1. LE ORIGINI DEL MALE
2.3 Il secondo tentativo
2.3.2 Il testo
Se a livello pratico la soluzione prevedeva non poche complicazioni per quanto riguardava la gestione della sala, poiché non sarebbe stata applicabile a tutti i teatri in cui avremmo dovuto rappresentare il Caligola-0, il sistema consentiva almeno per il momento di fornire finalmente a Caligola e Cesonia degli interlocutori con cui sviluppare l’intreccio.
Il ragionamento era più o meno lo stesso che faceva intervenire il deus ex machina nel teatro greco e romano. Oggi come allora, se non c’è modo di uscire da una situazione complessa e senza sbocchi, si può tagliar corto e far intervenire un dio o un gruppo mitologico per risolverla con la magia.
Il trucco da noi utilizzato era stato quello di aggiungere una presenza non invasiva che permettesse al testo di Camus di irrompere nella storia.
Le battute fuori campo corrispondevano al dialogo dei senatori nella prima scena del primo atto del Caligola del 1941. Questa scena venne così inserita, posizionandola in un primo tempo come introduzione alla scena del ritorno dell’imperatore che, infangato e sconvolto, trascina il corpo della sorella.
In seguito però questa scena fu nuovamente spostata su richiesta di Casale che aveva manifestato il desiderio che lo spettacolo si aprisse con l’ingresso di Caligola e con la parola «mostro».
La prima parte di questa riscrittura si apriva con il monologo dell’imperatore, allungato e farcito di argomentazioni programmatiche quali: il desiderio di liberarsi dall’ossessione di Drusilla, la convinzione che questo desiderio sia impossibile, la dichiarazione di guerra agli dei.
Ognuna di queste considerazioni arrivano a Caligola per associazione di idee. Cesare parla con il corpo morto della sorella e arriva ad unirsi carnalmente a lei sprofondando così nella sua follia senza rimedio. Attraverso questo atto mostruoso egli celebra una rinascita. Il concepimento di un nuovo sé stesso, crudele e perverso, che accusa gli dei di avergli sottratto il suo unico amore. Deciso a vendicarsi, giura di utilizzare il suo potere per sostituirsi a loro.
Sarà questa la volontà di questo Caligola. Al posto della logica sfrenata, applicata alla lettera dal Caligola di Camus, assistiamo qui a una divinizzazione puramente folle dell’imperatore che si consacra unico dio.
Questa, nell’idea del secondo tentativo di riscrittura, costituisce una interpretazione sclerotica del tema del personaggio. L’assalto al cielo si accordava in parte con la ribellione adolescenziale, ma soprattutto creava un instabile quanto azzardato parallelismo fra il sacrificio rituale di Caligola e la passione di Cristo. Questa chiave di lettura partiva dalla considerazione che il Cristianesimo muoveva i primi passi proprio sotto l’impero di Caligola e la figura del Redentore avrebbe potuto trovare nel nostro spettacolo un improbabile contraltare proprio in Cesare, ora letto in chiave di Anticristo.
Il solo aspetto veramente interessante di questa visione era ciò che avrebbe significato la sua applicazione nei termini della storia, in quanto la ribellione di Caligola contro «la banda degli dei» avrebbe ribaltato le parti del colpo di stato. Caligola avrebbe condotto il suo golpe e non i senatori. L’imperatore sarebbe stato il rivoluzionario, mentre i senatori-dei sarebbero stati il nemico, il potere da sconfiggere.
Uscito Caligola, le voci di questi nemici fanno la loro invisibile apparizione. Essi dialogano con Cesonia nella seconda scena.
VOCE 1. Hai sentito?
VOCE 2. No.
VOCE 1. Qualcuno ha gridato.
VOCE 2. La campagna è piena di cani scappati dai campi e dalle fabbriche.
VOCE 1. Ma i cani non gridano.
VOCE 3. Cosa c’è laggiù?
VOCE 2. Non lo so.
VOCE 1. Cesonia! Cosa vedi?
CESONIA. Caligola.
VOCE 3. Caligola?
CESONIA. Caligola che piange per la sorella.
VOCE 2. Sembrava più una bestia.
VOCE 1. Le bestie non fanno distinzioni tra fratelli e sorelle.
VOCE 3. Nemmeno lui.
Credo non sia necessario elencare le analogie di questo dialogo con quello dei senatori nella prima scena del primo atto di Camus. Basterà dire che qui la funzione non è quella di presentarci il personaggio perché si è presentato già da solo e abbiamo imparato a conoscerne le perversioni e i desideri. In questa scena si pone l’accento piuttosto sulla cecità delle voci. Non sappiamo chi siano, ma dalle loro domande a Cesonia capiamo che essi sentono ma non vedono. È la
ragazza a informarli: quello che loro avevano scambiato per una bestia ferita è l’imperatore che «piange per la sorella». Caligola viene spiato da figure invisibili e misteriose. Dai loro discorsi, in cui trova posto anche un elemento che vorrebbe forse inserire la storia in un tempo indeterminato ma che finisce invece per attualizzarla (le «fabbriche»), traspare una preoccupazione per quell’imperatore innamorato della sorella, che diventerà ansia per le sorti dell’impero.
VOCE 1. Per lui non sarà facile dimenticarla.
VOCE 2. Deve dimenticarla. È il mondo che glielo chiede.
VOCE 3. E il mondo è pieno di donne.
VOCE 1. E se non la dimentica?
VOCE 2. Lo sostituiremo. Gli imperatori non ci mancano.
VOCE 3. E nemmeno le donne.
VOCE 1. Sono gli uomini che ci mancano.
VOCE 2. Abbiamo Caligola.
È una variazione minima del testo originale del ’41 a cui segue il monologo di Cesonia che abbiamo già incontrato. Le sole differenze con l’improvvisazione di Laura Tavilla sono le grida ripetute che chiamano «Caligola!» finché Caligola non arriva accolto da una sviolinata della Voce numero 1. L’imperatore taglia corto. Zittisce la voce insultandola così duramente da far intervenire Cesonia che gli chiede «perché fai così?». Caligola risponde che è perché gli è morta la sorella. Comincia il dialogo fra Cesare e la ragazza. Anche qui ci sono aggiunte e sostituzioni di battute rispetto alla scena improvvisata dai ragazzi (ora è Caligola a chiedere il numero a Cesonia) e viene inserita un’informazione importante per lo sviluppo della storia: c’è carestia e «il popolo ha fame». Caligola reagisce in modo sbrigativo: «scrivi: “stanziamo due milioni”». Ma le casse dello stato sono vuote. Così si arriva alla proposta dispotica dell’imperatore che prevede il ben noto testamento da far firmare a tutti i sudditi, che prevede Cesare quale unico beneficiario e la conseguente lista delle condanne a morte. Qui viene chiamata «prima lezione di politica economica di Caligola».
Ma il punto a cui si vuole arrivare qui è un altro. Non si tratta di focalizzarsi sul dispotismo gratuito del mostro perché qui il mostro ha un altro scopo: quello di diventare dio.
CESONIA. Drusilla era il tuo Dio?
CALIGOLA. È terribile avere dei fratelli. Da quando è morta non riesco più a guardarmi allo specchio.
CESONIA. Eri giovane, è normale. Tu non vuoi cancellare quel ricordo. Ma hai sofferto e non sei più quel ragazzo. Lei ti conosceva meglio di chiunque altro, era il tuo corpo e tu crescevi con lei.
CALIGOLA. E adesso?
CESONIA. Adesso sei solo tu ed è il momento di crescere davvero. Non è Drusilla è la tua giovinezza che se ne va. (…)
Anche qui Cesonia cerca di far ragionare Caligola, tenta di salvarlo. Ma anche qui Caligola non ha nessuna voglia di essere salvato e porta il discorso dove vuole lui.
CALIGOLA. (…) Allora, Cesonia. Adori i vecchi dei o quelli nuovi?
CESONIA. I nuovi, quelli vecchi sono tutti andati a vivere in campagna.
CALIGOLA. I tuoi genitori sono contadini, vero?
CESONIA. Hanno delle piantagioni.
CALIGOLA. E dove sono i loro templi?
CESONIA. I vecchi dei non hanno bisogno di templi, stanno nella pioggia e nel sole.
CALIGOLA. Con questa carestia devono essere disoccupati lassù.
Questo dialogo non cita soltanto la presenza storica di culti antichi legati alla natura presenti nell’impero romano, né testimonia quel politeismo che tollerava e spesso integrava altre religioni alla dottrina di Stato. Se mai qui si evidenzia quanto le religioni siano destinate a dividersi fra vecchie e nuove, come se le divinità fossero esse stesse soggette ai ritmi della vita dei mortali su cui pretendono di governare e da cui invece vengono irrimediabilmente comandate. È un discorso analogo e ispirato nella forma di quanto scritto da Cesare Pavese nei
Dialoghi con Leucò. In particolare il riferimento si fa stretto e puntuale nella parte
che segue dove si può ravvisare lo stesso tema contenuto nel dialogo I fuochi in cui padre e figlio parlano del sacrificio132. Come gli uomini anche gli dei
invecchiano e muoiono. La logica, che qui Cesare mostra di saper utilizzare, avvicina in questo caso il nostro Caligola al Caligola di Camus. Il risultato a cui arriva è che se non ci fossero i fedeli, anche le fedi non esisterebbero.
CALIGOLA. Se un giorno non ci fossero più contadini, tu pensi che la pioggia e il sole sparirebbero?
CESONIA. Non lo so, Cesare.
CALIGOLA. Dimmi: quanti giorni sono che non piove?
CESONIA. Credo sei o sette…
CALIGOLA. Da quando è morta Drusilla! Dillo!!
CESONIA. Da quando è morta Drusilla.
CALIGOLA. Scrivi: ordino che tutti i contadini si trasferiscano in città dove consegneranno i raccolti e tutti i loro beni saranno espropriati.
CESONIA. Perché Cesare?
CALIGOLA. Perché voglio che i vecchi dei muoiano di fame. Quando nessuno sacrificherà più per loro e il sole sorgerà lo stesso, tutti ringrazieranno i nuovi dei e allora potrò occuparmi anche di quelli. Adesso vai e chiamami il Senato.
CESONIA (Prende il cellulare e compone il numero del Senato).
La guerra agli dei è stata dichiarata. Caligola emana una nuova legge, legge della quale non v’è traccia nell’opera di Camus: tutti i contadini dovranno trasferirsi in città. Il decreto mira a due obiettivi uno immediato e uno a lungo termine. Il primo è quello di svuotare il culto dei vecchi dei pagani, quelli che «sono tutti andati a vivere in campagna», dei loro fedeli. Senza nessuno che offra sacrifici al sole e alla terra, alle divinità ancestrali evocate tante volte da Pavese e sorpassate dal culto nuovo degli dei olimpici, i vecchi dei scompariranno. Il proposito dell’imperatore non è quello inquisitorio di perseguitare il vecchio a beneficio del nuovo culto. Se mai è la messa in pratica in chiave teologica del principio del
divide et impera: sconfiggere un nemico alla volta. Dopo aver distrutto gli dei
primitivi, sarà la volta di quelli nuovi.
L’obiettivo a lungo termine non ha molto a che fare col primo se non per il fatto che condanna gli uomini allo stesso destino dei vecchi dei: la morte per fame. Sarà una delle ossessioni dell’imperatore del Caligola-0, quella di governare non solo gli uomini ma anche le forze naturali. Decidere quando verrà la carestia è un atto pratico del dio e non del governante poiché fino a Caligola nessun re o imperatore aveva osato tanto. Questa decisione, che nel nostro Caligola sarebbe stata così importante, trae ispirazione direttamente dalla frase che il mostro di Camus pronuncia nel secondo atto «Domani ci sarà carestia133».
A ben vedere, la legge varata in questo dialogo con Cesonia è un’eco di quella decisione scellerata del Caligola del 1941 che ordina la chiusura dei granai pubblici. Poco importa se la nostra riscrittura decida di ammucchiare tutti i provvedimenti all’inizio. Ciò che è importante è invece l’obiettivo e l’obiettivo, come abbiamo visto, è adesso la guerra al cielo.
Ma al di là di questi concetti che attraverseranno altre parti del Caligola-0, è in questa scena che si propone una ulteriore soluzione per l’intimità che concentra tutta l’azione nei due personaggi adolescenti. Un’intimità che era stata già violata con l’arrivo dei tre senatori-dei e che adesso trova un altro elemento di comunicazione. Anzi, l’elemento di comunicazione per eccellenza: il telefono. Ora, va detto che l’utilizzo del telefono in teatro è spesso un cliché. Molti sono i suoi utilizzi all’interno di sketch comici tanto da virare il genere del dramma verso le tinte grottesche o la commedia sofisticata al solo apparire della cornetta. Un effetto che non ci dispiaceva troppo e che, anzi, avevamo calcolato. La frase di Caligola: «adesso vai e chiamami il senato» a cui faceva seguito la digitazione di un numero sul cellulare di Cesonia, voleva chiaramente creare qualcosa di comico e inaspettato. Non totalmente, però. Intanto perché l’effetto comico, se anche avesse funzionato, sarebbe stato annullato presto dai propositi sanguinari dell’imperatore. Secondariamente non sarebbe stato un espediente completamente inaspettato, relativamente a quanto viene detto durante il primo incontro fra Caligola e Cesonia. In quel dialogo Cesare chiede il numero di telefono alla ragazza e lei glielo dice. Questi due aspetti concorrono però a giustificare una presenza ossessiva del mezzo telefonico nelle scene seguenti.
Il cellulare trova la sua legittimazione nell’uso (alcuni direbbero abuso) della tecnologia da parte dei giovani, e Caligola e Cesonia sono qui due adolescenti. Allo stesso modo il telefono rende tutto il distacco e la leggerezza con cui l’imperatore amministra il potere. Esercitato da una distanza quasi siderale, si direbbe, considerando che il mezzo permette di rendere le vittime del suo potere come voci, invisibili e inermi. Ma anche questo aspetto ha il suo rovescio. Mantenendo quasi inviolata la sua solitudine, Caligola può focalizzare la sua azione sulla base del risentimento, della sconfinata follia con cui combatte la sua guerra agli dei, ma a quale prezzo?
Le vittime di Caligola sarebbero “apparse” soltanto come voci evitando di inquinare lo spazio del visibile destinato ai soli dolci e terribili giovani assassini, ma al prezzo di mutilare la tragedia dei loro omicidi. In questo modo tutte le scene forti sarebbero state disinnescate: la congiura dei senatori senza senatori, le recite di Caligola senza pubblico. Mereia sarebbe stato obbligato al suicidio da un Cesare che avrebbe sillabato la condanna a morte alla maniera dei giornalisti al telefono con la redazione. Avremmo goduto i gorgoglii del povero senatore ma ci
saremmo persi tutto l’orrore della sua fine. Sotto un aspetto meno pratico, invece, il cellulare come simbolo della modernità avrebbe costituito un’attualizzazione che allontanava l’intera vicenda dall’indeterminatezza temporale che cercavamo di mantenere (e che sarà un elemento cercato disperatamente in tutte le versioni seguenti degli Scarti).
Insomma l’irruzione della tecnologia nella riscrittura di un testo come il Caligola, che pure dichiara di rigettare «la romanità134», presentava dei difetti in
corrispondenza dei suoi stessi punti di forza.
Caligola telefona ai senatori informandoli dei suoi decreti. Dopo questa comunicazione, sbrigativamente, fa allestire un banchetto perché ha fame. È l’inizio del secondo atto.
Il banchetto è una scena che dà largo spazio all’improvvisazione in quanto il suo allestimento viene riservato al pubblico presente sul palco. Operazione difficile, specie se condotta da un attore inesperto, ma allora confidavamo tutti sulla partecipazione attiva del pubblico allo spettacolo. Nell’estremo tentativo di fornire a Caligola l’agognato pubblico richiesto anche dalla drammaturgia originale, l’attore-imperatore selezionava alcuni spettatori e ammaestrandoli faceva costruire con i loro corpi una tavola da imbandire. Durante questa operazione accusava Cesonia, colpevole di avere insinuato che Caligola volesse cibarsi delle carni dei senatori, di essere «una puttana».
CALIGOLA. Allora dimmi: se io non fossi io, ma il mio cavallo; e se il mio cavallo fosse imperatore, tu, dei due, chi sceglieresti? CESONIA. Tu. Tu sei il mio imperatore.
CALIGOLA. No, stupida. Il tuo imperatore sarebbe il cavallo.
CESONIA. Comunque sceglierei te.
CALIGOLA. Ma io sarei il cavallo del mio cavallo. CESONIA. Allora sceglierei il cavallo.
CALIGOLA. Allora lo vedi che sei una puttana? Sceglieresti comunque il cavallo.
CESONIA. Ma non è così.
CALIGOLA. Infatti. È solo un caso che tu ami me invece del mio cavallo. E se il mondo fosse quello del mio cavallo ci sarei io dentro quel piatto.
È di nuovo la logica del Caligola di Camus che ritorna in filigrana, aggiungendo qui la citazione all’aneddoto più famoso riferito all’imperatore: quello secondo cui avrebbe nominato senatore il suo cavallo (in realtà, ciò non è solo improbabile 134 A. Camus, Note alla scena in Caligola, p. 2.
ma anche sbagliato, in quanto Svetonio ci tramanda la volontà di Caligola di nominare il suo cavallo console).
È a questo punto che il testo di questo secondo tentativo si sfilaccia, diventa frammentario e si interrompe. La narrazione doveva proseguire con i sospetti di Caligola nei confronti di Cesonia, in una scena analoga a quella che nell’originale portava all’avvelenamento di Mereia. Poi sarebbe seguita la scena di travestimento in cui Caligola vestito con gli abiti di Drusilla-Venere avrebbe domandato a Cesonia di portargli la luna. A questo punto la ragazza, ancora innamorata di Cesare avrebbe usato il suo stesso travestimento per ingannare il mostro. Apparendo a sua volta nelle vesti di Drusilla, Cesonia avrebbe concepito una figlia con Caligola a cui lui avrebbe in seguito dato il nome di Drusilla. Questa figlia sarebbe stata, agli occhi dell’imperatore, la reincarnazione della sorella con la quale avrebbe riallacciato la sua relazione incestuosa sposandola e concependo con la figlia il suo vero erede. Scoprendo un tale abominio Cesonia avrebbe cercato di abortire ma sarebbe stata scoperta da Caligola. A quel punto il popolo affamato dalla carestia decretata dall’imperatore-dio sarebbe insorto e il tentativo di salvare il mostro dalla furia dei congiurati avrebbe portato Cesonia ad essere uccisa dallo stesso Caligola assieme alla figlia da lei portata in grembo. L’ultima scena avrebbe visto Caligola fuggire di nuovo per le campagne e consegnarsi alla storia mentre, guardando il cielo notturno, avrebbe commentato: «non c’è luna» segno della vanità del rincorrere desideri impossibili e insieme della follia del credersi dio. La luna non si vede, il cielo è coperto e finalmente sta per piovere.