Guido Padelletti, e il saggio che gli assicurò la vittoria, intitolato Teoria della Elezione Politica, apparso nel 1870, conteneva, al capitolo II, una dettagliata dissertazione sul metodo Hare. Tra le date di pubblicazione dei due libri in questione, nel 1869, uscì anche un importante scritto di Luigi Palma, Del Potere Elettorale negli Stati Liberi, anch’esso contenente un capitolo, l’undicesimo, dedicato alla rappresentanza delle minoranze, all’interno del quale faceva la parte del leone la spiegazione del metodo Hare e le risposte alle obiezioni che nei suoi confronti normalmente venivano sollevate. Alla fine del 1870, poi, Carlo Francesco Ferraris presentò alla Regia Università di Torino la sua tesi di dottorato dal titolo La

Rappresentanza delle Minoranze nel Parlamento, all’interno della quale la seconda parte

(cinquanta pagine) era completamente dedicata al progetto eleborato dal giurista inglese. Una pubblicazione poi aggiornata l’anno successivo da un articolo su “Archivio Giuridico” nel quale venivano presi in considerazione anche gli altri metodi di rappresentanza proporzionale e in particolare quello della lista libera eleborato dall’Associazione riformista ginevrina. Rimanendo nell’ambito delle opere sul tema, il 1871 fu l’anno delle due che vanno probabilmente considerate come le più importanti e nelle quali ci siamo imbattuti più volte nell’arco di questo lavoro: Libertà e Democrazia. Studi sulla

Rappresentanza delle Minoranze di Attilio Brunialti, nella quale l’autore arrivava alla

conclusione che soltanto il metodo del quoziente avrebbe potuto garantire la libertà e l’eguaglianza dei suffragi, invocando per l’Italia una riforma elettorale di questo tipo (“Il giorno in cui l'Italia si mettesse sulla nuova via, sarebbe pago il maggiore dei nostri voti, saremmo certi che la democrazia saprebbe conciliarsi colla libertà, e la nave potrebbe

entrare in quei mari, come nelle placide acque del Gange o del Nilo” 265), e Della Libertà

ed Equivalenza dei Suffragi nelle Elezioni ovvero della Proporzionale Rappresentanza delle Maggioranze e Minoranze di Francesco Genala, nella quale questi tirava più o meno

le stesse somme del Brunialti, affermando che “il quoziente è il solo vero sistema che traduce in atto la libertà e uguaglianza dei suffragi. Esso domanda le tre unità di voto, di collegio, di quota, e il pubblicista Hare lo propone in tale sua purezza. […] Bisogna mantenere sempre intatta l’unità del voto; derogare all’unità del collegio quel tanto che è strettamente necessario per rendere applicabile a una data elezione quel sistema; e nel tempo stesso conservare il più che possibile l’unità del quoziente.”266

All’inizio del 1872, fu la volta di Sidney Sonnino, il quale, nel suo Della Rappresentanza

Proporzionale in Italia, non si limitò soltanto a spiegare il funzionamento del metodo

Hare, ma, prendendolo a modello, elaborò una proposta concreta di riforma del sistema di scrutinio per l’elezione dei deputati che, sotto la legge elettorale allora vigente, “altera e rende fittizia la rappresentanza del paese, poiché, prendendo per base le vittorie delle maggioranze relative nei singoli collegi, toglie affatto tutta la rappresentanza ai cittadini che rimasero in minoranza.”267 Il Sonnino avrebbe di conseguenza voluto un sistema che permettesse alle minoranze di essere rappresentate. A suo avviso, non poteva servire allo scopo quello della lista libera, dal momento che avrebbe stabilito la tirannia dei partiti e l’affermazione, al loro interno, degli elementi meno moderati. Più adatto sarebbe stato il sistema Hare, nel quale però il Sonnino trovava dei difetti di non poco conto, come la grandissima complicazione nello scrutinio dei voti, l’eccessivo numero di nomi da segnare sulla scheda richiesto all’elettore, che non avrebbe mai potuto conoscere così tanti candidati di sua fiducia e che avrebbe di conseguenza lasciato che i partiti gli indicassero chi votare, e infine il presupporre che la maggior parte dei candidati sarebbero risultati eletti in base al quoziente e che l’allocazione dei seggi vacanti a maggioranza relativa sarebbe stata solo residuale. A partire da questi difetti, e con lo scopo di cancellarli, il Sonnino ideò un meccanismo di allocazione dei voti modellato su quello dello Hare e che aveva molte somiglianze con quelli progettati dal Baily e dal Fisher: l’elezione sarebbe dovuta avvenire sulla base di più circoscrizioni (che egli chiamava “circondari”), l’elettore, nel giorno delle consultazioni (o meglio nei giorni, perché Sonnino le immaginava                                                                                                                

265 Attilio Brunialti, Libertà e Democrazia. Studi sulla Rappresentanza delle Minorità, cit., p. 476.

Cfr. anche Gaspare Ambrosini, Op. cit., p. 135

266 Francesco Genala, Op. cit., p. 201

267 Sidney Sonnino, Della Rappresentanza Proporzionale in Italia, Firenze, Tipografia di G. Barbera, 1872,

spalmate su tre giorni consecutivi), avrebbe avuto la possiblità di scrivere sulla scheda un massimo di due nomi di suo gradimento. Anche in questo caso, il voto sarebbe stato comunque valido per una sola persona. Concluse le operazioni di voto, si sarebbe dovuto procedere allo spoglio e sarebbe risultato eletto ciascun candidato che avesse riunito un numero di voti pari al quoziente elettorale (determinato dalla divisione dei voti espressi per il numero dei deputati da eleggere all’interno della circoscrizione). Nel momento in cui un candidato avesse raggiunto la quota, sarebbe stato dichiarato eletto e i suoi primi voti trasferiti al secondo nome scritto sulla scheda. Nella quasi certa ipotesi che fossero rimasti dei seggi vacanti, il presidente dell’ufficio elettorale centrale avrebbe dovuto domandare ai candidati che avessero avuto dei voti in più a quali tra quelli che non avessero raggiunto il quoziente avrebbero ceduto il proprio voto. Se neanche questo fosse bastato, sarebbero dovuti essere interpellati i candidati rimasti al di sotto del quoziente, a partire da quelli che avessero ottenuto il numero di voti più basso. Il trasferimento, comunque, sarebbe dovuto essere facoltativo. A questo punto, nel caso ci fossero stati ancora dei seggi vacanti, si sarebbe dovuto provvedere ad assegnarli ai candidati che avessero ottenuto il maggior numero di voti anche al di sotto del quoziente. Questa era la proposta del Sonnino, che si inserì perfettamente nel vivace confronto intellettuale sul tema della riforma elettorale che abbiamo appena richiamato.

Questa pubblicistica fu sostanzialmente la fucina di idee e concetti all’interno della quale si sviluppò l’idea di creare, sul modello di quelle già esistenti e in particolare dell’originale ginevrina, una associazione proporzionalista italiana, della quale avrebbero poi fatto parte quasi tutti gli autori che abbiamo elencato. E proprio il Brunialti e il Genala furono tra i sostenitori più convinti della necessità di costituire un’organizzazione di questo tipo, tanto che il primo, nell’ultimo capitolo del libro che abbiamo appena citato, promosse tale iniziativa, chiamando a raccolta tutti i proporzionalisti italiani e tutti i fautori di una riforma del sistema elettorale maggioritario: “Sorga dunque anche in Italia una Associazione per la rappresentanza proporzionale, la quale, stendendo la mano alla

Association Réformiste di Ginevra, alla Société pour la Réforme électorale di Neuchâtel, al Verein fur Wahlreform di Zurigo, alla Representative Reform Association di Londra, alla Personal Representation Society di New York, ed alla Minority Representation Society di

Chicago, prepari nel nostro paese il terreno, al nuovo, al grande, al fecondo principio.”268 E infatti, a cavallo tra il 1871 ed il 1872, vennero gettate le basi della nascita di quella che                                                                                                                

sarebbe diventata l’Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale. L’idea di partenza, così come per le altre organizzazioni del genere, era quella di un “sodalizio che riesca a coinvolgere interessi non solo puramente scientifici, bensì anche << politici >> sul tema […]”269 Insomma, un’associazione che all’afflato teorico potesse unire anche una significativa ricaduta pratica attraverso l’affiliazione di membri che riuscissero a portare le istanze promosse dall’Associazione all’interno delle istituzioni. Un’idea che cominciò a prendere corpo verso la fine del 1871, dopo che, è lo stesso Genala a dirlo in una lettera al Brunialti, furono vinte le perplessità legate alla scarsa diffusione delle idee proporzionaliste in Italia e di conseguenza alla possibilità di mettere in piedi un’organizzazione che avesse un certo vigore, perplessità non superate in un primo momento neanche in seguito agli inviti di Ernest Naville che, secondo il racconto fatto dal Genala, fin dal 1869 lo aveva spinto alla fondazione di un’associazione.270 Ma il fiorire delle pubblicazioni sul tema e il progressivo penetrare delle istanze di riforma nel corpo della società (almeno in quella ristretta cerchia del 2,2% di cittadini cui era allora garantito il diritto di suffragio) permisero di vincere la ritrosia, seppur con grande cautela e moderazione, caratteristiche che del resto contraddistinguevano quelli che sarebbero stati i fondatori dell’associazione stessa, quasi tutti conservatori, nonché avversari del suffragio universale, visto come la materializzazione del caos politico e sociale, che solo, appunto, la rappresentanza proporzionale avrebbe permesso di temperare. “Si può forse tentare la costituzione di una società. A parer mio il tentativo vuol essere fatto con precauzione, poiché una società non vitale produrrebbe più male che bene e ritarderebbe il sorgere di una società vigorosa.”271 Tra cautele e incertezze, dunque, alla fine la nuova creatura vide

la luce il 16 maggio 1872, quando si tenne la riunione del comitato promotore dell’Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale, del quale facevano parte: Terenzio Mamiani, Attilio Brunialti, Francesco Genala, Guido Padelletti, Giuseppe Saredo, Alessandro Spada, Ruggero Bonghi, Emilio Broglio, Luigi Luzzatti, Angelo Messedaglia, Pasquale Stanislao Mancini, Marco Minghetti e Ubaldino Peruzzi. Fin dal primo numero del suo bollettino, emerse chiaramente il carattere estremamente moderato della società, i cui studi e il cui lavoro sarebbero stati diretti esclusivamente alla riforma del metodo di voto, senza andare a indagare altri aspetti dell’ordinamento elettorale. “La legge elettorale, in ogni paese retto a governo rappresentativo, contiene tre parti principali:                                                                                                                

269 Maria Serena Piretti, La Giustizia dei Numeri. Il Proporzionalismo in Italia (1870-1923), cit., p. 19 270 Estratti della lettera di Francesco Genala ad Attilio Brunialti del 15 ottobre 1871 sono riportati in ivi, pp.

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le condizioni per essere elettore, quelle per essere eleggibile, e infine, la procedura con cui la elezione si compie. Lasciando interamente da banda ciò che riguarda le due prime parti, cioè quanto spetta all’elettorato, e all’eleggibilità, l’Associazione intende restringere le proprie indagini alla procedura elettorale, specialmente in quanto possa condurre alla più sincera rappresentanza di tutti gli elettori, la quale sincerità costituendo il valore morale ed il fine della rappresentanza, è per sé preziosa e utilissima in qualunque sistema elettivo e in qualunque metodo di eleggibilità […]. Per adempiere convenientemente ai suoi fini, il sistema rappresentativo deve raccogliere nel Consiglio degli eletti i rappresentanti delle opinioni, degli interessi, dei bisogni dell’intera comunanza – e nel tempo stesso deve far sì che questi rappresentanti siano le persone meglio atte, per il loro sapere e la loro virtù, a compiere l’ufficio che viene loro affidato […] Allora la rappresentanza ritrae fedelmente lo stato delle cose e degli animi e col porre codesti elementi, diversi come sono, a cooperare necessariamente insieme e nell’interesse comune, li forza a discutere con maturità e a convenire al fine in una deliberazione, la quale sarà certamente conforme al volere della vera maggioranza e sarà molto probabilmente la migliore che quel popolo sappia in quella data circostanza pensare e desiderare.”272 Sincerità e giustizia della rappresentanza, parlamento come immagine riflessa della nazione e diritto di deliberazione affidato a quella che, grazie al nuovo metodo elettorale, sarebbe stata la reale maggioranza del paese. Argomentazioni che richiamavano pienamente l’armamentario ideale classico di quasi tutti i proporzionalisti e che dunque l’Associazione per lo studio della rappresentanza proporzionale non poteva non fare proprie.

Presidente della nuova Associazione, la cui durata fu inizialmente fissata in tre anni dallo