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2.1 Doveri “propedeutici”: l’euristica della paura

L’imperativo cardine dell’etica per la civiltà tecnologica viene presentato in Il

principio responsabilità sin da subito. Tuttavia, il contenuto dell’enunciato che

comanda all’uomo di oggi di curarsi del e avere a cuore il futuro dell’umanità, per quanto venga presentato da Jonas come sensato e intuitivamente evidente, per essere valido, cioè realmente vincolante e non soggetto a istanze solamente emotive, esige una rigorosa fondazione. È quest’ultima, si potrebbe dire, l’intento che fa da filo conduttore di tutta l’elaborazione della dottrina etica jonasiana.

Prima di procedere alla fondazione del nuovo imperativo e, pertanto, della nuova etica, occorre però secondo Jonas “avvicinare”, per così dire, l’uomo nel suo sentire all’urgenza di una simile fondazione, “metterlo nell’ottica” della necessità di ricorrere a una regolamentazione morale per l’agire tecnologico.

È a tal fine che Jonas prospetta l’utilità di un sapere che funga come una sorta di “gradino propedeutico” alla dottrina propriamente etica: si tratta – come lui stesso la definisce – di una «scienza delle previsioni ipotetiche», di «una futurologia comparata»33; essa è anteriore alla parte relativa ai principi e la «presuppone euristicamente»34, ovvero l’elaborazione di un sapere preliminare, propedeutico alla

dottrina morale vera e propria, risulta funzionale a mettere in luce aspetti concernenti i principi fondamentali e propri di quest’ultima, altrimenti non visibili. In quanto tale, questo sapere viene denominato significativamente «euristica della paura».

33 Ivi, p. 34. 34 Ibidem.

In particolare, il ruolo dell’euristica della paura quale sapere predittivo è quello di renderci consapevoli dei rischi che mette in campo l’agire tecnologico, facendo leva appunto sul sentimento di paura e di timore che l’eventualità di tali rischi può suscitare in noi; finché, infatti, «il pericolo è sconosciuto non si sa cosa ci sia da salvaguardare e perché»: «Sappiamo che cosa è in gioco soltanto se sappiamo che è in gioco»35. Essere consapevoli del pericolo che si corre, e venire così a contatto con

il «turbamento emotivo» che ciò ci provoca, ci mostra il valore di ciò che è in pericolo – valore del quale non saremmo altrimenti consapevoli – e, nel contempo, ci istruisce su ciò che occorre evitare. Infatti, come mette in evidenza Jonas, è propriamente la percezione di un male che mette in luce ciò che rappresenta per noi un bene. Concretamente: è la malattia a instillare in noi l’idea della salute come valore; se quest’ultima non venisse mai messa in pericolo, non saremmo consapevoli del bene prezioso che costituisce. Analogamente «soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare»; nei fatti, «sappiamo molto meglio ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo. Perciò la filosofia morale deve consultare i nostri timori prima che i nostri desideri»36.

Tuttavia il caso del timore per il futuro costituisce un caso particolare, perché è difficile che ciò che non appare realmente esperibile nel presente – né è detto che possa verificarsi effettivamente –, poiché riguarda un orizzonte spazio-temporale troppo distante, possa indurre in noi un qualche sentimento.

È per questo che il prefigurarsi un futuro realmente in pericolo deve essere assunto come un primo dovere, non solo propedeutico ma anche estremamente utile. Ad esso fa il paio un dovere complementare: quello di accordare all’idea solo immaginabile di una minaccia futura un sentimento, che da solo – non toccandoci quest’idea direttamente – non può generarsi spontaneamente in noi e per questo deve essere provocato. Non si tratta quindi di un sentimento di tipo patologico, ma di un «timore di genere intellettuale»37, che si risolva non in un mero sentire, bensì

nell’impegno ad assumere un atteggiamento concreto.

35 Ivi, p. 35. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 36.

La necessità di fare propri questi doveri si pone a fronte della comune tendenza ad agire, rispetto all’uso della tecnologia, in base al criterio per il quale è preferibile realizzare un vantaggio immediato – o comunque prossimo – e certo piuttosto che sacrificarlo in nome di possibili svantaggi ignoti, la cui eventualità rientra soltanto in un’ipotesi immaginata. Ma proprio tale prospettiva secondo Jonas va seriamente e urgentemente contrastata. Sebbene, infatti, svantaggi e rischi costituiscano, per quello che sappiamo ora, soltanto un’eventualità, il solo fatto che essi rientrino nel ventaglio di possibilità che potrebbero verificarsi impone che si dia ad essi maggiore ascolto e credito. E questo, ancora una volta, poiché non si risolve in un atteggiamento che viene da sé, va seguito invece nella forma di un dovere: rispetto a quanto potrebbe verificarsi in futuro, «si deve prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza»38.

L’«esigenza di cautela» che tale precetto esprime discende dal fatto che le imprese della tecnologia non consistono soltanto in semplici azioni la cui valutazione si esaurisce nel loro successo o fallimento; esse non sono solo tentativi di innocua o piccola portata. In altri termini, non si tratta soltanto di una questione di esito fortunato o meno delle azioni o, più in generale, di opportunità finite di guadagno o di perdita. In gioco c’è molto di più: una possibile perdita infinita, di fronte ai possibili guadagni finiti.

2.2 La scommessa dell’agire tecnologico

Come è possibile però fare un bilancio tra perdite e guadagni se soltanto questi ultimi sono noti e le prime, in quanto solo possibili, ignote? O, meglio ancora, perché deve rappresentare un dovere prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza, nella misura in cui noi non possiamo di fatto prevedere le conseguenze del domani delle azioni di oggi, cioè nella misura in cui non siamo in grado di giudicare, rispetto al futuro, ciò che potrebbe accadere in termini di

salvezza o di sventura? Difatti, come è possibile valutare concretamente la portata

degli effetti dell’agire attuale nella misura in cui la loro peculiare caratteristica è proprio l’imprevedibilità?

È per rispondere a questi interrogativi che Jonas introduce l’elemento della scommessa quale criterio per la determinazione dell’agire. Dal momento che noi non possiamo sapere quali possano essere gli effetti futuri delle nostre azioni attuali, il criterio di valutazione da adottare si pone come analogo a quello di una scommessa, nella quale ci si trova a dover scegliere facendo una stima dei possibili guadagni e delle possibili perdite, cioè, in ultima analisi, valutando quale sia l’effettiva posta in gioco.

Qual è, dunque, la posta in gioco della scommessa dell’agire tecnologico?

Come Jonas ha già più volte messo in evidenza, nello scenario determinato dai possibili rischi della tecnologia risulta contemplabile e plausibile anche una minaccia per l’umanità che può essere a buon diritto definita come “radicale”, poiché propriamente riguarda il suo stesso essere e la sua stessa esistenza. Ma se è così, se sul piatto della bilancia della scommessa dell’agire viene messo anche qualcosa come la vita stessa dell’uomo, un bene dunque da considerarsi come assoluto, allora, in quanto tale, essa non può essere messa a rischio, cioè, propriamente, di essa non si può fare una posta in gioco. Tale circostanza, infatti, contraddirebbe un vero e proprio enunciato etico, quello in forza del quale l’agire non deve mai mettere in gioco l’interesse complessivo degli altri: «la posta in gioco non deve mai concernere la totalità degli interessi altrui e soprattutto non la loro vita»39. È così, dunque, nel caso della scommessa dell’agire tecnologico, che

l’indicazione di ciò su cui si può scommettere diventa propriamente un’indicazione di ciò su cui non si deve scommettere.

È sulla base di questo fondamento etico, infine, che anche la semplice possibilità, per quanto assolutamente incerta, indimostrabile e non verificabile nel presente, che si possa realizzare la fine dell’umanità deve essere considerata alla stregua di un rischio inaccettabile e che, pertanto, si prospetta come un dovere agire tenendo conto dello scenario peggiore possibile, il che significa, concretamente, con cautela e responsabilità.

Secondo Jonas, infatti, l’esistenza deve essere considerata non solo come un bene assoluto e inalienabile, ma anche come un bene infinito. Essa appare come tale non solo in quanto presa in considerazione di per sé, ma soprattutto nella misura in cui viene messa di fronte all’alternativa della sua totale scomparsa: se viene messa a rischio la vita – e non quella di singoli individui ma dell’umanità tutta –, cioè se propriamente la minaccia di scomparsa viene a riguardare l’essere dell’uomo in quanto tale, ciò a cui quest’ultimo lascerebbe il posto sarebbe il nulla più assoluto.

È così che la perdita stessa dell’esistenza umana, dell’essere dell’uomo, si prospetta secondo Jonas come una perdita infinita, che deve essere dunque messa sul piatto della bilancia rispetto a tutti i possibili guadagni promessi della tecnologia, i quali, relativamente all’eventualità di tale perdita, si rivelano dei beni minimi e finiti40.

A partire dalla possibilità della perdita infinita, afferma Jonas concludendo, «il

nostro principio etico della scommessa […] proibisce […] di rischiare il nulla ossia

di includerne la possibilità nella scelta – in breve esso proibisce in generale il gioco del tutto per il tutto nelle faccende dell’umanità» perché «contrappone […] ciò che è interamente inaccettabile a ciò che è più o meno accettabile nel finito stesso. Ma soprattutto esso […] obbliga in forza di un dovere primario verso l’essere contro il nulla»41.

Ma se la questione della vita dell’uomo, da che riguardava quella dalla sua esistenza effettiva, viene in definitiva a toccare quella dell’alternativa tra essere e nulla, allora essa non si pone più su un piano, per così dire, ontico, bensì viene a riguardare l’ordine ontologico.

E, a ben vedere, è propriamente a quest’ultimo significato che secondo Jonas deve rimandare la responsabilità chiamata in causa dall’agire.

40 Per comprendere la necessità di assumere una pura eventualità come criterio effettivo di determinazione

dell’agire e quella di concepire la messa a rischio della vita umana alla stregua di una perdita infinita, risultano significativi i riferimenti dello stesso Jonas al principio cartesiano del dubbio e al noto scenario della scommessa teorizzato da Pascal. In particolare le prospettive sostenute da questi due pensatori vengono in qualche modo rovesciate. In primo luogo, infatti, nel caso della scommessa dell’agire tecnologico anche ciò che è solo suscettibile di dubbio va trattato alla stregua di una certezza; in seconda istanza, la vita terrena, nella misura in cui l’alternativa non è più la possibilità di una beatitudine eterna, bensì la sua totale scomparsa, in definitiva, il nulla più assoluto, per quanto finita e limitata temporalmente deve essere comunque considerata come un bene infinito (cfr. ivi, pp. 47-48).

2.3 La responsabilità ontologica per l’idea di uomo

Una volta data un’indicazione preliminare circa il contenuto del principio etico di responsabilità attraverso la legittimazione del precetto secondo il quale bisogna dare maggiore ascolto alla profezia di sventura – esprimendo in tal modo primariamente un’esigenza di cautela –, diventa necessario chiarire a chi propriamente tale principio si rivolge. Chi è l’oggetto della responsabilità dell’uomo che agisce oggi nello scenario tecnologico?

Se l’imperativo che Jonas tenta di fondare comanda di agire nell’interesse dell’umanità futura, allora sarà proprio quest’ultima a costituire l’oggetto diretto della tutela dell’uomo del presente. Ma ciò significa anche dire che l’oggetto della responsabilità, l’uomo del futuro, è qualcosa di non ancora esistente. Si può essere dunque responsabili verso ciò che non esiste ancora?

Risulta evidente che la responsabilità che è qui in questione, non rivolgendosi appunto a un’istanza esistente, non può assumere il significato tradizionale, cioè essa non può fare riferimento allo schema classico di diritti-doveri che si instaura normalmente, da un punto di vista morale, in un rapporto di reciprocità. Infatti, può godere di diritti – e, viceversa, pretendere dei doveri – solo ciò che è ed è già. L’umanità futura al contrario, non esistendo ancora, non può avanzare nessuna pretesa né subire alcuna violazione di supposti diritti; non è in questo senso dunque che noi dobbiamo essere responsabili verso di essa.

Pertanto, per poter comprendere il significato della responsabilità jonasiana è necessario uscire da questo schema di reciprocità e di diritti-doveri. Tale responsabilità, in effetti, non riguarda propriamente nessun individuo singolo e determinato, né il dovere di assolvere degli obblighi particolari.

Infatti, se la portata dell’agire tecnologico e la radicalità delle possibili conseguenze e dei rischi che esso mette in campo sono tali da venire a minacciare la stessa esistenza dell’uomo, il suo essere, allora è a questo essere che dovrà rivolgersi primariamente la responsabilità. Per Jonas, pertanto, parlare di responsabilità nei confronti dei posteri non vorrà dire tentare di tenere conto della loro possibile futura condizione determinata, dunque, dei loro desideri, dei loro doveri e dei loro diritti particolari, bensì individuare un criterio oggettivo di tutela nei confronti della stessa

condizione di possibilità di tutte queste istanze. E in particolare, ciò significa per

Jonas, in primis, tutelare lo stesso essere dell’umanità e, in secondo luogo, il suo

dover essere, quest’ultimo inteso sia come condizione preliminare per la possibilità

di compiere dei doveri particolari – cioè come condizione di possibilità del dovere stesso –, sia – e soprattutto – come dovere di esistere, cioè, in ultima analisi, in quanto dovere di essere.

Ma ancora, nell’elaborazione teorica jonasiana – come si è già visto – emerge come il concetto di essere dell’uomo contenga in sé una duplice valenza, in quanto riguarda sia il suo esistere sia la sua determinazione d’essere, ciò che l’uomo è in quanto uomo, in una parola, la sua immagine.

L’oggetto più proprio del dovere di responsabilità risulta allora essere l’idea di uomo, la quale, nella misura in cui rimanda tanto all’essenza quanto all’esistenza di quest’ultimo, è un’idea ontologica. È in questo senso che il dovere di responsabilità «in primo luogo implica […] un dovere verso l’esserci dell’umanità futura […] e in secondo luogo anche un dovere verso il suo esser-così»42, nella misura in cui

l’oggetto di questo dovere è l’idea ontologica di uomo, ovvero quell’idea che rimanda tanto alla sua natura, alla sua essenza, quanto alla sua esistenza ontica43. È

pertanto in riferimento a tale idea ontologica che questo dovere deve essere fondato. «Non siamo – afferma Jonas – responsabili verso gli uomini futuri, bensì verso l’idea dell’uomo, che è tale da esigere la presenza delle sue incarnazioni nel mondo». Infatti da tale idea, che non è solo astratta o teorica, bensì propriamente

ontologica deriva per ciò stesso che «una tale presenza deve essere», il che significa

che «deve essere tutelata, facendone quindi un dovere per noi che la possiamo mettere in pericolo»44.

42 Ivi, p. 51. È significativo che Jonas presenti come inscindibili il dovere di essere dell’uomo, quale condizione

di possibilità di tutti i doveri particolari, e il dovere di preservare la sua «autentica umanità» (cfr. ivi, p. 53). Ciò equivale infatti ad affermare che l’essere esistenziale dell’uomo è inscindibile dal suo essere morale e, nel contempo, che la moralità si fonda proprio nell’esser-così dell’uomo e non altrimenti. Tutelare l’esistenza dell’uomo pertanto significa nello stesso tempo tutelare la sua immagine, la sua dignità, l’umanità, la moralità che rappresenta.

43 D’altra parte i due aspetti concernenti l’idea ontologica di uomo, quello relativo alla sua esistenza e quello

relativo alla sua essenza, oltre ad essere intrinsecamente connessi in quanto tali sono anche toccati in maniera inscindibile dallo stesso agire tecnologico. La tecnologia, come Jonas ha mostrato, attraverso le sue imprese, i suoi scopi e i suoi effetti, va a toccare in egual misura le due questioni radicali che riguardano l’essere dell’uomo: da un lato la minaccia della stessa vita dell’uomo e, dall’altro, quella della conservazione di ciò che è possibile definire la sua “immagine”.

Se dunque l’oggetto del dovere è un’idea ontologica, allora anche l’imperativo che incarna tale dovere sarà ontologico, cioè esso comanderà un dovere di essere: «l’imperativo categorico impone […] semplicemente che ci siano degli uomini, con l’accento posto in egual misura sul che e sul che cosa del dover esistere»45. È a

partire da tale orizzonte di senso che dovrà allora muovere la fondazione del «primo principio di un’“etica del futuro”»: tale fondazione non troverà la sua sede primaria nel terreno dell’etica, nella dottrina dell’azione – nella quale invece, in seconda istanza, sono compresi i doveri particolari verso i posteri –, ma «nella metafisica in quanto dottrina dell’essere (di cui l’idea di uomo costituisce una parte)»46.

2.4 Dall’essere al dover essere: verso la teoria del valore

Sostenere che l’imperativo etico della responsabilità – l’unico avente, secondo Jonas, un valore assoluto e incondizionato e dunque tale da delinearsi come categorico – trovi il suo oggetto più proprio in un’idea ontologica equivale ad affermare che il dovere

deve essere ricavato dall’essere e quindi anche – come Jonas stesso esplicita – che esso

abbia il proprio fondamento nella metafisica.

Con ciò la prospettiva etica jonasiana si pone in netto contrasto con quelli che vengono definiti i due «dogmi più consolidati del nostro tempo»47, i quali sostengono,

da un punto di vista epistemologico-ontologico, che non esiste alcuna verità metafisica, e, da un punto di vista più strettamente morale, che dall’essere non sia deducibile alcun dover essere48.

Jonas pertanto muove a dimostrare l’erroneità di questi due enunciati, confutandoli a partire dalla messa in evidenza del fatto che l’affermazione dell’impossibilità di dedurre una qualche norma etica dall’essere equivale già a dare una particolare connotazione

45 Ivi, p. 55. 46 Ibidem. 47 Ibidem.

48 In ambito etico il secondo enunciato, noto come “legge di Hume”, indica la necessità di separare l’ambito

descrittivo da quello prescrittivo, nella misura in cui l’ordine fattuale delle cose non può restituire alcuna indicazione di ordine normativo. Tale “legge” è rappresentativa della generale impostazione morale contemporanea, la quale trova infatti espressione emblematica nella nota giustificazione di questo principio attraverso la cosiddetta “fallacia naturalistica”, teorizzata da Moore in ambito analitico. Questa espressione denota l’errore logico che starebbe alla base del tentativo di deduzione dall’ordine fattuale e ontologico di istanze normative come valori e doveri.

ontologico-metafisica all’essere stesso: attribuire tale connotazione significa già di per sé assumere una determinata posizione metafisica, il che è in evidente contraddizione con il primo “dogma”. Inoltre, a ben vedere, non può essere nemmeno dimostrato che tale connotazione corrisponda al reale status ontologico di tutto ciò che è; tale visione ontologica è, al contrario, soltanto funzionale all’impostazione delle scienze naturali, e quindi relativa e parziale.

Confutati questi due assiomi e delineata la posizione jonasiana per la quale, invece, non solo esiste una verità ontologico-metafisica che va indagata, ma è anche restituita la possibilità di dedurre il dovere dall’essere, il compito fondativo che si prospetta consiste nel dimostrare come dall’essere non sia deducibile solo il dovere, ma in particolare deve essere tratto il dovere di essere.

Ritornando infatti al contenuto particolare dell’imperativo della responsabilità, che comanda di aver cura dell’umanità futura e quindi di assumere come oggetto della propria tutela l’essere (inteso sia come esserci che come esser-così) dell’umanità futura, è necessario chiedersi perché l’uomo deve essere. Perché, cioè, dal fatto ontico che l’uomo è deriva il fatto deontologico per cui si ha il dovere di tutelarne l’esistenza?

La risposta a questa domanda va, secondo Jonas, cercata in quella che «Leibniz designava come la questione fondamentale della metafisica»49: la questione che mette a

paragone l’essere e il nulla, ovvero che si chiede «perché esiste “qualcosa e non nulla”»50. Il che significa, tradotto in termini etici: perché è meglio che qualcosa sia

piuttosto che non sia? Perché si deve preferire l’essere rispetto al non essere? E dunque