3.1 Esistono scopi oggettivi in natura?
Al fine di tentare una fondazione dell’etica nell’ontologia, diventa di cruciale importanza ricercare possibili valori in sé nell’essere e nella natura. Infatti solo nel caso in cui esista qualcosa la cui condizione di valore non dipenda da giudizi soggettivi e
particolari né da finalità estrinseche, ma prescinda da tutto ciò, avendo pertanto già in se stesso il proprio valore, sarà possibile, in seconda istanza, verificare se da esso siano deducibili delle norme per l’agire, ovvero se sia possibile fondare il dover essere a partire dall’essere. In altri termini, è necessario dimostrare che il valore non ha solo uno statuto soggettivo (valore per qualcuno), bensì anche oggettivo (valore in sé).
Ora, l’impostazione jonasiana mette in evidenza come il concetto di valore rimandi strutturalmente a quello di scopo, poiché, pur trattandosi di due concetti distinti, soltanto nella misura in cui essi vengono a coincidere diventa possibile parlare di valore oggettivo. Infatti, può avere valore in sé solo qualcosa che propriamente e costitutivamente trova il proprio scopo, la propria ragion d’essere, in se stesso, o meglio, qualcosa che è «scopo a se stesso» (Selbstzweck).
Se prendiamo in considerazione enti o azioni aventi un determinato scopo che risulta essere estrinseco rispetto ad essi, allora il loro valore – definito proprio da tale scopo – sarà relativo, poiché essi varranno per qualcos’altro: annullato lo scopo si annulla anche il loro valore. Il martello serve per martellare; nella sua capacità di assolvere tale funzione risiede il suo valore. Ma per quanto si possa giudicare della sua maggiore o minore adeguatezza allo scopo – e quindi del suo valore relativamente al “compito” che ha da svolgere –, non si può parlare in questo caso di un valore in sé del martello, poiché appunto esso non è fine a se stesso. Io posso decidere di distruggerlo, di sostituirlo, di non usarlo mai, ma questo non avrà alcuna implicazione da un punto di vista etico. Al contrario, solo qualcosa che non è relativo a, che non vale per qualcos’altro, ma ha uno scopo proprio, che rientra in quanto tale nella propria determinazione d’essere, propriamente vale in sé, ha valore cioè in sé e per sé, e pertanto può esigere una determinata tutela etica52.
Questa riflessione rende chiaro l’obiettivo dell’indagine jonasiana sul valore: se nella natura sono rilevabili degli scopi oggettivi, se in essa cioè è rinvenibile a livello ontologico una qualche sorta di struttura teleologica, essa allora conterrà dei valori, o
52 Come si vedrà nella prossima sezione, dedicata al nucleo centrale della teoria jonasiana della responsabilità –
nella quale il fenomeno morale viene a consistere in una dinamica relazionale inedita –, la sussistenza di un valore oggettivo implica di per sé un’imposizione all’agire dell’uomo. In altri termini, secondo Jonas, il valore oggettivo implica il dovere: ciò che vale in sé, in quanto tale, impone un obbligo, l’esistenza di un valore apre inevitabilmente al terreno morale.
meglio essa stessa costituirà un valore, e, a propria volta, l’esistenza oggettiva di valori avrà implicazioni sul piano morale53.
La questione dello statuto soggettivo o oggettivo non riguarderà pertanto soltanto l’istanza del valore, ma preliminarmente quella dello scopo. È necessario dunque analizzare tale concetto per verificare se esso sia sempre legato a una qualche soggettività che lo determina. Detto altrimenti: lo scopo è sempre scopo di qualcuno oppure esso può sussistere in quanto tale a prescindere da una soggettività che lo pone?
Lo scopo, nella formulazione jonasiana, «è ciò per cui una cosa esiste e per la cui realizzazione o conservazione si svolge un processo o si intraprende un’azione»54: esso
definisce l’essenza delle cose, compartecipa fondamentalmente al loro che cosa. Prendiamo ad esempio tutti gli enti che vengono definiti nella loro essenza a partire dalla funzione a cui assolvono e quindi propriamente dal loro scopo; essi sono essenzialmente mezzi per, ovvero ricavano il proprio essere a partire da una finalità di utilizzo che li definisce. È il caso del martello la cui definizione è quella di strumento
per martellare; è il caso del tribunale, ente istituito per amministrare la giustizia; è il
caso delle gambe quale organo del corpo umano che serve per camminare. Di ognuno di questi mezzi, per quanto possano essere essenzialmente diversi per origine – quindi artificiali o naturali – o per il tipo di fine che realizzano – ad essi interno oppure esterno –, si dice che essi hanno uno scopo, poiché quest’ultimo, rappresentando la loro funzione e dunque la loro ragion d’essere, li definisce. Tuttavia, in quanto mezzi, la ragion d’essere del loro scopo non cade all’interno della loro determinazione essenziale: lo scopo di martellare definisce il martello, e in questo senso si dice che il martello ha il proprio scopo nel martellare, ma in definitiva questo scopo non è propriamente lo scopo
del martello, lo scopo suo proprio.
Esiste dunque un secondo significato dell’espressione “avere uno scopo”, significato che esprime non tanto il perché di una cosa ma indica propriamente di chi sia lo scopo. Infatti relativamente a tutti questi mezzi, la cui ragion d’essere viene definita dallo scopo che rappresentano, quando si pone la domanda “scopo di chi?” risulta sempre
53 Per questo Jonas afferma che la questione dell’esistenza di scopi oggettivi e, dunque, di una qualche finalità
nell’essere e nella natura è una «decisiva questione ontologica»: essa «è essenziale per una fondazione in ultima analisi ontologica del “valore” e quindi vincolante sul piano etico» (H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., pp. 77, 82).
valida un’unica risposta: “dell’uomo”. Lo scopo in quanto causa finale di tutte le istanze considerate, dunque, non riguarda soltanto il motivo per il quale esistono, bensì, in definitiva, soprattutto il chi per il quale esistono: il martello, il tribunale, le gambe esistono per l’uomo, in quanto è lui che li inventa (martello), che li istituisce (tribunale), che li “mette in funzione” (organi) ed è lui che, in ultima analisi, ne fa cosciente e volontario uso.
Ora, secondo la concezione epistemologico-ontologica moderna, tale accezione di
scopo quale fine sempre relativo a un soggetto esaurisce il significato attribuibile a
questo concetto: «il “fine” è in quanto tale un concetto interamente umano, che soltanto dall’uomo viene trasferito alle cose, mediante produzione oppure attribuito mediante interpretazione – e che altrimenti non ha alcuna esistenza nel mondo»55.
Tuttavia, secondo Jonas, il concetto di finalità non può essere ridotto a questo.
Basti pensare al caso del comportamento animale: per quanto in esso non sia possibile rintracciare la presenza di una progettualità cosciente concepibile sul modello della soggettività umana, è indubitabile che tale comportamento manifesti una natura teleologica, una qualche forma di finalità. Infatti, per fare solo uno tra i tanti possibili esempi, l’animale che cattura la sua preda per sfamarsi non lo fa in virtù di una prefigurazione razionale del fine, ma lo fa in virtù di un “istinto”, che per quanto non volontario risulta essere nella sua forma finalistico: il fine non è razionalmente concepito, ma è indubitabile che quel determinato comportamento – che viene a buon diritto definito come “innato” – sia diretto a uno scopo, sia finalizzato a un certo “risultato”, che nel caso considerato è appunto quello di sfamarsi e nutrirsi. Di più: non solo negli animali non esiste qualcosa come un’“immaginazione anticipatrice” del fine da perseguire, ma non sussiste nemmeno una sorta di razionalità che illumina sui mezzi per ottenere quel determinato fine; eppure è come se l’animale sapesse già in maniera prerazionale e innata che cosa fare. Dunque il fine risulta essere insito nell’impulso che determina il comportamento animale in un duplice senso: sia in quanto quest’ultimo appare diretto di volta in volta a uno scopo, sia in quanto esso è in sé dotato in maniera, per così dire, naturale dei mezzi per ottenerlo.
Già con l’esempio del comportamento animale, Jonas mostra quindi come sia concepibile e plausibile ontologicamente una qualche forma di finalità non legata alla progettualità e all’intenzionalità, volontarie e coscienti, tipiche della soggettività umana. Nel contempo, tuttavia, è anche vero che dall’agire animale non è possibile escludere totalmente un qualche elemento di possibile volontarietà, per quanto non libera e soggetta a degli istinti naturali e in quanto tali necessari e “meccanici”. Se dunque il caso dell’animale testimonia che «l’efficacia degli scopi non è legata alla razionalità, alla riflessione e alla libera scelta, e dunque non è legata all’uomo»56, essa
resta qui pur sempre vincolata a un elemento soggettivo.
Ma anche andando oltre il comportamento animale, la natura mostra di avere in sé forme di scopo che prescindono da una qualsiasi istanza di intenzionalità o di volontarietà, istintiva o razionale che sia. In particolare, che il concetto di scopo non abbia validità solo in riferimento a istanze soggettive e dotate di una qualche forma di coscienza risulta ancor più evidente per Jonas se si prendono in considerazione le funzioni organiche preconsce degli esseri viventi, come quella esemplificativa dell’organo della digestione57: non può dirsi altrimenti se non che l’apparato digerente
ha il proprio scopo nella funzione organica che assolve e che tale fine sussiste a prescindere da tutto ciò che viene solitamente connesso al concetto di scopo; non c’è infatti in questo caso volontarietà, né coscienza, né prefigurazione del fine. «Nello strumento naturale […] esistenza e funzione sono ugualmente sottratti all’arbitrio, anzi per lo più coincidono», e quindi in essi «per la determinazione del carattere teleologico […] viene del tutto meno il ricorso alla finalità soggettiva»58.
Facendo ricorso alla testimonianza dell’essere vivente, Jonas ha dunque rintracciato la presenza di una finalità negli enti di natura. In realtà, l’argomentazione jonasiana a sostegno di una teleologia dell’essere si spinge oltre e si lega qui alle riflessioni
56 Ivi, p. 82.
57 D’altra parte, a suggerire la presenza di una struttura teleologica negli organismi viventi è secondo Jonas la
stessa etimologia del termine organo: un organon è uno strumento, e dunque già in quanto tale esso contiene il concetto di fine. Infatti uno strumento esiste per svolgere una determinata funzione, ovvero è un’istanza atta a raggiungere un determinato scopo: le gambe servono per camminare – e questo al di là dal fatto che l’individuo che dispone di esse decida di usarle oppure no –; il sistema digerente serve per digerire, e svolge questa funzione a prescindere da qualsiasi forma di intenzionalità o volontarietà, cioè entra in funzione che l’essere vivente che dispone di esso lo voglia oppure no. Quindi gli organi non solo dispongono in sé di una struttura teleologica, ma l’aspetto fondamentale è che tale struttura abbia un’origine e un funzionamento completamente naturali, per così dire, autonomi, indipendenti da una qualsiasi forma di volontà (cfr. ivi, pp. 73-74).
formulate nell’ambito teorico più specifico della sua biologia filosofica. Il rimando a tali questioni59, a cui Jonas fa soltanto breve riferimento in questa sede, risulta
funzionale ad estendere, «in ultima analisi per un interesse etico, la sede ontologica dello scopo da ciò che si manifesta ai vertici della soggettività a ciò che si nasconde nel mare dell’essere», ovvero dalle istanze in cui la presenza di una finalità risulta più manifesta a tutto l’essere, anche laddove essa può trovarsi in una forma non immediatamente comprensibile. Ciò si delinea come possibile, nella prospettiva di Jonas, in virtù di un principio di continuità vigente in natura, secondo il quale ogni essere vivente risulta in qualche modo dotato delle medesime istanze ontologiche, le quali sussistono però in esso in grado e forma diversi, a seconda dei differenti livelli dell’essere. Quest’ultimo infatti, a partire da forme elementari inferiori, si evolve in enti organici gradualmente più complessi secondo un principio di continuità tale per cui «dal più manifesto, […] dal più sviluppato, […] quindi dalla cosa “più alta” a noi accessibile»60 è desumibile ciò che si trova invece in ciò che è meno manifesto, meno
sviluppato, più recondito. In questo senso «l’essere, oppure la natura, è unitario e fornisce testimonianza di sé in quel che fa scaturire da sé»61.
È alla luce di questo principio di continuità e di unitarietà appartenente alla natura – per il quale, quindi, la biologia filosofica jonasiana costituisce il riferimento teorico necessario – che l’istanza di soggettività non appartiene soltanto all’uomo ma a tutti gli esseri viventi, anche a quelli di livello elementare, e dunque, in questo senso, essa rimanda sempre a uno scopo che le inerisce. Analogamente accade per il fine: se esso
59 Si tratta in particolare delle questioni relative alla confutazione del dualismo psico-fisico, al potere causale e
allo statuto ontologico della soggettività – secondo Jonas istanza non riducibile alla sola esistenza umana –, al sussistere di un principio di continuità in natura, all’unitarietà dell’essere. Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda in primo luogo all’opera Organismo e libertà, in cui Jonas compie un tentativo di trattazione sistematica di tali questioni, tutte riconducibili al terreno della sua biologia filosofica. Si veda inoltre: H. Jonas, Potenza o impotenza della soggettività?, Edizioni Medusa, Milano 2006 (ed. or. Macht oder Ohnmacht der Subjektivität?, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1987), testo che, secondo le intenzioni dell’autore, doveva essere originariamente incorporato in Il principio responsabilità e, in particolare, proprio nella sezione dedicata agli scopi e alla loro posizione nell’essere, ma che fu poi pubblicato autonomamente; esso compare tuttavia come appendice nella versione inglese di Das Prinzip Verantwortung. Si rimanda infine anche a I fondamenti biologici dell’individualità, in Id., Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, cit., pp. 277-302 (ed. or. Biological Foundations of Individuality, in «International Philosophical Quarterly», VIII, 1968).
60 H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., 87.
61 Ibidem. Si tratta in sostanza del noto capovolgimento jonasiano della teoria evoluzionistica darwiniana; di essa
Jonas accoglie il principio evoluzionistico rovesciandone però la prospettiva: in natura non è il superiore che, in virtù di un processo evoluzionistico casualmente orientato, si “abbassa” verso l’inferiore da cui deriva, ma è l’inferiore che si “eleva” verso maggiori gradi dell’essere, in quanto contiene, anche se in grado minore e in forma meno complessa, le medesime caratteristiche ontologiche degli esseri più evoluti; cfr. H. Jonas, Aspetti filosofici del darwinismo, in Id., Organismo e libertà, cit., pp. 52-74 (ed. or. Materialism and The Theory of Organism, in «The Journal of Toronto Quarterly», XXI, 1951).
appartiene, come è evidente, all’uomo, se in alcuni esseri viventi esso è rinvenibile attraverso le funzionalità organiche di cui sono dotati, allora deve essere concepito come presente, seppur in una forma diversa ed eventualmente meno complessa, negli esseri che appartengono, per così dire, a un grado inferiore dell’essere.
D’altra parte la stessa evoluzione dell’essere, già a partire dalla sua origine, appare avere una forma teleologica: dal passaggio della materia dall’inanimato all’animato, cioè, in definitiva, dalla nascita stessa della vita, fino all’originarsi dell’uomo, quale massimo grado di manifestazione dell’essere, tutta l’evoluzione ontica è concepibile ontologicamente come un movimento finalistico; la natura stessa manifesta già in questo evolvere potenziale, in questo costante tendere a uno sviluppo, una struttura teleologica62.
Concludendo, in virtù della continuità e dell’unitarietà presenti in natura Jonas può dunque elevare la finalità a principio metafisico riguardante non solo i singoli organismi, ma la natura nel suo complesso63: «Forti della testimonianza della vita –
conclude infatti Jonas – affermiamo quindi che lo scopo in generale è insito nella natura»64.
Di più: secondo Jonas è possibile, in ultimo, attribuire alla natura persino uno scopo determinato (quantomeno uno, come lui stesso sottolinea), cioè avente uno specifico contenuto, uno scopo suo proprio: la natura, infatti, crea la vita, e in questo dato di fatto, evidente, naturale, spontaneo, ineludibile, è possibile rintracciare un fine intrinseco alla natura stessa.
3.2 Dalla questione dello scopo alla questione del valore come bene in sé
L’indagine jonasiana sugli scopi e sulla loro posizione nell’essere ha dimostrato l’esistenza di uno status oggettivo del valore, svincolando quest’ultimo dalla riduttiva
62 Per questa interpretazione ontologica della natura, la posizione di Jonas – come d’altra parte afferma lui stesso
in diversi punti della sua opera – viene etichettata come aristotelica.
63 Si tratta, come giustamente fa notare Bonaldi, di un passaggio teorico particolarmente debole e della cui
validità soltanto ipotetica e congetturale Jonas si mostra fortemente consapevole (cfr. C. Bonaldi, Jonas, cit., pp. 148- 149).
possibilità di essere posto come tale esclusivamente da una soggettività cosciente, cioè dall’essere umano, e quindi da una condizione di relatività e parzialità. Nell’essere sono presenti dei valori oggettivi in quanto sono date istanze che sussistono come fini in sé: sia gli enti naturali che la natura stessa manifestano di essere sottesi da una struttura teleologica in quanto entrambi rivelano di avere scopi ad essi intrinseci.
Ma la sola presenza fattuale di scopi in natura, e dunque con ciò l’esistenza di valori nell’essere, legittima, in virtù della loro sola sussistenza, che tali valori vengano elevati anche a valori per l’uomo? In altri termini è possibile trasformare una questione de
facto in una questione de jure? Si tratta ancora una volta, come Jonas stesso mette in
evidenza, di far fronte alla questione della possibilità di fondare il dover essere a partire dall’essere, ovvero di verificare se il valore oggettivo possa diventare oggetto del dovere, ossia, ancora, se i valori in sé possano diventare valori vincolanti per l’uomo. Non è infatti la loro sola esistenza in quanto tali a garantire che essi siano rispettati secondo una qualche forma di obbligo.
È alla luce di questo nodo problematico che nell’economia dell’indagine jonasiana viene introdotta la necessità di un nuovo concetto: ai fini della fondazione dell’etica della responsabilità non è sufficiente che ci sia qualcosa come un valore oggettivo, bensì è necessario che esso venga riconosciuto anche come un bene in sé, quale unica istanza in grado di fondare legittimamente un obbligo in quanto tale. Infatti «è chiarendo il rapporto tra bene ed essere (bonum ed esse) che una teoria dei valori può eventualmente sperare di fondare il carattere vincolante dei valori stessi, appunto fondando il bene nell’essere. Soltanto a partire da qui sarebbe possibile dimostrare che la natura, aderendo a dei valori, possiede anche l’autorità per sancirli e può esigere il loro riconoscimento da parte nostra e di ogni volontà cosciente»65.
Dunque, la dimostrazione del fatto che la natura custodisce in sé degli scopi non restituisce con ciò un’indicazione per il nostro comportamento nei confronti di essi: non è possibile stabilire infatti se sia arbitrario farlo oppure se ciò costituisca un dovere, se sia un dovere cioè concordare in maniera cogente con la stessa «decisione valutativa» della natura.
In ultima analisi, per dirla «paradossalmente», è necessario porre la seguente domanda: i valori innegabilmente stabiliti dalla natura sono anche validi, sono cioè anche un bene? Soltanto con il darsi di quest’ultimo caso allora concordare con la natura, cioè rispettarne i valori, può essere fondato come un dovere per l’uomo.