CAPITOLO I. ALLE RADICI DELLA RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE
I.7 Rappresentanza proporzionale e suffragio universale
Un tema decisamente poco indagato e sul quale il rischio di ingannarsi è alto, è quello del rapporto tra rappresentanza proporzionale e suffragio universale. Intuitivamente potremmo pensare a un rapporto molto stretto, almeno se guardiamo al problema con gli occhi di noi osservatori contemporanei: con l’allargamento del diritto elettorale e l’avvento della politica di massa, infatti, saremmo portati a pensare che i nascenti partiti, di massa appunto, puntassero anche sulla proporzionale per superare quella barriera all’entrata costituita dal sistema maggioritario, associato nella gran parte dei casi al collegio uninominale dominato dai vecchi notabili e magari disegnato ad hoc per garantire loro il
successo. In realtà tutto ciò si avverò soprattutto con l’avvento del XX secolo e ancor di più dopo la Grande Guerra. Il periodo che prendiamo in considerazione nel corso di questo lavoro, però, è un altro, individuabile nel secolo precedente e in particolare nella sua seconda metà: un lasso di tempo nel quale l’ingresso delle masse in politica era ancora alla sua fase iniziale (troppo perché si sviluppassero partiti ben strutturati diversi da quelli di notabili) e il rapporto proporzionale-suffragio universale (o allargamento del suffragio) non era poi così stretto come divenne successivamente; al contrario, si trattò di un rapporto estremamente controverso. In primo luogo perché, sebbene presente nelle opere di moltissimi proporzionalisti, il tema del suffragio universale e dell’estensione dei diritti politici non sempre era al centro dei loro pensieri, né si può dire che a esso legassero il percorso della riforma elettorale; in secondo luogo, perché, quando c’era, quel legame non era quasi mai quello che intuitivamente ci si sarebbe aspettati anche guardando agli sviluppi del successivo proporzionalismo. Ma andiamo con ordine.
Quando parliamo di proporzionalismo e suffragio universale, il primo nome che balza alla mente è quello di un uomo che nel corso di questo lavoro già abbiamo ritrovato più volte analizzando altri argomenti, John Stuart Mill. Nelle sue “Considerazioni sul Governo Rappresentativo”, egli dedicò al diritto di voto un capitolo intero, intitolato “Sull’estensione del suffragio”, che era poi quello immediatamente successivo al capitolo nel quale esponeva e proponeva il metodo Hare per la rappresentanza proporzionale delle minoranze. Sul tema, la sua era una posizione relativamente avanzata, soprattutto nell’Inghilterra della seconda metà del diciannovesimo secolo, dove non erano in molti a mettere in discussione il suffragio ristretto. Lui lo faceva: del resto, se la base teorica del sistema proporzionale era la distinzione tra voto deliberativo e voto rappresentativo e se, per far sì che il primo, inevitabilmente da esprimere a maggioranza del corpo deliberante, fosse espresso da una maggioranza che rispecchiasse realmente quella della popolazione, tutti gli elettori dovevano concorrere all’elezione dei propri deputati, senza essere forzatamente esclusi dalla rappresentanza, si sarebbe potuto escludere qualcuno sulla base del censo? Secondo John Stuart Mill, questo non doveva accadere, perché, scriveva, “quando una classe non gode del diritto di voto e non cerca quindi di conquistare consensi, è chiaro che i dibattiti politici non la sfiorano neppure. Una classe esclusa dal voto si trova, nei confronti di chi ha diritti politici, nella stessa posizione del pubblico di una corte di giustizia rispetto alle dodici persone che siedono sul banco della giuria. Questa classe che non vota e che non partecipa alle decisioni resta estranea alle discussioni. Nessuno perciò cerca di influenzarne le opinioni. Ma in un governo popolare chi non ha diritto di voto e
non ha prospettive immediate di ottenerlo si mostra sempre malcontento di tutto oppure non si cura per niente degli interessi generali della società.
[…] Anche a prescindere da tutte queste valutazioni, è una ingiustizia personale (a meno che non avvenga per impedire mali peggiori) negare a qualcuno di far sentire la sua voce nella decisione di problemi che riguardano tutti in pari misura. […] Se una classe o una persona vengono esclusi dal diritto elettorale, nessun sistema di suffragio è da ritenersi sufficiente e valido. I diritti politici devono essere accessibili a tutte le persone che intendono servirsene.”156 Difficile immaginare un’affermazione più netta dell’estensione del diritto elettorale a tutti i cittadini maggiorenni e del suffragio universale. E in linea di principio, infatti, il Mill era favorevole al suffragio universale, cui però non mancò di proporre dei temperamenti. Il primo, le cui radici sono rintracciabili nell’ultima frase della nostra citazione, “i diritti politici devono essere accessibili a tutte le persone che intendono servirsene”, consisteva nell’esclusione di coloro che non sapessero leggere e scrivere, né far di conto: in questo caso, a suo avviso, non sarebbe stata la società a escluderli dal voto, ma la loro pigrizia, poiché se, appunto, avessero inteso servirsi del diritto di voto, avrebbero imparato a leggere e a scrivere e le nozioni basilari dell’aritmetica. Il secondo invece traeva le sue ragioni dal fatto che, annoverando la Camera dei Comuni tra i suoi compiti anche quello di votare la tassazione generale, sarebbe stato difficile consentire di eleggere i suoi membri anche a chi non fosse stato soggetto a imposizione diretta.
Tuttavia, il filosofo ed economista inglese riteneva questi due limiti destinati a essere superati dal progresso della società, perché “nel lungo periodo è lecito attendersi che tutti possano votare, ad eccezione di quel numero di persone destinato a decrescere sempre più costituito da individui che sono a carico del comune. Pur con questa parziale restrizione, il suffragio diverrebbe universale.”157 Pur legando un buon sistema di governo all’esistenza di un suffragio molto esteso, egli vi individuava due pericoli: la scarsa intelligenza politica e il rischio di una legislazione di classe, dal momento che la maggioranza dei votanti sarebbe stata costituita da lavoratori manuali. Per ovviare a questa incognita, il Mill proponeva il voto plurimo a vantaggio di alcune categorie di individui: “La persona dotata di qualità superiori ha diritto a esercitare un’influenza superiore […] Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione devono disporre di un voto più pesante. I soggetti che dispongono di un voto meno influente non dovrebbero sentirsi irritati per questo. L’esclusione dal voto è una cosa. Concedere un voto più pesante ai soggetti più colti e
156 John Stuart Mill, Considerazioni sul Governo Rappresentativo, cit., pp. 129-130 157 Ivi, p. 133
aperti agli interessi comuni, è un’altra. Non si tratta di una differenza di grado, ma qualitativa.”158
Suffragio universale (da concedere, secondo il Mill, anche alle donne) da un lato e voto plurimo, da utilizzare in combinazione con il metodo Hare per l’elezione dei deputati dall’altro. Possiamo dunque notare che il Mill certamente seguiva in un certo senso il solco delle teorie democratiche, ma allo stesso tempo se ne discostava non poco, proponendo in sostanza la rottura dell’eguaglianza tra gli elettori. Inoltre, nella sua visione, il suffragio universale e l’elezione proporzionale avevano sì qualche relazione tra loro, ma di segno opposto rispetto a quella che, come abbiamo visto, sarebbero stati destinati ad avere nel XX secolo. Il suffragio universale avrebbe aperto le porte dell’agone politico anche alle “classi prive di cultura”159 e quindi sarebbe stato necessario trovare il modo di controbilanciare il peso di queste classi, un modo individuato dal Mill nel sistema proporzionale, che avrebbe permesso alle élites di non essere spazzate via dalla rappresentanza come sarebbe potuto accadere con il maggioritario, ma anche nel voto plurimo. Insomma, una riflessione, quella del Mill, che, se da un lato apriva alla più grande estensione possibile della base rappresentabile, dall’altra puntava in qualche modo a governare quello stesso allargamento.
Era in realtà una logica simile a quella che stava dietro ai ragionamenti di quasi tutti i proporzionalisti italiani della seconda metà del diciannovesimo secolo. La maggior parte di coloro che fondarono l’Associazione per lo Studio della Rappresentanza Proporzionale era infatti composta da moderati, quando non proprio da conservatori, che avevano una visione chiusa della società. La differenza rispetto al pensiero del Mill, che invece era tutt’altro che un conservatore, stava nel fatto che, ed era una differenza sostanziale, costoro erano degli strenui avversari del suffragio universale, che vedevano come un vero e proprio pericolo. Tuttavia, essendo uomini di ingegno, alcuni di loro percepivano che il movimento verso l’allargamento delle basi della società era inesorabile e inarrestabile e che quindi prima o poi al suffragio universale ci si sarebbe arrivati. Occorreva allora farsi trovare pronti, evitare di essere travolti dall’onda della politica di massa e quindi escogitare il modo di assorbire l’urto del suffragio universale. Come? Ecco che in questo caso le risposte dei proporzionalisti italiani convergevano con quelle di John Stuart Mill, perché il modo più efficace per temperare il suffragio universale veniva individuato proprio nella rappresentanza proporzionale, che veniva appoggiata quindi “non in assoluto, bensì come
158Ivi, pp. 134-135 159 Ivi, p. 138
l’antidoto atto a contrastare il suffragio universale.”160 Non v’era grossa traccia invece del voto plurimo, se non nel momento in cui veniva sottoposto a forti critiche, il cui obiettivo, il cui bersaglio, rimaneva comunque il suffragio universale, dal momento che l’introduzione di voti di peso diverso avrebbe avuto il significato di ammettere l’inadeguatezza del suffragio universale sostenuto invece da John Stuart Mill. Il caso più esemplare di questo tipo di critica ce lo fornì Guido Padelletti, che, proprio a proposito delle teorizzazioni del grande filosofo inglese, diceva: “Ma non si parli più degli inconvenienti del suffragio universale, tutti debbono sparire per incanto non appena esso cessi di essere uguale o diretto per divenire plurale o a gradi. […] Non è necessario un grande acume di mente per scorgere come, non appena si ammetta quella proposizione [quella del voto plurimo, NdA] non siamo più nel campo della sovranità popolare o del suffragio universale, ma sopra quello del sistema rappresentativo e della teoria cosiddetta della capacità. L’idea che l’uomo, solo perché uomo, ha diritto al suffragio è assolutamente abbandonata. Si confessa che la superiorità intellettuale e morale debba avere una preponderanza in una delle più importanti funzioni della vita politica. […] Ma chi non vede esser questo appunto il principio delle presunzioni legali, sul quale sono ordinati per la massima parte i sistemi del suffragio ristretto, e specialmente il nostro?”161 Tanto valeva allora, questa l’obiezione, ma anche l’auspicio, del Padelletti, tenersi il suffragio censitario. Una critica diversa al voto plurimo era invece arrivata a John Stuart Mill qualche anno prima, nel 1862, dal primo proporzionalista italiano, Giuseppe Saredo, il quale, al contrario di molti suoi successori, interpretando il diritto elettorale come un diritto naturale e universale e non come una funzione (diversamente in questo caso dal Mill stesso), era favorevole alla massima estensione del suffragio, con l’esclusione dei soli analfabeti. La sua critica al voto plurale arrivava dunque da una direzione opposta rispetto a quella che abbiamo appena visto, che invece tendeva ad accomunare il principio del diverso esercizio del diritto di voto a quello che ordinava i regimi elettorali a suffragio ristretto: “A mio avviso, un simile privilegio è contrario ai dettami della giustizia. Un uomo onesto ne vale un altro: un cittadino non può avere maggiori diritti naturali di un altro. Nelle quistioni di interesse pubblico un uomo di retto senso può votare con coscienza e giudizio al pari del primo fra gli uomini di genio. Senzachè, un simile privilegio creerebbe un’aristocrazia che
160 Maria Serena Piretti, La Giustizia dei Numeri. Il Proporzionalismo in Italia (1870-1923), cit., p. 40 161 Guido Padelletti, Il Suffragio Universale, “Nuova Antologia”, 14, 1870, pp. 65-66
presto o tardi si muterebbe in oligarchia: e bisogna evitare a qualunque costo un simile risultato.”162
Ma torniamo alla questione fondamentale del rapporto tra suffragio universale ed elezione proporzionale, rimanendo per il momento nell’ambito dei proporzionalisti italiani. Dicevamo della loro forte avversione nei confronti del suffragio universale, che emergeva chiarissima dalle pagine delle loro opere. Sempre il Padelletti scriveva che “il suffragio universale, non si tema di proclamarlo, è stato, è e sarà, per quanto ci è dato prevedere, il peggior sistema di creazione della rappresentanza politica di un popolo ed i liberali, se vogliono rimaner coerenti a sé medesimi debbono respingerlo senza ambagi, senza mezzi termini, senza esitazioni”163. E ancora: “Quando sia provato che non tutti i cittadini hanno le condizioni necessarie a fare una buona elezione, che dal suffragio universale escono parlamenti disadatti al loro ufficio, il suffragio universale non avrà ragione di esistere. Queste idee così chiare che hanno una splendida conferma nella storia furono offuscate da una falsa scienza. Il suffragio universale, piuttosto che un allargamento delle libertà e delle franchigie costituzionali, fu un illogico tentativo di compromesso fra i due concetti incompatibili del governo rappresentativo e della sovranità popolare. L’assoluta antinomia, che esiste fra le due specie di governi, fra i due sistemi politici, si riproduce nelle due rappresentanze, nei due sistemi elettorali.”164
A specificare gli effetti perversi che, secondo questi autori, il suffragio universale avrebbe portato al sistema politico, in pratica gli effetti perversi derivanti dalla fusione di due principi a loro avviso antinomici, come abbiamo visto, ovvero la sovranità popolare di derivazione rousseauviana e il governo rappresentativo, fu Emilio Serra Groppelli: “Traslocamento della tirannide e dispotismo del numero, ossia della forza bruta; sommovimento perpetuo delle passioni più volgari; rivoluzione permanente; invidia ed ostracismo, ec. ec. Simili taccie sono autorizzate e giustificate dai due vizii intrinseci, antisociali, del suffragio universale; il primo sta in ciò che il suffragio universale non è che una novella applicazione dell’assurdo principio di genitura al governo della cosa pubblica. […] Il secondo vizio sta in ciò che il suffragio universale ha il comunismo in seno; esso equivale, dice giustamente il Rosmini, nelle sue conseguenze al pareggiamento di tutte le proprietà, è la legge agraria che ai nostri tempi finisce nel comunismo.”165
162 Giuseppe Saredo, Principii di Diritto Costituzionale, Vol. II, Parma, Tipografia Cavour, 1862, pp. 150-
151
163 Guido Padelletti, Il Suffragio Universale, cit., p 61
164 Idem, Teoria della Elezione Politica, Napoli, Stamperia della Regia Università, 1870, pp. 146-147 165 Emilio Serra Groppelli, Della Riforma Elettorale, Firenze, Cotta e Compagnia, 1868, p. 31
Al di là di queste affermazioni estreme, colui che più di tutti, tra i sostenitori del proporzionalismo italiano, si occupò del rapporto tra suffragio universale e rappresentanza proporzionale fu Attilio Brunialti, anch’egli da un punto di vista conservatore: “Intesa la sovranità popolare non alla foggia di Rousseau, ma come la eguale partecipazione di tutti alla pubblica cosa, nel miglior modo che lo sviluppo economico, intellettuale e morale della società, assieme a tutte le altre circostanze, concedano, ne discende che quella stretta cognazione che altri vedono fra essa e il suffragio universale ci appare fittizia o almeno lontana assai. Il popolo può essere sovrano indipendentemente dal diritto di suffragio: questo diritto è un buon mezzo per esercitare la sua sovranità, ma non è sempre il migliore.”166 Nonostante l’avversione per il suffragio universale il Brunialti era tra coloro che lo ritenevano un approdo inevitabile, con tutti i suoi pericoli, ovvero quello della prevalenza del numero sull’intelligenza, con il rischio che quella prevalenza si potesse tramutare in dispotismo, in quella che già Alexis de Tocqueville aveva chiamato tirannia della maggioranza. Un dispotismo, una tirannia che i sistemi maggioritari non avrebbero fatto altro che accentuare, consentendo, collegio per collegio, alle classi meno agiate, più numerose, di dominare sulle élites che fino all’allargamento del suffragio avevano il monopolio della rappresentanza, privandole quindi di ogni influenza politica. Ecco perché erano necessari, a suo avviso, dei temperamenti, il più importante dei quali consisteva proprio nel sistema elettorale proporzionale. Insomma, erano necessarie “istituzioni le quali impediscano alla prevalenza numerica il farsi tiranna, le quali concedano a tutte le minorità il posto, che è loro dovuto, e la influenza sulla formazione delle leggi e su ogni pubblica cosa. Per siffatta guisa soltanto la democrazia si farà temperata, il governo sarà veramente rappresentativo.
La comune utilità, o meglio la necessità, richiede adunque ciò che vedemmo essere conforme a giustizia. Ed ecco, che giustizia ed utilità concordemente domandano la rappresentanza proporzionale delle minorità, come istituzione necessaria e degna di ogni popolo libero, come il più efficace dei rimedi contro il nuovo dispotismo che ne minaccia, come il miglior correttivo a tutti i mali, onde è per sé fecondo il suffragio universale.”167 Una scuola di pensiero, questa, inaugurata l’anno prima della pubblicazione del Brunialti, nel 1870, dal Ferraris che, dopo aver parlato, citando anch’egli l’autore della “Démocratie
en Amérique”, di inesorabile istinto della maggioranza verso la mediocrità e aver
constatato, come il Brunialti, l’inevitabilità del suffragio universale, si chiedeva quali
166 Attilio Brunialti, Libertà e Democrazia. Studi sulla Rappresentanza delle Minorità, cit., p. 60 167 Ivi, p. 107
potessero essere i rimedi per temperare l’uno e l’altro e rispondeva: “Posta l’estensione del suffragio, si presentano due ipotesi:
1° O alle minorità è concessa la sola franchigia elettorale e non la rappresentativa, cioè il diritto di voto e non la certezza della rappresentanza;
2° O alla minorità si concede il suffragio e la rappresentanza.
Nella prima ipotesi invece di rimediare al male lo si aggrava. […] Nella seconda ipotesi la cosa cambia onninamente di aspetto: le minorità apporterebbero un contingente di forza, di vigore di intelligenza, da costringere le maggioranze a far lo stesso.
[…] Quindi parmi che fra il negare alle minoranze ogni franchigia rappresentativa, e fra il dire come fa il Cox, che data la teoria di Lord Cairns, si dovrebbe conchiudere all’elezione della Camera per sola parte delle minoranze, avvi una giusta via di mezzo e questa è: permettere alle minoranze di manifestare mediante la rappresentanza i sentimenti, le tendenze loro e di apportare il contingente sovente prezioso dei loro lumi e della loro esperienza. Stabilirassi così fra la rappresentanza e la nazione un rapporto ammirabile di educazione. Se nobili concetti si manifestano nelle assemblee, se gli uomini che le compongono rivelano colle loro parole alti sentimenti, forza di carattere, larghezza di vedute, la nazione ne sarà elevata moralmente anche essa; le parole dei rappresentanti troveranno un’eco nel cuore dei cittadini e saranno per essi una scuola permanente di amore di patria, di pensiero al bene comune.”168
Questa era la tendenza generale del proporzionalismo italiano: considerare la rappresentanza proporzionale come un temperamento agli effetti, secondo questi intellettuali negativi, dell’inevitabile suffragio universale.
Tuttavia vi era chi non si uniformava completamente a questa tendenza. Tra loro Luigi Palma che, pur rifiutando il suffragio universale “al modo francese,”169 come egli lo chiamava riferendosi al diritto al suffragio derivante dalla dottrina del diritto naturale e della sovranità popolare, riteneva desiderabile che le rappresentanze nazionali, municipali e provinciali fossero elette da tutti i cittadini che dimostrassero una certa intelligenza e una certa coscienza nell’utilizzo di questo diritto: limitazioni che sarebbero dovute variare a seconda delle “peculiari condizioni economiche, intellettive, morali e sociali di ogni popolo.”170 Questa sarebbe dovuta essere a suo avviso la miglior garanzia e il miglior
temperamento del voto popolare. La proporzionale doveva dunque essere considerata come
168 Carlo Francesco Ferraris, Op. cit., pp. 29-32
169 Luigi Palma, Del Potere Elettorale negli Stati Liberi, Milano, Treves, 1869, p. 204 170 Ibidem
un bene, come un fine da raggiungere, indipendentemente dal comunque poco auspicabile, almeno a suo avviso, suffragio universale. Ad affermarlo con forza, criticando esplicitamente le tesi del Brunialti, fu ancora Guido Padelletti, il quale sosteneva che interpretare la proporzionale solo come un semplice antidoto agli effetti del suffragio universale avrebbe significato sminuirne l’importanza che invece andava ribadita con convinzione. “Il suo vero valore consiste, come spiega lucidamente il Genala nel suo primo capitolo, nel ristabilire la vera equivalenza dei suffragii in qualunque elezione, dalla elezione fatta nel seno di una società privata a quella della Camera elettiva; nel ritrovare il vero, il giusto computo dei suffragii, che negli ordinamenti elettorali presenti è