3. GLI ESPERIMENTI “K”
3.3 Il secondo Esperimento “K”
3.3.12 Il finale
L’atto finale di quest’opera grottesca è una lunga scena giocata attorno a una tavola imbandita, eco della cena a casa di Cherea del Caligola originale. Questa festa, con torta, cappellini, brindisi e regali per “K”, è in realtà una mesta commemorazione per dire addio a Caligola e che segna la fine dell’esperimento. Di lato c’è la carrozzina in cui dorme il neonato. Molti dei partecipanti, fra cui il Professore, non si sforzano di nascondere la tristezza per la partenza dell’amatissimo “K”. I dialoghi e i saluti si susseguono all’insegna della nostalgia, che vorrebbe fare qualunque cosa pur di rimandare una partenza inevitabile. È a questo punto che fa il suo drammatico ingresso l’Attore. Ormai pienamente convinto di essere Caligola è intenzionato a sostituirsi a lui per il viaggio di ritorno e nel parapiglia che segue al suo tentativo di rovinare la festa di “K” è proprio l’Attore ad uccidere quest’ultimo ferendolo con un colpo sparato dalla rivoltella della Psicologa. Il colmo è che il delitto passa inizialmente inosservato, essendo tutti i personaggi impegnati in una strana orgia consumata sulla tavola imbandita, fra bicchieri e sedie rovesciate. È in questa pausa in cui il tempo rallenta e la luce si fa concentrata sulla carrozzella di suo figlio, che “K” si allontana dalla bolgia dei suoi educatori e allattando il bambino recita un monologo struggente (scritto da Alessandro Cecchinelli) in cui è lui, per la prima volta, a dispensare consigli alla creatura che tiene fra le braccia, e che nutre adesso: «con il suo latte e con il suo sangue.»
K. Tu, mio verbo al futuro, mio domani, piccolo frutto spiccato dai rami molli dei miei visceri, uovo di pelle, barattolino covato in un tempo di sangue, qui al buio. Chi ti aprirà per vedere quello che c’è dentro? non hai ancora nome. Sarò io a chiamarti per la prima volta? Quali sillabe sceglierò, dure di denti che tremano sulle gengive morbide, come le labbra di lei, dolci come le colline quando il sole cala e l’ora cresce? Non so darti un nome, piccolino mio, figlio mio bello, mellite puer, pupum… Ti chiamerà qualcun altro… Ocelle mi, ti chiameranno loro, se lo concederai. Se no, no. Ascolta tua madre. È tuo padre che te lo chiede. Sceglilo da solo un nome, bello e grande come una maschera, da respirarci dentro, fragoroso come un coro, da trionfo, un nome da animale, quegli animali cattivi, che ti spaccano a zoccoli il cranio … un nome tutto avvelenato, bello da dire, dal suono che intossica, che lega la lingua e ti spaventa. Niente calighe per te, vai nudis pedibus, caprini, digitopalmati o ungulati, pinne aut cauda reptilis, quello che vuoi… e ti calzeranno solo quando lo dirai tu e per calzarti
dovranno inchinarsi, all’ombra delle sillabe capitali e immense come le mura che tu sei / sarai diventato.
Con amore lo ripone nella carrozzina e cade morto. Gli altri se ne accorgono, si destano dall’orgia e gli si fanno intorno.
Ora tutto precipita. Non avendo nessuno da rimandare indietro, il Professore prende la decisione di attuare il piano B, mandando l’Attore al posto di “K” perché prenda definitivamente il suo posto come egli crede di meritare. Ma l’Attore è la replica del Caligola letterario, quello contraffatto di Svetonio, il mostro di Camus. Quando il Cronoutero si mette in funzione facendo esclamare all’Attore le fatali parole: «Alla storia, Caligola! Alla Storia!», quella storia che tutti si erano, in modo giusto o sbagliato, impegnati a cambiare, a questo punto viene sconvolta. Una nuova telefonata del Capo della Federazione ci avverte della catastrofe che nel mondo fuori dal bunker si sta scatenando. È l’apocalisse, il mondo così come era all’inizio, sospeso sull’orlo del precipizio, ha proseguito la sua caduta finendone annientato come era stato condannato a finire grazie a uomini-mostro come Caligola.
In questo disperante finale in cui il destino della storia appare inevitabile e condannato a ripetersi, il Professore chiude la comunicazione con un mondo che non esiste più, che ha ormai soltanto i presenti rinchiusi in quel bunker come ultimi abitanti. La speranza dell’umanità ormai è concentrata in quel bambino di cui tutti si sentono improvvisamente padri e madri. Gli si fanno intorno. Lo guardano e scoprono che sta crescendo a vista d’occhio, sopra il labbro ha già i baffi, come Hitler, come Stalin, ha già messo i denti e ha morso un dito al Dottore 2. Questo morso del bambino così precoce fa dire al Professore, insensibile a qualunque insegnamento che questa storia gli avrebbe dovuto dare: «noi gli insegneremo che non si fa.»
Cala il buio.
3.4. Un esperimento riuscito?
L’esperimento “K” debutta il 14 Novembre 2014, al teatro PimOff di Milano.
Non staremo qui a considerare l’accoglienza che il pubblico milanese, e successivamente quello spezzino, riserverà allo spettacolo. Il giudizio esterno,
quello del pubblico e della critica, non era così negativo da determinare, anche in questo caso, l’abbandono del progetto. Citiamo qui ad esempio il commento che Renzo Francabandera scrisse sul magazine culturale Paneacqua. La critica se non fu certamente positiva nel dire che L’esperimento nella sua «prima genesi soffriva del troppo in cui era affogata183» puntava soprattutto il dito sull’abitudine
delle Compagnie a giustificare spettacoli dei quali non sono ancora sufficientemente convinte, presentandoli sotto la forma di “studio”. Categoria nella quale si iscrive anche L’esperimento “K”.
Lo studio è quella atroce abitudine in voga nei teatri di ospitare e presentare in forma aperta al pubblico fasi di gestazione di una creazione scenica, allo scopo di testarne un po’ la solidità nel rapporto fra spettatori e chi è in scena. Per anni i festival ne sono stati pieni. Poi l’opera definitiva non arrivava mai. Terzo, quarto, quinto studio su questo o quello…184
Corrado Rovida esprime invece il dislivello fra le tematiche esposte pienamente nello spettacolo e quelle appena abbozzate:
Melting pot ‘fumettoso’ (…) in cui la riflessione sul potere è
innanzitutto metodologica: sta nella parodia, nell’uso del carnevalesco, nell’abbassamento programmatico delle estetiche ufficiali. Ciò nonostante, se l’ipertrofia di linguaggi funziona e diverte, è nello sviluppo dei contenuti che, come nel più classico dei B-movie, il vitalismo espressivo non trova un’adeguata corrispondenza. L’idea portante dello spettacolo – che vede gli esponenti del ‘progetto K’ (i rappresentanti dei vari poteri sociali, scientifici e religiosi) soccombere nel confronto col tiranno – si risolve in uno scambio a tratti prevedibile, ricco di didascalie, dove l’impossibilità di imprigionare il potere (Kaligola viene rinchiuso in una bolla, in una cassa, in una gabbia) si fa leitmotiv ripetitivo. Gli Scarti, in parte, sono chiarissimi: lavarsi le mani dall’autorità, delegarla a chi riesce a gestirla con spregiudicatezza, è un atto liberatorio, quasi catartico, ma dalle conseguenze nefaste. Tutti gli altri filoni di riflessione del loro spettacolo risultano invece solo abbozzati: pennellate disordinate di un ragionare manierista, non riescono a infondere alla complessità della materia un’organicità compiuta, ma la riducono a un chiassoso, per quanto espressivo, diorama sul potere.185
183 R. Francabandera, L’ultimo Kaligola: il felice ripensamento di Enrico Casale de Gli Scarti,
https://paneacquaculture.net/2015/07/28/lultimo-kaligola-il-felice-ripensamento-di-enrico-casale- de-gli-scarti/, 28 luglio 2015.
184 Ibid.
Se di fallimento si può parlare esso però va ascritto alle considerazioni di regista e produttori, probabilmente non sufficientemente convinti dal risultato spettacolare. Se il difetto del lavoro sul programma televisivo era la difficoltà di mettere in scena un medium come la televisione con il linguaggio del teatro, lo scarso respiro del tempo che la diretta televisiva offriva alla narrazione e all’evoluzione dei personaggi, la presentazione ellittica di un personaggio non spiegato, in questo nuovo esperimento ci troviamo paradossalmente di fronte a imperfezioni opposte. Qui tutto risulta troppo spiegato. Le macchine, le teorie del viaggio nel tempo, gli obiettivi della cura, le implicazioni scientifiche e quelle che obbligano continuamente a gettare un occhio (o un orecchio) alle telefonate con l’esterno dove si ipotizza un mondo sull’orlo del collasso, formano un grande intreccio di tematiche e complicazioni che a lungo andare appesantiscono la trama e bloccano lo sviluppo della narrazione costretta a fermarsi più volte per chiarire, sintetizzare, ribadire concetti collaterali alla storia.
In definitiva lo spettacolo risulta di difficile comprensione, non per la complessità degli argomenti ma per la molteplicità delle tesi che un linguaggio tutto sommato semplice come quello del teatro non riesce a soddisfare pienamente. Se la storia fosse stata raccontata in un romanzo, oppure in un racconto breve come Gianni, gli approfondimenti sarebbero stati recepiti tranquillamente dal lettore. Ma il pubblico del teatro è spettatore, è distratto, può perdere una parola, un gesto che sono qui di vitale importanza. Il linguaggio diretto del teatro si impantana inevitabilmente in voli pindarici e acrobazie didattiche rivolte al pubblico, da giustificare tramite lezioni offerte dai dottori agli esperti, dagli esperti a “K”, da “K” all’Attore e così via. Finché l’azione scenica si ferma, girando attorno a un problema per volta, avviluppandosi nella rete della trama ormai diventata come una immensa ragnatela di cui non si trova più il bandolo, in cui il ragno Caligola, o il ragno Camus, attende in agguato di saltare addosso allo spettacolo per presentargli il conto.
Pur considerando l’amarezza che accompagna l’abbandono di ogni produzione è quantomeno doveroso però tenere presente che questa, nella storia delle produzioni del Caligola degli Scarti, è comunque la prima a varcare i confini del “mondo delle idee” della drammaturgia, delle prove, delle improvvisazioni, per debuttare su un palcoscenico vero e raggiungere il tanto agognato confronto con il pubblico. Del resto è proprio in questa situazione che si comincia a ripetere la
frase che sta all’origine di questa tesi: “le prove non finiscono la sera della prima”. Potrebbe sembrare semplicemente un mettere le mani avanti per giustificare uno spettacolo che non funziona, nascondendosi dietro l’alibi di non essere ancora pronti. Ma non è così perché in effetti il lavoro non si ferma, si va avanti, si cambia metodo, testo, cast, ma si continua. Anche al prezzo di non concludere mai, scontrandosi con le difficoltà e gli intoppi più disparati, la resa non è un’opzione considerabile.
fig. 15 L'esperimento "K" (foto di Andrea Luporini)
3.5. Il terzo Esperimento “K”
Verso la fine dell’inverno del 2015 Enrico Casale espresse la volontà di rimettersi a lavorare al progetto per una terza versione. Con la consegna, però di non buttare via tutto il lavoro fatto per il precedente.
Si trattava di passare in rassegna il materiale a disposizione che comprendeva naturalmente il vecchio copione e l’elenco del cast, che occorreva sfoltire. Simone Ricciardi, Alessandro Cecchinelli, Paola Tintinelli e Crisitina Castigliola sono confermati anche per la nuova versione, tutti gli altri ne verranno esclusi. Sarebbe sbagliato considerare questa decisione come frutto di un semplice calcolo
aritmetico. Come accennato nel paragrafo precedente, l’urgenza di venire a capo di un progetto sul quale si era speso tanto e per tanti anni come quello di Caligola, ci aveva messo di fronte già diverse volte all’esigenza di modificare il tiro, fare tabula rasa, e ricominciare. E se il processo si faceva doloroso per la perdita di mesi di studio, di scrittura e di prove, ancor più costava al regista dover dire “no” a chi aveva condiviso con noi tutto quel tempo. Purtroppo lo sforzo creativo è fatto anche di molti no, e sono tutti sofferti.
3.5.1. La pista di decollo
Il 20 febbraio del 2015 io e Casale cominciammo a lavorare al nuovo testo. Dopo aver preso atto di ciò che rimaneva dello spettacolo precedente, scoprimmo che l’intera operazione di recupero assomigliava tragicamente a un riciclaggio. Nel lavoro di pulitura, e riadattamento della drammaturgia ci sentivamo un po’ come quei meccanici dei film sulla seconda guerra mondiale che per consentire agli aerei di volare più a lungo scaraventano fuori dalla carlinga tutto ciò che non serve, così noi lanciavamo fuori dal copione tutte le tematiche collaterali che appesantivano l’azione scenica, sfrondavamo gli argomenti nel disperato tentativo di far decollare un testo che adesso doveva funzionare con un equipaggio di soli quattro membri. Era chiaro che così facendo non saremmo andati da nessuna parte. Così ci convincemmo che forse l’idea migliore era di ricostruire di sana pianta lo spettacolo mantenendone soltanto la struttura.
Questo ci metteva sicuramente di fronte a una mole di lavoro più grande ma, al tempo stesso, ci consentiva di ridefinire la direzione dei nostri obiettivi verso gli spazi che maggiormente ci interessavano. Ci permetteva, cioè, di riprendere in mano il progetto con quella libertà che, nell’obbligo della co-produzione con il PimOff di Milano, Enrico Casale sentiva di non avere avuto in precedenza. Adesso avremmo potuto inserire l’argomento che ci pareva, dicendolo nel modo che più ci piaceva.
Ora bisogna considerare che nessuno di noi voleva abbandonare l’ambientazione del laboratorio scientifico poiché la consideravamo un buon pretesto per parlare di qualsiasi cosa. La prima cosa che ci serviva per fare un po’ di chiarezza, senza infilarci nuovamente nel pantano delle spiegazioni, era una situazione, un contesto
che si legasse all’ambiente scientifico giustificandolo automaticamente. La trovammo nei film anni ’40-50 di fantascienza e nei film horror e thriller degli anni ’30. Questi film erano già stati in parte citati ne L’esperimento “K” attraverso l’uso di un trucco pesante e di certi costumi, come per esempio i camici dei dottori e le mascherine con gli occhialoni da saldatore utilizzati durante le prime fasi dell’accensione del Cronoutero. Ma anche questi dettagli erano destinati a perdesi in una scenografia così ricca, colorata e luminosa all’interno della quale ogni riferimento sembrava partecipare allo sfavillio di un grande circo o di un luna-park. Si trattava adesso di renderli semplicemente più evidenti. Riportare la scena al bianco e nero, con una illuminazione a contrasto, espressionista, che evocasse più chiaramente quel genere al quale intendevamo ispirarci. In questa maniera avremmo ancorato saldamente il nostro laboratorio a quello del cinema hollywoodiano, sfruttando in forma di sintesi lo stereotipo dei gabinetti medici del dopoguerra, popolati da serpentine, colonne di liquidi gelatinosi, bobine di Tesla, e scienziati pazzi. A livello visivo, insomma, sarebbe bastata la scenografia a chiarire il genere dello spettacolo e a giustificare di conseguenza qualunque prodigio scientifico messo in atto, come ad esempio il ritorno di un imperatore dal passato, senza per questo dover spiegare alcunché. Il laboratorio scientifico era dunque il contesto nel quale sviluppare il nostro solito discorso sul potere che traeva le sue fonti principali dal solito posto in cui erano state individuate da L’esperimento “K”. Questa volta, però la direzione della cura sarebbe stata prettamente psicologica. Per fare questo ci basammo su testi scientifici come Gioco e realtà186 e il capitolo La capacità di essere solo187
entrambi di Donald W. Winnicott, Il cuore vigile188 di Bruno Bettelheim, e, tra gli
studi più recenti, Sofferenza Psichica e Pedagogia189 di Maria Antonella Galanti.
L’aspetto della cura psicologica ci forniva il non trascurabile vantaggio di sostituire le ragioni di gran parte della follia trasmessa da Caligola agli altri personaggi, facendo leva su un altro elemento di facile comprensione, ovvero la gelosia. È la gelosia che va a sostituirsi qui allo squilibrio, alla sete di potere, alla
186 D. W. Winnicott, Gioco e Realtà, Roma, Armando editore, 1974.
187 D. W. Winnicott, La capacità di essere solo in Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando
editore, 1970.
188 B. Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Milano, Adelphi,
1988.
189 M. A. Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine, Roma, Carrocci editore, 2007.
perversione, che affollavano lo spettacolo precedente. La gelosia, integrando la passione, costituisce il vero mostro che vanifica tutti gli sforzi dei protagonisti. Un altro fattore che avrebbe rimandato al cinema anni ’30-50, oltre al bianco e nero, il trucco, i costumi e la scenografia, lo trovammo nel linguaggio.
Personalmente ricordo di aver riguardato nel giro di pochissimi giorni (il tempo, neanche a dirlo, era pochissimo) un gran numero di film da cui prendere spunto per caratterizzare i personaggi e farli parlare in maniera da renderli credibili in tal senso. Fra questi una grande ispirazione la trovammo ne L’uomo lupo190 di
George Waggner, in “M” il mostro di Düsseldorf191 di Fritz Lang e, ovviamente,
in Frankenstein192 di James Whale. Un ultimo film stranamente ci condizionò
moltissimo per strutturare la nostra drammaturgia. Malgrado non appartenga neanche lontanamente al genere sci-fi e sia addirittura posteriore al periodo che avevamo in mente, I lunghi giorni delle aquile193 di Guy Hamilton con le sue
battute scanzonate e il linguaggio ricercato dei piloti della R.A.F., ci fornì un valido modello su cui costruire la sintassi di molti dei nostri dialoghi, creando un singolare cortocircuito con quella condizione che ci faceva sentire come meccanici impegnati a rattoppare un aereo che stenta al decollo.
3.5.2. «Buonasera»
Il nuovo testo del nuovo Esperimento “K” si apre con un monologo recitato da una figura inedita per i nostri spettacoli: quella del “narratore”.
PRESENTATORE. Buonasera. I signori produttori ritengono che non sia opportuno presentare questo spettacolo senza due parole di avvertimento: stiamo per raccontarvi la storia degli eminenti scienziati che cercarono di sanare il passato per cambiare il presente e forse, salvare il mondo da sicura catastrofe. E’ una delle storie più strane che siano mai state narrate: tratta dei due grandi misteri dell’uomo: anima nobile o mostro? Penso che vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate 190 The Wolf Man, regia di George Waggner, sceneggiatura di Curt Siodmak, U.S.A., Universal
Studios, 1941.
191 M – Eine Stadt sucht einen Mörde, regia di Fritz Lang, sceneggiatura di Thea von Harbou e
Fritz Lang, Germania, Nero-Film AG, 1931.
192 Frankenstein, regia di James Whale, sceneggiatura di Francis Edward Faragoh, Garrett Fort,
Robert Florey e John Russell, U.S.A., Universal Studios, 1931.
193 Battle of Britain, regia di Guy Hamilton, sceneggiatura di Wilfred Gratorex e James Kennaway,
che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi…beh, vi ho avvertito.
Si tratta del monologo, leggermente modificato per l’occasione, dell’inizio del
Frankenstein di James Whale dove un uomo in frak parla direttamente al pubblico
del cinema. Qui però colui che parla è un narratore interno alla vicenda, nella quale assumerà fin da subito un ruolo centrale. Colui che per ora è chiamato semplicemente “Presentatore” altri non è che l’Assistente del Professore. Un’altra novità: per la prima volta ci troviamo di fronte a un personaggio-guida che, parlando da un tempo evidentemente posteriore ai fatti narrati (come Joe Gillis in
Viale del Tramonto194) si pone a un livello superiore rispetto agli altri. Allo scarto
temporale fra la voce narrante, che sarà sempre registrata, e la presenza scenica dello stesso personaggio che vediamo all’epoca dei fatti, si associa contemporaneamente una specie di slittamento del punto di vista che passa dalla forma corale dei precedenti Esperimenti, in cui seguivamo lo svolgimento passando da un personaggio all’altro, a una narrazione pilotata dai giudizi dell’Assistente. Beninteso, il protagonista è ancora Caligola, ma va comunque registrato che questa figura anacronistica, tipica del romanzo e della cinematografia classica, con la capacità di chiarire i passaggi più difficili e di colmare eventuali salti del tempo della storia, prosegue l’evoluzione che il personaggio dell’Assistente ha subito da quando era solo un “servo muto” del programma televisivo, passando per il Dottore 1 de L’esperimento “K”, fino a diventare qui il cardine della narrazione.
Proprio come in un film in bianco e nero, al preambolo del Presentatore seguono i titoli di testa con ouverture musicale di accompagnamento. qui proiettati. Il testo,