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Tra le incertezze generate dalla laconicità dell’art. 230 bis c.c. deve essere annoverata quella relativa all’origine della fattispecie. Il legislatore, infatti, nel dettare la relativa disciplina, ha posto l’accento sul momento dinamico, cioè lo svolgimento dell’attività lavorativa, trascurando l’aspetto statico del fenomeno, fra cui la sua genesi.

L’incertezza della previsione è stata acuita, immediatamente dopo la sua entrata in vigore, dal fatto che il legislatore fiscale, nel disciplinare l’impresa familiare sotto il profilo tributario, ha previsto la possibilità di imputare parte del reddito d’impresa ai familiari lavoratori, a condizione che le rispettive quote di partecipazione agli utili risultino da un atto avente precisi requisiti di forma, differenziandosi così dalla disciplina civilistica della figura, ove non vi è traccia di un simile atto.

L’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano dell’impresa familiare aveva difatti generato l’esigenza di determinarne il regime di tassazione, con particolare attenzione all’imposta sul reddito.

La prima disciplina in materia è stata fornita dalla l. 2 dicembre 1975, n. 576, la quale, all’art. 9, stabiliva l’imputazione del reddito d’impresa familiare a ciascun collaboratore proporzionalmente alla partecipazione agli utili, nella misura fissata prima dell’inizio dell’anno finanziario in un atto pubblico o in una scrittura privata autenticata. Si è generata, così, un’immediata discrepanza fra la disciplina civilistica e quella fiscale, che necessitava di una formalizzazione per escludere l’attribuzione dell’intero reddito dell’impresa al titolare. Sono seguiti abusi nell’indicazione delle quote da parte degli interessati, cosicché si è reso necessario un intervento legislativo, realizzato con la l. 25 novembre 1983, n. 649, col quale, pur abrogando l’art. 9, si è mantenuto lo specifico regime previgente, subordinandolo, però, alla condizione che la prestazione del familiare collaboratore fosse effettiva e di durata: a tal fine si richiedeva il riscontro della dichiarazione di questi in una attestazione dell’imprenditore, che confermasse la proporzionalità degli utili al carattere dell’opera prestata.

Anche questa soluzione non è apparsa soddisfacente ed ha favorito critiche che hanno condotto nuovamente ad una revisione della disciplina realizzata nel 1985, quando la l.

17 febbraio 1985, n. 17 ha convertito un decreto legislativo dell’anno precedente e ha limitato alla quota del 49 per cento dell’ammontare del reddito risultante dalla dichiarazione dell’imprenditore l’imputazione a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la propria prestazione nell’impresa. Il criterio di ripartizione del reddito introdotto da questa legge ha permesso l’avvicinamento della disciplina fiscale all’art. 230 bis c.c., prevedendo la determinazione delle quote di partecipazione ex post, sulla base dell’attività effettivamente prestata dai partecipanti.

Un aspetto è stato invece introdotto ex novo, in quanto assente nella disciplina codicistica, ovvero il necessario carattere prevalente dell’opera compiuta, limitando la possibilità di usufruire delle agevolazioni fiscali.

Attualmente la disciplina dell’impresa familiare sotto il profilo fiscale è contenuta nel d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 all’art. 5, comma 4, il quale ha sostanzialmente confermato la disciplina precedente, con la sola differenza che l’imputazione della quota di partecipazione al familiare collaboratore è obbligatoria, e non più facoltativa.

Si è ritenuto opportuno riassumere brevemente il regime fiscale riservato al nuovo istituto perché, come accennato, vi è stato qualche tentativo di riconoscere all’atto di fissazione preventiva della quote di partecipazione, rilevante sicuramente ai fini fiscali, anche efficacia sul piano civilistico, quale negozio costitutivo del rapporto d’impresa familiare.

La giurisprudenza maggioritaria191, confortata da una nutrita dottrina, è orientata nel senso di negare efficacia determinante sotto il profilo civilistico a quell’atto pubblico o a quella scrittura privata autenticata, sia per quanto concerne la costituzione della fattispecie, sia per quel che riguarda la determinazione delle quote di utili spettanti ai familiari collaboratori. La massima apertura emersa nel panorama è stata nel senso di riconoscervi valore probatorio indiziario192.

I maggiori contributi degli studiosi e dei giudici sono comunque confluiti nel dibattito originario sulla costituzione dell’impresa familiare, e sono stati sostanzialmente finalizzati a risolvere la diatriba genesi negoziale-genesi fattuale. A favore della prima soluzione si è rivelato P. Carbone193, che ha dedicato fra l’altro alla questione uno specifico studio, ed è giunto ad affermare il fondamento contrattuale dell’istituto, siccome, in caso contrario, qualsiasi familiare compreso nei gradi di legge, potrebbe di fatto iniziare la propria collaborazione nell’impresa del congiunto, addirittura contro la volontà degli altri partecipanti, dando vita così ad una indebita intromissione nella comunità di lavoro familiare. In considerazione, poi, della peculiarità dell’istituto di cui si tratta, il diritto di partecipazione potrebbe anche nascere dal mancato esercizio del diritto di esclusione, cioè dal fatto che sia tollerata l’altrui prestazione lavorativa, e quindi titolo giustificativo della posizione sarebbe un accordo implicito tra i partecipi e il familiare non partecipe .

Concordano con quanto sopra A. e M. Finocchiaro194 i quali sostengono che una

“volontà d’impresa” esiste comunque: la costituzione dell’impresa familiare non può prescindere da una manifestazione di volontà, espressa o tacita, che si consacra in un

“contratto d’impresa familiare”, anche se non necessariamente solenne o formale, dando vita, così, a rapporti giuridici, e non meramente di cortesia o affectionis vel benevolentiae causa.

M. Davanzo195, nella sua trattazione, contrappone la sua posizione a quella di V. De Paola e A. Macrì196: l’autore, infatti, conclude che i rapporti che si creano nell’impresa familiare, e che ne formano la struttura, hanno base contrattuale, anche se non legati ad

alcun requisito di forma, potendo, l’accordo ex art. 1321 c.c., ridursi all’essenziale come assenso, manifestato

verbalmente, o come “comportamento complessivo”; al contrario, i due autori riconducono i diritti del familiare collaboratore alla prestazione di fatto di un’attività di lavoro a carattere continuativo, svolta a favore di altro familiare.

Sulla necessità di collegare la prestazione di lavoro ad una manifestazione, anche tacita, di volontà (in quanto negoziale), si sono espressi in più occasioni i giudici, sul

191 Nella giurisprudenza di legittimità C. Cassazione, 25 luglio 1992, n. 8959, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1993, I , 408 con nota di BONTEMPI. Nella giurisprudenza di merito Pret. Parma, 9 aprile 1987, in Giustizia Civile, 1988, I, 1350.

192 M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 138. Così anche A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 1300;

G. GABRIELLI, op. cit., pag. 48.

193 P. CARBONE, Per un fondamento contrattuale dell’impresa familiare, in Rassegna di Diritto Civile, 1981, 1010. Contra A. DI FRANCIA, op. cit., pag. 154.

194 A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. 1381.

195 M. DAVANZO, op. cit., pag. 69.

196 V. DE PAOLA -A. MACRì, op. cit., pag. 312.

presupposto che né il familiare è tenuto a collaborare nell’impresa, né l’imprenditore è obbligato ad accettare la collaborazione di chi abbia titolo per parteciparvi.

La Cassazione ha avuto modo di affrontare per la prima volta la questione nel 1981197, sia pure solo in via incidentale, individuando nell’art. 230 bis c.c. una programmazione negoziale in modo puntuale e specifico, cosicché la prestazione di lavoro sarebbe “pur sempre da ricollegarsi ad una manifestazione anche tacita di volontà”.

Successivamente la tesi è stata confermata sia in sede di legittimità198, che di

merito199, ma in senso parzialmente diverso si é pronunciato il Supremo Collegio nel 1992200, il quale, individuando la fonte dell’impresa familiare nella legge, non ha comunque escluso la possibilità di un accordo fra le parti e la sua efficacia in ogni caso.

Fra le pronunce di merito si ricorda una sentenza del Pretore di Parma201, il quale ha aderito alla tesi contrattualistica, mosso dalla preoccupazione che, altrimenti, “si giungerebbe all’assurda partecipazione della moglie casalinga dell’imprenditore che, all’insaputa di questo e contro la sua volontà, maturerebbe i diritti di cui all’art. 230 bis c.c. accudendo alle faccende domestiche”. Proprio al fine di evitare questa evenienza, soprattutto in relazione al lavoro domestico, la C. Cassazione si è ultimamente espressa a sezioni unite202 in questo senso: “(…) la costituzione dell’impresa familiare, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie”.

Se fondamento dell’istituto è un contratto, allora deve ammettersi anche la sua cedibilità, che ai sensi dell’art. 230 bis comma 5 c.c. si realizza con il trasferimento del diritto di partecipazione.

Degna di menzione è la tesi sostenuta da V. Colussi203, per il quale la prestazione di lavoro del familiare nell’ambito dell’impresa familiare implica una scelta di vita contenente in sé l’elemento volontaristico, cosicché, senza giungere a ravvisare necessariamente l’origine della fattispecie in un contratto tipico di lavoro, sarebbe sufficiente inquadrarla fra i comportamenti volontari, siano essi contratti o atti. La prestazione lavorativa diverrebbe, così, un mero indizio da cui desumere l’esistenza dell’impresa, e non il suo fatto costitutivo.

Comunque, la convinzione maggiormente diffusa in dottrina considera fondamento dell’impresa familiare la prestazione di lavoro del singolo partecipe.

Gli interpreti aderenti a questo indirizzo individuano la fonte del rapporto d’impresa familiare in un fatto giuridico, la prestazione lavorativa appunto: C. M. Bianca204 afferma, ad esempio, che ai fini dell’istituto in esame ciò che rileva è l’apporto di lavoro continuativo, e se il familiare lavoratore ha una posizione di partecipazione all’impresa,

197 C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, cit..

198 C. Cassazione, 23 novembre 1984, n. 6069, Giustizia Civile, 1985, I , 18.

199 Pret. Santhià, 14 luglio 1986, in Giurisprudenza Italiana, 1987, I , 2, 518 con nota di TANZI. Così anche Trib. Vercelli, 12 febbraio 1988, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1988, 477; Trib. Roma, 5 febbraio 1990, in Giurisprudenza Italiana, 1990, I , 2 , 691, con nota di PUTTI.

200 C. Cassazione, 16 aprile 1992, n. 4650, in Giurisprudenza Italiana, 1993, I , 1, 1050 con nota di BALESTRA. Così anche C. Cassazione, 20 gennaio 1993, n. 696, in Massimario Giurisprudenza Italiana, 1993, ove si afferma che l’impresa familiare “non presuppone necessariamente una formale dichiarazione negoziale, bensì una collaborazione non riconducibile ad una diversa pattuizione”.

201 Pret. Parma, 10 febbraio 1991, in Diritto e Pratica del Lavoro , 1991, 1628.

202 C. Cassazione, S.U., 4 gennaio 1995, n. 89, in Giurisprudenza Italiana, 1995, I , 1, 369.

203 V. COLUSSI, op. cit., pag. 61.

204 C.M. BIANCA, op. cit., pag. 38. Così anche C.A. GRAZIANI, op. cit., pag. 223; F. GALGANO, L’imprenditore, in Diritto Commerciale, I , Bo, Zanichelli, 1999-2000, pag. 112; M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 263.

essa gli è conferita dalla legge. Del resto si desumerebbe chiaramente dalla stessa norma dell’art. 230 bis c.c. che il complessivo diritto di partecipazione nasce per effetto del lavoro che i soggetti prestano di fatto o per effetto del trasferimento compiuto da un familiare col consenso di tutti i partecipi.

“Il rapporto di collaborazione nell’impresa familiare resta familiare, non è contrattuale, né nella fonte, né negli effetti. Bisogna guardarsi da ogni aprioristica equiparazione non solo a rapporti da contratto ma anche a rapporti contrattuali di fatto. Il rapporto non è né contrattuale, né di fatto: è familiare e… di diritto”: con queste parole si è espresso G.

Oppo205 che ha introdotto il concetto di origine “legale”.

Degna di menzione è la conclusione cui è giunto L. Balestra206, secondo il quale il rapporto di impresa familiare avrebbe sì un fondamento fattuale, la prestazione di lavoro, ma questa rileverebbe altresì come comportamento volontario e consapevole. È stato precisato, però, che l’elemento volontaristico non presuppone la cosiddetta volontà degli effetti, propria di un negozio giuridico, che potrebbe ricorrere solo nel caso in cui le parti si accordassero nel collegare determinati effetti all’esecuzione della prestazione, e tuttavia questa situazione varrebbe ad escludere la disciplina ex art. 230 bis c.c..

In occasione della costituzione di un’impresa familiare ci si troverebbe, perciò, di fronte ad un fatto umano, consapevole, cui sono riconnessi effetti indipendentemente dal fatto che l’autore li voglia.

L’inizio del rapporto non può essere ricondotto in ogni caso al momento in cui la prestazione comincia ad essere fornita dal familiare, perché priva del requisito della

“continuità” richiesto dalla legge, bensì quando quella subisca la trasformazione in prestazione continuativa.

In giurisprudenza, la tesi del fondamento non negoziale dell’istituto è condivisa sia dai giudici di merito che dalla Suprema Corte. Tra i primi si ricorda una pronuncia del Tribunale di Milano207 nella quale sono stati posto a confronto il rapporto di impresa familiare e “i diversi rapporti” che ne escludono la configurabilità: mentre è richiesta la natura negoziale per questi secondi, alcuna manifestazione di volontà negoziale é necessaria per determinare l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c..

Si ricorda infine, per il seguito riguardevole che ne è derivato nel decennio successivo208, una sentenza della C. Cassazione del 1981, in cui ci si è riferiti a “fatti concludenti”, ovvero le prestazioni di lavoro continuativo fornite dai familiari partecipanti.

205 G. OPPO, op. cit., pag. 493.

206 L. BALESTRA, L’impresa familiare, Giuffrè, 1996, pag. 109-110.

207 Trib. Milano, 3 gennaio 1991, in Giurisprudenza Italiana, 1992, I , 2 , 409. In questo senso già Pret.

Fidenza, 26 aprile 1989, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1990, I , 236 con nota di COLUSSI.

208 C. Cassazione, 27 giugno 1990, n. 6559 in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1991, I , 67. Da ultimo C. Cassazione, 23 febbraio 1995, n. 2060, cit..