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Hans Jonas. Teoria e prassi dell'etica della responsabilità: la vita come valore e il diritto di morire

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Premessa 03

Capitolo I

Formazione e biologia filosofica: genesi della riflessione etica in Hans Jonas

1. Un itinerario filosofico sui generis 07

2. Gnosticismo, esistenzialismo e nichilismo moderno 11

3. Il superamento ontologico del dualismo: la biologia filosofica 27

Capitolo II

L’etica della responsabilità

1. Un’etica per la civiltà tecnologica 36

1.1. La necessità di una teoria etica 36

1.2. La mutata natura dell’agire umano 42

1.3. L’imperativo etico per la civiltà tecnologica 46

2. Questioni relative ai fondamenti 50

2.1. Doveri “propedeutici”: l’euristica della paura 50

2.2. La scommessa dell’agire tecnologico 52

2.3. La responsabilità ontologica per l’idea di uomo 55

2.4. Dall’essere al dover essere: verso la teoria del valore 57

3. Per una fondazione dell’etica nell’ontologia: la ricerca di valori

nell’essere 59

3.1. Esistono scopi oggettivi in natura? 59

3.2. Dalla questione dello scopo alla questione del valore

come bene in sé 65

4. La teoria della responsabilità 67

4.1. Il fondamento del dover essere nell’essere:

il concetto di bene e il sì ontologico 67

4.2. Il senso di responsabilità 71

4.3. Che cosa significa responsabilità 76

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5. Conclusioni 82 5.1. Gli oggetti dell’etica della responsabilità:

vita, umanità e agire tecnologico 82

5.2. Dall’etica alla politica, dalla teoria alla prassi 86

Capitolo III

Applicazione dell’etica della responsabilità: il diritto di morire

1. L’etica pratica di Jonas: tecnica e medicina 90

2. Jonas nel dibattito bioetico contemporaneo 98

3. L’eutanasia come problematica bioetica: il “diritto di morire” 102

Conclusione 120

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Premessa

L’etica della responsabilità rivolge il suo sguardo a un’istanza che è divenuta caratteristica essenziale dell’epoca moderna: la tecnologia. La peculiarità della scienza tecnologica, in quanto sapere che costituisce intrinsecamente un agire, consiste nel fatto che essa non si pone come mero ausilio atto a migliorare la vita pratica dell’uomo – ciò che ha da sempre costituito l’essenza della tecnica – ma come istanza le cui modalità di utilizzo, i cui effetti, la cui portata hanno rivoluzionato in maniera radicale l’esistenza umana.

Il processo tecnologico, infatti, non solo ha investito ogni aspetto pratico della vita dell’uomo – la scienza, la medicina, il lavoro, l’arte, la comunicazione –, ma è giunto a riguardare questioni ultime inerenti la condizione umana in quanto tale e a mutare la natura dello stesso agire umano. Così, da un lato, la tecnologia ha conferito all’uomo la possibilità di intervenire in ambiti rispetto ai quali egli aveva un margine di intervento molto limitato, in quanto regolati, per così dire, da “leggi naturali”, come il suo stesso vivere, il suo nascere e il suo morire; dall’altro, le conseguenze e gli effetti dell’uso della tecnologia risultano tali da non limitarsi più a riguardare soltanto gli individui e la loro relazione, peraltro in un orizzonte spazio-temporale di prossimità, ma anche istanze che, prima dell’avvento della tecnica moderna, non potevano essere coinvolte dall’agire dell’uomo, rispetto alle quali cioè egli non aveva alcun potere di interferenza, come la natura e l’umanità. L’agire umano, dotato di nuove capacità grazie al sapere tecnologico, nel tentativo di dominare la natura, sottometterla al suo volere, sfruttare al massimo le sue risorse, sta mettendo a rischio l’essenza e la costituzione della natura stessa, violandone le leggi e distruggendola; nel contempo, le azioni degli individui, nel fare uso degli strumenti tecnologici, acquistano una portata tale da minacciare la stessa esistenza dell’uomo sia nel presente che nel futuro. In breve, la tecnologia ha conferito all’essere umano uno smisurato e inedito potere, l’attuazione del quale mette in gioco istanze non soltanto di ordine antropologico, bensì ontologico e metafisico: l’essere

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della natura e l’essere dell’umanità, che nella natura è collocata come nel suo contesto vitale ed essenziale.

È dunque sia in quanto pura forma di agire, che in quanto agire dalla natura rivoluzionaria, che la tecnologia necessita di essere sottoposta, secondo Jonas, a una riflessione e a una normativizzazione morale. Di più: l’uomo moderno non è eticamente preparato a far fronte alla rivoluzione che ha messo in atto attraverso l’agire tecnologico. L’epoca della civiltà tecnologica rappresenta infatti, nel contempo, l’epoca dell’imperare del nichilismo, ossia quel momento storico nel quale la possibilità stessa del darsi di valori morali oggettivamente validi è stata messa in discussione. Lo smisurato potere che egli detiene nelle sue mani unito alla scomparsa di qualsiasi istanza trascendente e metafisica sembrano pertanto legittimare un agire che si determini nel massimo grado di libertà, senza alcun tipo di vincolo che lo limiti e ne guidi l’orientamento. È, anzi, proprio il processo che ha condotto all’acquisizione di questo massimo grado di potere che costituisce, nella prospettiva jonasiana, la stessa matrice del vuoto etico.

Una dottrina morale che voglia restituire dei contenuti etici adeguati e un sistema normativo di riferimento per l’uomo moderno non dovrà pertanto prendere ad oggetto la sola istanza tecnologica e cercarne una regolamentazione muovendo esclusivamente dall’ambito etico, ma tentare di ripristinare l’istanza del valore in quanto tale, ossia rivendicare la possibilità che dei valori oggettivamente validi e vincolanti possano darsi e possano così costituire il legittimo criterio di orientamento per la civiltà tecnologica.

È per questo motivo che nella riflessione etica di Jonas l’indagine morale si lega a una riflessione di ordine ontologico-metafisico e ricerca in quest’ultimo un suo possibile fondamento: il tentativo di una fondazione del valore non dovrà muovere dal solo ambito dell’agire umano, i cui criteri, desideri, scopi possono rimanere legati a un senso e a un significato soggettivi e relativi, bensì nell’essere stesso. E l’essere stesso, a ben vedere – a differenza di quanto sostiene la visione epistemologico-filosofica moderna –, è in grado secondo Jonas di dirci qualcosa su come si deve vivere. È in grado poiché in quanto tale, in quanto essere, esso contiene intrinsecamente in se stesso un’istanza che manifesta di avere in sé una dignità, un valore: la vita.

La vita, infatti, rappresenta la manifestazione più propria dell’essere e, in quanto vita, costituisce un fenomeno che si realizza secondo modalità e dinamiche che consistono più che in un mero funzionamento interpretabile come fatto fisico e meccanico. In particolare, ogni

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essere vivente, nel suo tendere naturalmente ad affermare la propria esistenza, nel suo essere dotato di istanze cui può essere riconosciuta una forma finalistica, manifesta di essere sotteso da una struttura teleologica, e, pertanto, costituisce un valore: ogni essere è vita e, in quanto vita che tende a continuare ad essere, è degna di essere. Ma questa dignità ad essere, questo costituire un valore, viene a rappresentare per l’uomo un dovere: l’uomo, l’unico essere vivente dotato tanto della capacità di riconoscere tale valore, quanto del potere di metterlo in pericolo – ciò che è in grado di fare oggi l’agire tecnologico con i suoi effetti e le sue conseguenze – è chiamato a prendersene cura e a tutelarlo; in una parola: ad essere responsabile per esso. La responsabilità etica a cui è chiamato l’uomo diviene così responsabilità ontologica, ossia responsabilità di fronte all’essere, e l’imperativo categorico che ne esprime il corrispondente dovere un imperativo, oltreché etico, ontologico.

In questo quadro teorico, il presente lavoro si prefigge un duplice obiettivo: in primo luogo, illustrare i contenuti dell’etica della responsabilità quale riflessione morale che, muovendo dal tentativo di sottoporre a esame etico-filosofico l’istanza tecnologica, al fine di restituire ad essa dei valori di riferimento adeguati, trova nell’ambito ontologico-metafisico il suo fondamento e, in virtù di questo, individua in ultimo un valore eticamente vincolante in quanto valore onto-teleologico: la vita; in seconda battuta, mostrare come un’indagine etica che prenda ad oggetto la tecnologia, oltre a proporre dei valori e dei doveri adeguati a orientare l’agire che questa mette in atto, sia necessariamente condotta a confrontarsi con le circostanze di natura eminentemente pratica e concreta che la tecnologia stessa viene di volta in volta a creare: esse rappresentano delle sfide eticamente problematiche e allo stesso tempo inedite. Di queste sfide, che rientrano nel terreno di pertinenza della bioetica, ne viene presa in considerazione una in particolare, quella dell’eutanasia, la quale pone un interrogativo di fondo: la causa della vita, considerata nell’estrema circostanza del morire, deve essere patrocinata ad ogni costo, facendo uso di tutti gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione, oppure il riconoscimento della vita come valore può implicare, oltre che il dovere di tutelarla, anche il diritto di porvi fine?

La parte centrale di questo lavoro, costituita dalla seconda sezione, viene pertanto dedicata alla fondazione della teoria etica della responsabilità e ai contenuti che la caratterizzano. Nel primo capitolo, che la precede, vengono invece messe in evidenza alcune premesse teoriche che stanno a fondamento della riflessione morale di Jonas e che vengono sviluppate nelle prime due “fasi” che scandiscono il suo percorso intellettuale, rispettivamente dedicate alla

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filosofia delle religioni e all’elaborazione della biologia filosofica. L’esposizione dei nuclei teorici centrali di queste ultime è infatti funzionale a mettere in evidenza come di esse, apparentemente lontane dal terreno morale, l’etica della responsabilità costituisce per certi versi l’esito naturale.

La terza e ultima parte del lavoro, infine, mette a fuoco il passaggio dalla teorica etica jonasiana alla sua applicazione pratica, analizzando in particolare uno dei temi affrontati da Jonas in ambito bioetico, le circostanze del fine vita e l’eutanasia, quale tematica emblematica in cui confluiscono gli aspetti centrali di tutta la sua riflessione morale.

L’intento principale del lavoro è mostrare, attraverso i tre capitoli che ripercorrono le tematiche prese in esame da Jonas nel corso del suo itinerario filosofico, come in quest’ultimo sia rintracciabile un filo conduttore unitario, dalla considerazione del quale non si può prescindere affinché tale itinerario venga adeguatamente compreso in tutti i suoi aspetti e le sue sfumature: la vita in generale intesa come valore e quella umana in particolare come fonte di cura etica di tale valore.

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I

F

ORMAZIONE E BIOLOGIA FILOSOFICA

:

GENESI DELLA RIFLESSIONE ETICA IN

H

ANS

J

ONAS

1. Un itinerario filosofico sui generis

È divenuta ormai celebre in ambito filosofico l’indicazione, che Jonas formula in prima persona, della suddivisione del suo itinerario filosofico in «tre tappe». In una conferenza1 in

cui veniva invitato a parlare dell’esperienza del sapere inteso come attività che può segnare profondamente l’individuo a livello personale e scandire un’intera esistenza, è Jonas stesso infatti che si pronuncia per delineare il «cammino teoretico» della sua vita in tre fasi: «la prima – afferma – è caratterizzata dallo studio della gnosi tardo-antica sotto il segno dell’analisi esistenziale, la seconda dall’incontro con le scienze naturali nella prospettiva di una filosofia dell’organismo, la terza da una svolta che mi ha portato dalla filosofia teoretica alla filosofia pratica, ossia all’etica»2.

Tale divisione riassume e delinea in effetti l’intero percorso intellettuale di Jonas, dai primi interessi coltivati negli anni della sua formazione agli ulteriori sviluppi, a cui conducono, in un primo momento, le riflessioni critiche formulate a partire dai risultati teorici iniziali, e, in seconda battuta, le elaborazioni teoretiche più sistematiche – per quanto possa risultare problematico parlare, in riferimento al pensiero jonasiano, di una qualche sistematicità.

Jonas, ebreo tedesco nato agli albori del Novecento a Mönchengladbach, città della Germania, intraprende gli studi filosofici e si forma con Husserl, Heidegger e Bultmann, figure che egli stesso definisce “grandi maestri”, ad indicare l’influenza decisiva che hanno avuto per lui sia a livello personale che di pensiero3.

1 Si tratta della conferenza tenuta il 15-10-1986 per il seicentenario dell’Università “Karl Ruprecht” di

Heidelberg, pubblicata per la prima volta nel 1987 ed edita in italiano in H. Jonas, Scienza come esperienza personale, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 9-34 (ed. or. Wissenschaft als persönliches Erlebnis, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1987).

2 Ivi, p. 13.

3 Per un’indicazione circa le prime letture, i primi interessi filosofici e teorici, gli anni della formazione di Jonas

e il suo rapporto con le personalità filosofiche di cui fu allievo, cfr., oltre all’appena citato Scienza come esperienza personale (in particolare le pp. 14-19), anche H. Jonas, Memorie, il melangolo, Genova 2003, in particolare le pp. 23-107 (ed. or. Erinnerungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 2003). Quest’ultimo volume risulta particolarmente

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La sua vita, come anche la sua esperienza filosofica, non rimane però a lungo legata alla Germania. Dopo i primi anni di formazione in terra tedesca, i tragici avvenimenti storici della prima metà del Novecento lo costringono a spostarsi dal suo Paese natale, e a dare inizio così, a partire dagli anni Trenta, a una serie di trasferimenti che culmineranno con la sua emigrazione prima in Canada, e poi, da ultimo, negli Stati Uniti. Così i diversi contesti geografici, dove di volta in volta si stabilisce, costituiscono – in virtù anche dell’influenza dei contatti intellettuali che non mancava mai di intrattenere ovunque si trovasse – i differenti sfondi culturali entro i quali prendono forma le sue riflessioni ed elaborazioni teoriche, che assumono ad oggetto d’indagine contenuti specifici e istanze sempre nuove.

Infatti è nel nuovo continente, in cui Jonas giunge agli inizi degli anni Cinquanta4, che

avviene la prima grande svolta nel suo pensiero: è questo il momento in cui inizia a dedicarsi a uno studio della natura in chiave filosofica5, anche alla luce degli esiti ultimi a

cui avevano condotto gli studi della «prima fase». Questa nuova indagine poi, insieme alle frequentazioni di Jonas, alle sue attività professionali e ai suoi interessi personali, lo farà approdare all’ambito etico, dando un ulteriore e definitivo cambiamento di direzione alla sua attività intellettuale.

L’impegno etico di Jonas, con le sue proposte del tutto originali e atipiche – rispetto sia alla storia della filosofia morale in generale, sia alle diverse correnti di pensiero del Novecento in particolare –, con le sue posizioni “forti” ma non “etichettabili”, con i suoi intenti pragmatici e politici, costituisce il patrimonio filosofico che gli viene maggiormente riconosciuto. Tuttavia il prezioso tributo di Jonas alla filosofia, per quanto fondamentale in ambito etico, non si può ridurre soltanto al terreno morale.

Le indagini condotte da questo autore toccano infatti diversi ambiti, e in ciascuno di essi si contraddistinguono per originalità e innovatività. Non solo: il pensiero jonasiano contiene tanto elementi ereditati da singoli pensatori quanto aspetti acquisiti da differenti correnti filosofiche, ma assume toni e posizioni così peculiari da non poter essere identificabile con nessuno di essi, poiché spesso se ne distanzia per molti aspetti oppure ne attua una sintesi

significativo in quanto in esso la vicenda biografica di Jonas è delineata alla luce di racconti ricostruiti in base alla sua diretta testimonianza: è Jonas stesso, infatti, che qui tesse le fila della sua storia, intrecciando motivi personali, vissuti biografici e pensieri filosofici. Il testo pertanto permette, da un lato, di ripercorrere quasi in maniera romanzata l’intero arco della vita di questo autore, ma, dall’altro, anche di accedere alle sue riflessioni teoriche da un punto di vista inedito e privilegiato, quello del pensiero filosofico inscindibile dalla persona che è stata.

4 Cfr. H. Jonas, Memorie, cit., pp. 198-240.

5 «La natura – afferma lo stesso Jonas in riferimento a questa svolta nel suo pensiero – non era mai comparsa sul

mio cammino di studi. Fu appunto il nuovo ambiente spirituale angloamericano che contribuì a farmi sentire quella lacuna e mi stimolò a cercare di colmarla» (H. Jonas, Scienza come esperienza personale, cit., p. 22).

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del tutto inedita6. È anche per questo motivo, fra gli altri, che non è possibile dare a Jonas

una collocazione definita all’interno del panorama della filosofia contemporanea, che per consolidata consuetudine viene suddivisa oggi in due “schieramenti” distinti: la filosofia continentale, a cui comunque egli appartiene in virtù della sua formazione, ma dalla quale, per ragioni soprattutto teoriche, si allontana gradualmente, e la filosofia analitica, di matrice anglosassone e con la quale pure entra in contatto durante la sua permanenza in ambiente nordamericano7. Se tuttavia anche da quest’ultima e dall’approccio logico-analitico che la

caratterizza Jonas prende le distanze, è vero pure che il costante fermento in ambito scientifico legato a questo contesto gli permette di approcciarsi ai contenuti propri delle scienze naturali utilizzando strumenti filosofici. Il risultato è l’esplorazione di ambiti desueti per la filosofia, come la natura e la biologia, con l’individuazione, da un lato, di orizzonti speculativi inediti, e, dall’altro, della possibilità di restituire risposte nuove anche a quesiti ritenuti da sempre fondamentali nella tradizione filosofica.

Ma la complessità del pensiero di Jonas non si esaurisce in questo: gli stessi tre momenti che scandiscono il suo percorso, pur sembrando momenti a sé stanti, sono in realtà profondamente interconnessi. Le “tre tappe” del suo cammino teoretico sono da intendersi infatti come “stazioni” di un percorso unitario, tutte contrassegnate, a ben vedere, da un medesimo filo conduttore8: l’interesse per l’essere umano a partire dalla ricerca di un senso

e di un significato attribuibili alle varie manifestazioni dell’essere in generale e dell’esistere e dell’agire dell’uomo in particolare, e, alla luce di tale interesse di fondo, il tentativo di restituire una risposta positiva a quel vuoto di valori che porta il nome di nichilismo e che tragicamente è giunto a contraddistinguere la società contemporanea, ma – come Jonas ha modo di dimostrare – non solo.

In ultimo, è possibile affermare che il filo di Arianna che guida Jonas dal principio del suo cammino, sebbene in maniera non sempre immediatamente evidente, è la metafisica. Il

6 Per un maggiore approfondimento di questo aspetto cfr. C. Bonaldi, Introduzione, in K.-O. Apel, P. Becchi, P.

Ricoeur, Hans Jonas. Il filosofo e la responsabilità, AlboVersorio, Milano 2004, pp. 13-19.

7 Cfr. P. Becchi, L’itinerario filosofico di Hans Jonas. Stazioni di un percorso, in ivi, pp. 22-23.

8 Cfr. in proposito l’Introduzione di C. Bonaldi, Jonas, Carocci, Roma 2009. In particolare, a tal proposito

Bonaldi sostiene che il percorso teorico svolto da Jonas, «una volta chiari l’intenzione da cui è animato e l’obiettivo che intende perseguire, non può che apparire come dotato di una sua intrinseca unità» (ivi, p. 10). D’altra parte, è Jonas stesso nella Premessa a una raccolta di saggi appartenenti a diversi momenti sia teorici che biografici, nella quale quindi vengono affrontate tematiche apparentemente molto differenti tra loro, a giustificare il senso globale del volume prospettando «l’esistenza di un intento filosofico unitario» e a chiarire la connessione teorica che sussiste tra i diversi momenti della sua opera intellettuale, nonché tra i temi fondamentali che in essa vengono trattati: H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, il Mulino, Bologna 1991, pp. 27-37 (ed. or. Philosophical Essays. From Ancient Creed to Technological Man, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1974).

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ritorno alla metafisica in generale – significativamente indicato da Jonas come un valore etico9 –, e all’ontologia in particolare, viene a delinearsi infatti come la cifra specifica della

filosofia jonasiana. Essa costituisce la chiave per risolvere sia problematiche epistemologiche – poiché, secondo Jonas, queste nascono fondamentalmente da un’impostazione in ultima analisi epistemologico-metafisica –, che morali – in quanto l’agire dell’uomo chiama necessariamente in causa questioni ultime e radicali, appunto metafisiche, come il senso dell’essere e il nostro rapporto con esso, nonché un “dove”, per così dire, “ontologico” nel quale individuare i valori che possano orientare il nostro modo di comportarci e che, nel contempo, non siano soggetti ad alcun tipo di relatività.

Ma anche con la proposta di un ritorno alla metafisica e con il ruolo centrale che viene attribuito ad essa nella sua teoria etica, Jonas risulta un pensatore atipico, e, in definitiva, controcorrente per il suo tempo. Tale proposta avviene infatti in un momento storico-disciplinare in cui la metafisica stessa è esclusa in quanto tale dall’ambito scientifico-filosofico, poiché tacciata di inattendibilità o, nel migliore dei casi, di essere antiquata. A maggior ragione, quindi, un ritorno alla metafisica in ambito etico non può che risultare inconcepibile e inadeguato. Ma per Jonas ripristinare la validità di questa disciplina non costituisce una mera questione teorica o di principio: il ritorno a temi metafisici risulta essere funzionale ad affrontare problematiche di estrema attualità, sia in ambito teoretico che pratico10.

Alla luce di tutto ciò, del percorso effettuato da Jonas, della peculiarità del suo approccio in ambito filosofico, di alcuni motivi di fondo che attraversano tutto il suo pensiero, è possibile asserire che l’etica costituisce non una singola fase del pensiero di Jonas, ma significativamente l’ultima, nel senso di essere il naturale esito di alcuni nodi cruciali della sua riflessione, che ne fanno pertanto da indispensabile premessa, almeno per comprendere in maniera profonda e completa la sua teoria morale.

L’etica di Jonas, divenuta nota come etica della responsabilità, assume certo propri e specifici connotati, che ne fanno un’elaborazione che può anche essere letta in maniera

9 Cfr. H. Jonas, Alle soglie del futuro: valori di ieri e valori per il domani, in Id., Tecnica, medicina, etica,

Einaudi, Torino 1997, pp. 37-54 (ed. or. Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt a.M. 1985).

10 Scrive significativamente Bonaldi: «La sfida di Jonas – conscio di tale inattualità, rivendicata però come

necessaria – è di mostrare come solo l’argomentare metafisico nella radicalità delle domande che apre sia l’unico capace di tentare una risposta ai quesiti di fronte alla cui urgenza oggi l’uomo è posto e da cui dipende il senso del suo stesso agire» (Jonas, cit., p. 11), ma anche, si potrebbe aggiungere, del suo vivere e del suo essere.

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autonoma; tuttavia tracciare il percorso teorico che conduce ad essa e lungo il quale prende gradualmente forma è indispensabile per comprenderne il senso più completo e profondo.

Prima di esporre la proposta etica jonasiana, può essere utile pertanto ricostruire una traccia del percorso che ha portato ad essa e delle premesse teoriche da cui ha mosso.

2. Gnosticismo, esistenzialismo e nichilismo moderno

L’altro ambito di indagine, oltre a quello etico, a cui il nome di Jonas viene perlopiù ricondotto è la filosofia delle religioni, nel quale egli si è distinto per i suoi studi su un fenomeno in particolare: lo gnosticismo, un movimento religioso che si origina in epoca tardo-antica.

La peculiarità dell’operazione jonasiana in questa disciplina è consistita, anzitutto, nell’occuparsi dello gnosticismo quale fenomeno religioso molto complesso e in parte sconosciuto, e, in secondo luogo, nell’esaminarlo utilizzando i contenuti filosofici con i quali si era formato, conferendo ad essi una direzione del tutto inedita. Il motivo di fondo di questa operazione è rappresentato, infatti, da una sostanziale messa in relazione tra gnosticismo ed esistenzialismo heideggeriano, con il risultato di ottenere esiti positivi su diversi fronti: l’individuazione di quello che è per Jonas il significato più profondo dello gnosticismo, la possibilità di considerare sotto una nuova luce l’esistenzialismo stesso e, infine, attraverso questi due aspetti, l’approdo a una problematica di matrice ontologica e metafisica, e che condurrà a una riflessione in ultima analisi etica e morale.

A testimoniare che l’indagine filosofica sullo gnosticismo abbia costituito l’interesse principale dello Jonas degli inizi è una delle prime opere pubblicate, Der Begriff der

Gnosis11, scritto che riprende parte della sua dissertazione di dottorato. Ma il contributo più

significativo degli studi jonasiani sull’argomento si trova nell’opera in due volumi Gnosis

und spätantiker Geist12, nella quale Jonas elabora i contenuti più importanti relativi al suo

lavoro di interpretazione e comprensione di tale fenomeno.

11 Der Begriff der Gnosis. Inaugural-Dissertation zur Erlangung der Doktorwürde der Hohen Philosophischen

Fakultät der Philipps-Universität zu Marburg, Hubert & Co., Göttingen 1930.

12 In realtà i due volumi che compongono l’opera completa conoscono una vicenda editoriale molto diversa e

soltanto il primo di essi (Gnosis und spätantiker Geist. Teil I: Die mythologische Gnosis. Mit einer Einleitung “Zur Geschichte und Methodologie der Forshung”, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1934) viene pubblicato nella fase in cui Jonas si occupa principalmente di filosofia delle religioni. Per informazioni circa la diversa vicenda editoriale dei

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Il passo preliminare e decisivo che ha reso preziosa l’indagine sullo gnosticismo, sia di per sé che per le successive riflessioni a cui essa ha condotto, è stato, per Jonas, essere il primo studioso a ipotizzare la possibilità di una lettura unitaria di questo movimento, ovvero di individuare un principio comune cui potessero essere ricondotte tutte quelle manifestazioni spirituali che andavano genericamente sotto questo nome. Lo gnosticismo infatti, sin dalle sue origini, non ha costituito una realtà unitaria, identificabile con una cultura, un luogo geografico e una storia specifici, bensì si è sviluppato in regioni, culture, comunità sociali molto diverse ed eterogenee tra loro, dando luogo inoltre a molteplici documenti e miti religiosi che ne esprimevano i contenuti teorici. Ma Jonas matura l’intuizione che tale fenomeno, lungi dall’essere costituito meramente da una serie di manifestazioni sincretistiche, riconducibili ad esso soltanto in via del tutto generica e indicativa, avesse in sé un motivo ispiratore di fondo, un senso unitario alla luce del quale tutte queste espressioni ed esperienze potessero essere lette e nel quale esse trovassero il loro significato più proprio.

Questo senso unitario gli risulta rinvenibile e identificabile proprio grazie agli strumenti filosofici di cui è in possesso. Così, attraverso la filosofia heideggeriana e una metodologia utilizzata da Bultmann13, Jonas muove ad interpretare lo gnosticismo come un movimento

spirituale il cui significato sostanziale è quello di esprimere un determinato modo dell’uomo

due volumi si rimanda in particolare a C. Bonaldi, Jonas, cit., pp. 15-16, e a P. Becchi, L’itinerario filosofico di Hans Jonas. Stazioni di un percorso, cit., p. 26, n. 12.

13 Nel suo primo testo a stampa, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem. Eine philosophische Studie zum

pelagianischen Streit (rielaborazione di un lavoro presentato in occasione di un seminario di Bultmann, pubblicato nel 1930 e ristampato nel 1965 da Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen; trad. it. Agostino e il problema paolino della libertà, Morcelliana, Brescia 2007), e nel primo volume di Spätantiker Geist Jonas tenta una vera e propria ermeneutica del fenomeno gnostico con lo scopo di far emergere il significato razionale e filosofico di esperienze religiose quali, in particolare, quella gnostica e quella protocristiana. Il metodo principale che utilizza, sulla scia di Rudolf Bultmann – che aveva compiuto un tentativo analogo rispetto al Nuovo Testamento –, è quello dell’“ermeneutica della demitizzazione”, il quale consiste nell’interpretare istanze teologiche – miti, dogmi, immagini religiose – non in senso letterale, bensì in quanto veicolo di espressione allegorica di concetti razionali. In particolare essi sarebbero espressione di esperienze esistenziali dell’uomo, cioè la traduzione di modi dell’essere umano di interpretare e comprendere la vita e i rapporti che in essa di volta in volta si trova a stabilire con tutto ciò che ne fa parte, in ultima analisi, quindi, dell’atteggiamento spirituale di fondo che l’uomo proprio con quelle istanze religiose esprime. È in questo senso, dunque, che Jonas afferma che un dogma è l’oggettivazione di una «concreta esperienza esistenziale» (H. Jonas, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem, cit., p. 88). «Ad esempio – come spiega a tal proposito Becchi – il mito del peccato originale […] viene ricondotto da Jonas a un “fenomeno originario fondamentale”: quello dell’insufficienza umana rispetto a Dio. Il peccato originale in quanto mito viene disvelato come il prodotto dell’oggettivazione di un interno dilemma esistenziale» (P. Becchi, L’itinerario filosofico di Hans Jonas. Stazioni di un percorso, cit., p. 25). Per una panoramica generale sull’interpretazione jonasiana dello gnosticismo, nella quale giocò un ruolo decisivo il rapporto intellettuale di Jonas con Heidegger e Bultmann, si rimanda a C. Bonaldi, Jonas, cit., e al saggio di Becchi appena citato (in particolare pp. 23-31). A questo saggio si rinvia anche per un maggiore approfondimento sul metodo della demitizzazione ereditato da Bultmann.

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di concepire la propria condizione esistenziale14. Secondo Jonas, infatti, il pensiero gnostico

rappresenta «la comparsa di una visione del mondo originariamente nuova sul fondamento di un nuovo rapporto dell’essere»15, ovvero la nascita di un’inedita modalità dell’uomo di

concepire l’essere nelle principali istanze in cui si declina e con le quali egli si trova

esistenzialmente in relazione: se stesso, il mondo, Dio.

Tuttavia, se è soprattutto nel primo volume di Gnosis und spätantiker Geist che Jonas espone la sua analisi interpretativa dello gnosticismo, è invece in un saggio degli anni Cinquanta, Gnosticism und Modern Nihilism16, che egli sviluppa in maniera euristica un

paragone tra lo spirito gnostico e la filosofia heideggeriana, giungendo a una successiva evoluzione di quelle indagini che dapprima riguardavano il solo fenomeno gnostico17.

È in tal senso, pertanto, che in questo scritto si trova espresso il nucleo principale della teoria gnostica. Esso consiste sostanzialmente – come indica Jonas stesso – in una prospettiva cosmologica, teologica e antropologica insieme: «Nel suo aspetto teologico questa dottrina dice che il divino è estraneo al mondo e non partecipa all’universo fisico; che il vero Dio, assolutamente ultramondano, non viene né rivelato, né soltanto indicato attraverso il mondo ed è pertanto l’ignoto, il totalmente altro e inconoscibile secondo ogni analogia mondana. In modo corrispondente l’aspetto cosmologico della dottrina dice che il mondo è estraneo a Dio o che è l’estraneo a Dio per eccellenza; che non è una creazione della divinità, bensì quella di un principio inferiore, di cui esso esegue la legge. E l’aspetto

14 Afferma infatti Jonas in riferimento all’analisi dei documenti gnostici: «immergendomi in questi testi udivo

voci alle quali mi aveva reso sensibile l’analisi heideggeriana dell’esserci […]. Fino ad allora la ricerca era riuscita a ricostruire le divergenti origini dei singoli e molteplici motivi della polifonia gnostica, li aveva fatti risalire alle tradizioni platonica, giudaica, babilonese, egiziana e iranica, ma aveva considerato il risultato finale in cui essi confluivano come un agglomerato per così dire sincretistico. Non ci si era chiesti quale motivo peculiare si nascondesse, come principio organizzativo, dietro un tale miscuglio […]. Non si credeva affatto in un tale fondamento autonomo». Ma «se vi si prestava attenzione […] i miti […] lasciavano trasparire un’esperienza fondamentale, comune ad essi, che si poteva comprendere essendovisi obiettivata, cioè insieme rivelata e nascosta. A questi essi davano la loro risposta speculativa: la loro “gnosi”. […] Così mi si è posto […] il compito ermeneutico come una sorta di demitizzazione […] in modo tale da ricomporre in unità quella che finora era stata vista solo come molteplicità» (H. Jonas, Scienza come esperienza personale, cit., pp. 19-20).

15 H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist. Teil I, cit., p. 23.

16 H. Jonas, Gnosticism und Modern Nihilism, in «Social Research», 19 (1952), pp. 430-452. La versione tedesca

del saggio, originariamente inglese, con il titolo Gnosis, Existentialismus und Nihilismus ha conosciuto in seguito diverse pubblicazioni, sino ad ottenere la sua collocazione definitiva in Id., Organismus und Freiheit. Ansätze zu einer philosophischen Biologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1973, pp. 292-316; trad. it. Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, in Id., Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, pp. 263-284.

17 Afferma infatti Jonas all’inizio di questo scritto: «Nella seguente analisi intraprendo […] il tentativo di

tracciare un paragone fra due movimenti o punti di vista o sistemi di pensiero, che sono molto distanti tra loro nello spazio e nel tempo e a prima vista appaiono incommensurabili nella loro natura: l’uno, tratto dal più luminoso presente […] l’altro, tratto dal nebuloso passato […]. Io sostengo che abbiano qualcosa in comune e che questo qualcosa sia tale per cui la sua individuazione […] può condurre a un reciproco chiarimento di entrambi» (Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 263).

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antropologico insegna, infine, che il sé interiore dell’uomo, il pneuma (“spirito” in opposizione ad “anima” = psyche), non è parte del mondo, non appartiene alla creazione e al dominio della natura, bensì è all’interno di questo mondo tanto trascendente e inconoscibile secondo categorie mondane quanto il suo pendant extramondano, il Dio ignoto»18. La vera

essenza dell’uomo non è infatti mondana, fisica, psichica, ma divina. Divina è la sua origine, e la presenza in lui della divinità risiede nel sé interiore, nella scintilla divina o

pneûma, l’istanza presente nell’uomo e tuttavia, in quanto divina, trascendente il mondo,

come Dio. La teoria gnostica fa infatti risalire la presenza dell’uomo nel mondo a un evento precosmico, a partire dal quale la sostanza divina è soggetta a una “caduta” nella dimensione fisica e materiale19: la luce (divina), così, è gettata nelle tenebre, ossia il mondo

fisico, e di conseguenza la stessa esistenza dell’essere umano – che diviene custode privilegiato di quella scintilla – viene a caratterizzarsi come condizione di gettatezza e di alienazione, in quanto egli è destinato a vivere un’esistenza “mondana” nella quale non può trovare spazio di espressione la sua natura più intima20.

Ora, l’individuazione degli aspetti essenziali della dottrina gnostica pone in evidenza, anche in questa sede, come il contenuto di questa sia in analogia con l’interpretazione heideggeriana dell’esistenza dell’uomo – il Dasein, l’“esserci” – e affine alle categorie che Heidegger utilizza in vista dell’analisi esistenziale dell’esserci stesso: concetti come “essere-gettato”, “essere-nel-mondo”, “angoscia”, “autenticità” risultano corrispondenti a quanto esprime la mitologia gnostica21.

Ma tale analogia, in ultima analisi, è indice di un’ulteriore fondamentale affinità: entrambe le prospettive – sebbene a partire da un quadro teorico diverso – esprimono una visione esistenziale e una condizione umana connotabili come “negative”. Infatti, così come l’ermeneutica heideggeriana è volta a porre in evidenza la condizione di inautenticità e di angoscia che caratterizza l’esistenza dell’uomo, anche lo gnosticismo risulta essere espressione di una condizione umana di smarrimento e di crisi: quella crisi che, propriamente, caratterizza l’uomo nella Tarda Antichità.

18 Ivi, p. 270.

19 Cfr. C. Bonaldi, Jonas, cit., pp. 45, 48.

20 «La vita è gettata nel mondo, la luce nelle tenebre, l’anima nel corpo. Esso [l’“esser-gettato”] esprime la

violenza che mi è stata fatta, la quale mi ha fatto essere dove sono e cosa sono senza interpellarmi, la passività del mio trovarmi nel mondo, che non sono stato io a fare e la cui legge non è la mia» (H. Jonas, Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 280).

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A ben vedere, infatti, la dottrina gnostica rappresenta non soltanto l’espressione di una specifica visione del mondo, bensì di una visione che si pone come nuova rispetto a quella del passato e nella quale, in particolare, vengono decisamente messe in crisi le idee di “mondo”, di “uomo” e di “Dio” – e quella del loro reciproco rapporto – che sottendevano la percezione dell’essere caratteristica della mentalità classica22: nella visione gnostica il

mondo non è più kósmos, ordine e misura, un universo nel quale l’essere umano è armonicamente inserito; esso non rappresenta più la ragione logoica espressione dell’istanza divina che da sempre regge e governa l’universo, bensì il luogo del male che imprigiona l’essere umano e gli impedisce di riconoscere la sua vera essenza e ricongiungersi ad essa. L’essere umano, pertanto, non è più in armonico equilibro con la natura; in essa non si sente più “a casa propria”, bensì vive una perenne condizione di smarrimento e angoscia, da un lato perché drasticamente separato dalla sua origine e, dall’altro, perché non cosciente della propria condizione23; il principio divino, infine, non regge più l’universo, ma la sua

presenza trascende il mondo e non è più in alcun modo percepibile in esso.

È, dunque, mettendo in evidenza l’inedito significato che assumono questi concetti e il contenuto esistenziale che essi vengono a veicolare nella dottrina gnostica che emerge il tratto peculiare di fondo di quest’ultima: la struttura dell’essere, così com’è qui concepita, propriamente incarna un profondo dualismo, in quanto essa pone essere umano, natura e principio divino come istanze non solo separate ma dualisticamente contrapposte. In sostanza, dunque – e questo è, in definitiva, il tratto essenziale e comune a tutte le dottrine gnostiche individuato da Jonas –, lo gnosticismo porta con sé un radicale dualismo: un rigido dualismo divide mondo e Dio, poiché questi non hanno più nulla in comune, a partire dalla loro stessa origine, e, pertanto, sono essenzialmente antitetici; dualistico è il rapporto tra uomo e mondo, nella misura in cui l’essere umano è costretto a vivere in esso come in una prigione da cui aspira a liberarsi. Rimane un legame tra essere umano e Dio, costituiti

22 Come dichiara lo stesso Jonas: «il motivo centrale della mia interpretazione della Gnosi» era «dimostrare che lì

si affermava una nuova coscienza che a sua volta metteva in luce differenze davvero decisive rispetto a quella classica antica» (H. Jonas, Memorie, cit., p. 125).

23 Scrive infatti Jonas in un altro scritto che muove a delineare il fenomeno gnostico nei suoi contenuti teorici

essenziali: «lo strumento principale di questa prigionia è l’“ignoranza” attivamente perseguita e mantenuta, cioè l’alienazione dell’io da se stesso come sua condizione prevalente, “naturale”» (H. Jonas, La sindrome gnostica: una tipologia del pensiero, dell’immaginazione e dell’atteggiamento spirituale, in Id., Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, cit., p. 384). Infatti, il primo fondamentale passo per l’uomo per liberarsi dalla propria condizione di prigionia consiste nella stessa presa di consapevolezza della condizione di “schiavitù” in cui si trova costretto e, successivamente, nella vera e propria conoscenza della verità che sta a fondamento della sua esistenza: «il principale strumento di liberazione […] è la comunicazione della conoscenza» (ibidem).

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dalla stessa “sostanza”24, e tuttavia comunque profondamente separati dal mondo, il quale

tiene perennemente in scacco l’uomo, al punto da aver del tutto adombrato la sua vera natura25.

C’è una via di salvezza per l’essere umano: la “gnosi”, la conoscenza della propria condizione, il tentativo di vivere un’esistenza tesa ad emanciparsene e a fare ritorno alla propria origine divina, distaccandosi gradualmente dalla prigione fisica e da tutto ciò che di materiale lo allontana dalla propria essenza. Tuttavia, questo processo salvifico, di “rinascita”, rappresenta secondo Jonas non la risoluzione del dualismo in un’eventuale ritrovata armonia e unità con il tutto, bensì un superamento volto a risolversi in una definitiva rottura, in quanto consiste in un percorso che ha come principale obiettivo l’abbandono – la totale liberazione – da parte dell’uomo della propria condizione terrena26.

Ecco allora che, in questa prospettiva, l’esperienza esistenziale mondana viene a essere come svuotata di qualsiasi significato: i rapporti tra uomo e mondo e tra mondo e Dio perdono ogni possibile senso immanente; ciò che conta è il solo ricongiungimento della scintilla divina presente nell’uomo con il Dio dal quale discende, e, in relazione a ciò, il definitivo distacco da tutto quello che non è trascendente e ultramondano. In conclusione dunque, la dottrina gnostica, tanto nell’interpretazione della condizione esistenziale dell’uomo, quanto nell’indicazione di quello che deve essere il fine ultimo della stessa esistenza umana, teorizza un sostanziale acosmismo, ovvero un’insuperabile separazione tra mondo e uomo, separazione che trova la sua principale ragion d’essere, in ultima analisi, in una caratterizzazione assolutamente dispregiativa del primo. Il mondo è etichettato irrimediabilmente come luogo di alienazione, di smarrimento, di “tenebre”, a cui la luce divina e l’essere umano, che discende da quest’ultima e che ne porta esclusiva testimonianza, sono diametralmente opposti.

Le implicazioni dell’acosmismo gnostico – ed è questo l’aspetto più rilevante per Jonas – hanno però una portata tale da eccedere il solo ambito teorico: se tradotto in atteggiamento

24 È Jonas stesso, in riferimento al rapporto tra l’«io più intimo dell’uomo» e Dio, a parlare di «consustanzialità»

(ibidem).

25 Cfr. H. Jonas, Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 269, nonché Id., Dalla fede antica all’uomo

tecnologico. Saggi filosofici, cit., pp. 379-380.

26 «Divenendo consapevole di se stesso, il sé scopre al contempo che non si appartiene realmente […]. La

conoscenza, la gnosi, può liberare l’uomo da questa servitù. Ma poiché il cosmo è opposto alla vita e allo spirito, la conoscenza salvifica non può mirare a inserirsi nel tutto cosmico e approvare la sua legge, come faceva la saggezza stoica […]. Per gli gnostici, al contrario, l’estraniamento fra uomo e cosmo doveva essere spinto all’estremo per la redenzione del sé interiore, che solo così può giungere a sé. Il mondo deve essere superato» (H. Jonas, Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 272).

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concreto, infatti, tale acosmismo viene a condurre a delle conseguenze pratiche ed etiche estremamente negative e assolutamente deprecabili. Che cosa ne è infatti, in questa visione, dell’esperienza che l’essere umano fa del mondo? Che cosa ne è del valore della sua costituzione – che pur sussiste – fisica, materiale, psicologica? Che cosa ne è, in definitiva, della morale in un mondo in cui non ha più importanza il rapporto con il mondo stesso, il nostro modo di agire in esso e, implicitamente, il nostro comportamento anche in relazione agli altri esseri viventi? Che cosa ne è, infine, della possibilità di valori che orientino e guidino l’uomo, nella misura in cui egli è situato in un mondo a cui l’istanza divina – da sempre rappresentazione suprema di valori trascendenti –, è estranea e del quale non costituisce più l’origine e la ragion d’essere?

L’assenza di un principio divino nel mondo, per quanto non escluso in assoluto dall’orizzonte ontologico, la riduzione del mondo a istanza con cui siamo soltanto in contrapposizione, la “tendenza demondizzante”27 a cui induce la teoria gnostica, invitando

l’essere umano ad emanciparsi dal mondo fisico, sfociano per Jonas, in definitiva, in una forma di nichilismo, che – pur lasciando aperto uno spiraglio per l’uomo per salvarsi e aspirare al ritorno a un’origine più nobile – di fatto rende lecito l’abbandono nel mondo di qualsiasi morale, di ogni norma pratica, del rispetto di una qualche legge, cosmica, mondana o umana che sia.

A tutto questo si riferisce Jonas quando parla di nichilismo gnostico, al fatto cioè che l’atteggiamento gnostico, con la dottrina che ne sta a fondamento, viene a legittimare, in ultimo, l’assenza di una qualsiasi morale e, di conseguenza, un agire arbitrario e anormativo, e, dunque, una qualsiasi forma di abuso della libertà28. Più precisamente, con la

visione gnostica «la negatività è volta in principio di prassi»29, il che significa: non c’è più

spazio, nel mondo, per un discernimento da parte dell’uomo di bene e di male, per la differenza tra giusto e sbagliato, perché tale differenza «è stata sommersa nell’indifferenza essenziale di tutto ciò che è cosmico nei confronti del destino dell’io acosmico»30; non c’è

un corrispettivo mondano – dato che l’“essere-nel-mondo” è stato privato di qualsiasi valore

27 Cfr. C. Bonadi, Jonas, cit., p. 44.

28 La diretta conseguenza pratica di questa dottrina – spiega infatti Jonas – può essere «libertina o ascetica», ma

«in ogni caso si tratta di vita al di fuori della norma oggettiva»; «libertà attraverso abuso e libertà attraverso non uso del regno naturale sono così solo modi alternativi di esprimersi del medesimo acosmismo» (H. Jonas, Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 278).

29 H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino 1995, p. 286 (ed. or. The Gnostic Religion. The Message of the Alien God

and the Beginnins of Christanity, Beacon Press, Boston 1963).

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– di ciò che il soggetto può fare per migliorare e nobilitare la propria condizione terrena; tale condizione viene semplicemente negata. Il dualismo anticosmico, pertanto, svaluta la mondanità come luogo di realizzazione concreta dell’umanità, con la conseguenza di negare la stessa ragion d’essere di qualsiasi concetto morale o normativo31.

La presa d’atto di una deriva nichilista del pensiero gnostico, a cui conduce propriamente il suo fondamento dualistico, viene a costituire così per Jonas il risultato «filosoficamente importante»32 di tutta la sua indagine sullo gnosticismo, poiché in essa individua un tratto

che caratterizza in maniera essenziale anche l’epoca moderna. Infatti – dice Jonas – la «crisi di comprensione di sé e dell’essere da parte dell’uomo» che ha mostrato lo gnosticismo è equiparabile alla «crisi del nostro stesso rapporto col mondo»33, la crisi di un’epoca, in

ultima analisi, che ha proprio nel nichilismo il suo tratto peculiare.

In tale presa d’atto si situa così il passaggio teorico in virtù del quale, nell’indagine jonasiana, diviene ora la modernità stessa – con le sue più proprie manifestazioni intellettuali e spirituali, prime fra tutte l’esistenzialismo – l’oggetto specifico di indagine: «La serratura diventa chiave e la chiave diventa serratura», afferma Jonas; la “direzione interpretativa” si inverte, e il “circolo ermeneutico” si chiude. Ovvero: «la lettura “esistenzialista” della gnosi […] invita al tentativo di una lettura “gnostica” dell’esistenzialismo come suo naturale pendant»34. Difatti, se ciò che ha dischiuso il

confronto con il fenomeno gnostico è, in ultima analisi, una certa “attitudine” nichilista, quale aspetto implicito ma centrale della condizione umana che tale fenomeno esprime, nella misura in cui questa stessa attitudine costituisce un aspetto caratteristico, potremmo dire ormai onnipervasivo, dell’epoca contemporanea, gli elementi teorici emersi a partire dall’indagine appena compiuta possono aiutare a fare nuova luce proprio su quei contenuti filosofici dai quali tale indagine ha preso le mosse e che manifestano emblematicamente lo

31 Di qui la trasformazione – che Jonas critica fortemente – del concetto greco di areté (virtù) che perde il suo

significato morale (e politico) di compimento concreto nel mondo dell’umanità dell’uomo attraverso l’agire, per caratterizzarsi in senso esclusivamente autoreferenziale e individualistico, cioè come autorealizzazione extramondana. Per questo aspetto, cfr. in particolare ivi, pp. 273-275.

32 H. Jonas, Scienza come esperienza personale, cit., p. 20.

33 Ivi, pp. 20-21. Infatti, commenta significativamente qui Jonas: «anche noi un po’ sapevamo cosa fosse

l’alienazione».

34 H. Jonas, Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, cit., p. 264. Così Jonas spiega il “passaggio” teorico dallo

gnosticismo all’esistenzialismo: «Quando tanti anni fa mi rivolsi allo studio della gnosi, trovai che i punti di vista, l’“ottica” per così dire, che avevo acquisito alla scuola di Heidegger, mi mettevano in grado di vedere aspetti del pensiero gnostico che sino ad allora non erano stati visti. […] Quando poi, dopo un lungo soggiorno in quelle terre lontane, tornai alla mia, sulla scena della filosofia contemporanea, trovai che ciò che avevo imparato là fuori mi faceva ora comprendere meglio i lidi da cui ero partito. La lunga consuetudine con il nichilismo antico si dimostrò […] un aiuto nel determinare e inquadrare il senso del nichilismo moderno: esattamente come quest’ultimo mi aveva equipaggiato originariamente per la scoperta del suo oscuro cugino nel passato» (ivi, p. 263).

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“spirito” del tempo che stiamo vivendo. Un compito filosofico, questo, che, proprio per la prossimità e la tangibilità del suo tema, si mostra pertanto in tutta la sua urgenza e necessità. L’«inquietante fenomeno chiamato nichilismo»35 costituisce infatti l’indiscusso

protagonista della nostra epoca, una presenza il cui annuncio si trova espresso nella celebre affermazione nietzscheana «Dio è morto» e che, dal momento in cui è stata proclamata, è divenuta sempre più imperante. Ma ciò che questa presenza – o, meglio, profonda assenza – indica non è tanto, per così dire, un vuoto “teologico”, cioè il solo venir meno di un’istanza divina cui fare rifermento, quanto piuttosto una condizione spirituale di smarrimento, di inquietudine, di crisi, di cui quella mancanza religiosa è simbolo e sintomo. E l’origine di tale condizione di crisi, così come era avvenuto per la lontana epoca dello gnosticismo, secondo Jonas si radica anch’essa in una determinata concezione della struttura dell’essere, delle istanze che ne fanno essenzialmente parte e, in connessione a ciò, della collocazione dell’uomo al suo interno. In una parola: nella visione ontologico-metafisica.

Artefice di questa nuova visione è la direzione che il sapere intraprende a partire dal XVII secolo, delineandosi in primo luogo come scienza, ovvero come una disciplina specifica che assume, da un lato, il mondo fisico in generale come proprio ed esclusivo oggetto di indagine e, dall’altro, una peculiare metodologia per indagarlo. In linea con questa impostazione, tale disciplina viene a costituire un’immagine della natura che la interpreta soltanto come materia estesa, governata da forze meccaniche, e in quanto tale riconducibile a sole grandezze quantificabili, attraverso le quali conoscerla. Dalla natura viene così escluso qualsiasi attributo non classificabile come “oggettivo”: istanze “spirituali”, “soggettive”, non risultano più funzionali alla conoscenza del mondo naturale e, in quanto tali – in virtù della deduzione che stabilisce l’equazione “ciò che è conoscibile” (in quanto empiricamente sperimentabile) = “ciò che è” –, non sono più attribuibili ad esso. L’universo fisico, del quale la nuova scienza viene a scoprire e proclamare l’immensità, viene così anch’esso concepito come regolato da leggi puramente meccaniche; la sua origine, come anche lo sviluppo di tutto ciò che esiste e vive al suo interno risultano indagabili secondo relazioni di causa-effetto, la conoscenza delle quali restituisce una mera

spiegazione del loro funzionamento, mentre la loro ragion d’essere viene interpretata in

termini casuali: ogni cosa è come è per un fortuito caso, e avrebbe potuto essere o avvenire

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diversamente. Ciò significa: alla domanda di senso sul perché delle cose viene sostituita la risposta epistemologica del come esse sono e accadono fattualmente.

La teorizzazione filosofica più eminente che viene a legittimare e nel contempo a solidarizzare con tale visione epistemologico-metafisica è la divisione cartesiana dell’essere in res extensa e res cogitans: ciò che è o è sostanza estesa, mera materia, o è sostanza

pensante, attributo ontologico, quest’ultimo, che in definitiva viene a interessare soltanto

l’uomo, il soggetto, cui quindi vengono a riguardare in modo esclusivo tutte quelle istanze e manifestazioni classificabili come “soggettive” e “spirituali”, che appunto possono appartenere soltanto al soggetto in quanto tale.

Ecco così delineata, tanto dalla prospettiva della scienza naturale, quanto da quella filosofica, una nuova e ben definita concezione della natura: ridotta a mera istanza reificata, essa può essere ora completamente dominata e manipolata a fini scientifici, e non nasconde più alcun mistero al suo interno, poiché pensata, in primo luogo, come un oggetto esteriore soltanto da indagare, e in seconda istanza come potenzialmente conoscibile in tutti i suoi aspetti.

Dunque, alla luce degli elementi teorici caratterizzanti la nuova scienza, emerge come l’impostazione epistemologica moderna non si limiti a restituire dei criteri puramente conoscitivi, atti ad indagare un ambito specifico che viene preso ad oggetto, ma vada oltre questo proposito, determinando una visione ontologica che viene a riguardare la costituzione dell’essere globalmente inteso e delle istanze coinvolte nella concezione della struttura di esso. Questo aspetto è per Jonas fondamentale poiché la portata teorica di tale processo è talmente profonda e rivoluzionaria da condizionare in maniera determinante la «situazione spirituale dell’uomo moderno»36, che pertanto proprio da questo processo si

origina.

Difatti le scoperte scientifiche e la nuova visione ontologica della natura vengono a condizionare il rapporto dell’uomo con il contesto cosmico e mondano in cui si trova situato, dando forma a un’inedita condizione esistenziale che egli comincia a sentire come propria. Alla luce delle nuove concezioni epistemologiche, infatti, l’uomo si ritrova situato in un universo che non viene concepito più come cosmo, cioè come un sistema ordinato e armonico, governato da un principio superiore e intriso di una propria ragion d’essere, ma come un meccanismo in quanto tale sì ordinato ma derivante dal puro caso e retto da leggi

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razionali ma non intelligenti37; espropriato del suo posto privilegiato al centro dell’universo,

l’essere umano è ora collocato tra gli spazi infiniti, che abita allo stesso titolo di tutti gli altri enti di natura. In questo mondo egli si sente solo, non tanto perché gli viene presentato uno smisurato scenario universale in cui è inserito, quanto perché non ha più nulla che lo tiene in una relazione sensata con tale scenario. La sua natura fisica viene a ricadere nell’ambito della necessità meccanica, a partire dall’ipotesi del suo stesso sviluppo genetico, derivante – come ogni ente di natura, secondo quanto insegnerà la teoria darwiniana – da un processo meramente casuale. In altri termini, la natura tutta si rivela essere indifferente all’intera esistenza umana, rispetto alla sua origine, al suo sviluppo, alle sue sorti. Infine, nemmeno il suo essere una res cogitans, una sostanza pensante e dotata di attributi soggettivi e spirituali, viene a costituire la condizione di possibilità di una relazione significativa con il mondo. La peculiare costituzione ontologica dell’uomo, infatti, non sembra più dire tanto della sua superiorità rispetto alla natura, e quindi di una più profonda ed esclusiva modalità di rapportarsi ad essa, quanto di una radicale diversità che segna tra di essi uno iato incolmabile38.

Ecco che – sebbene ci si trovi in un ambito completamente mutato rispetto al contesto gnostico – siamo nuovamente all’interno di un quadro teorico che ha come esito ultimo una scissione radicale tra uomo e mondo, ovvero la perdita di una relazione positiva tra l’essere umano e il contesto mondano in cui è inserito, dunque, un acosmismo antropologico.

Ma, a ben vedere, la separazione tra uomo e natura risulta essere ancora una volta la diretta conseguenza di una visione ontologica di impostazione dualistica, poiché essa deriva propriamente dalla divisione metafisica, attuata dalla scienza moderna, di materia e spirito, oggetto e soggetto, e quindi di natura e uomo, i quali vengono a rappresentare rispettivamente ciascuno dei due poli di questi binomi.

37 «Svanito è il cosmo, al cui immanente logos il mio può sentirsi affine; svanito è l’ordine del tutto, in cui

l’uomo ha il suo posto. Questo posto appare adesso come nudo e incomprensibile caso» (ivi, p. 266).

38 In altri termini, l’essere una res cogitans viene presentato nella visione ontologico-metafisica moderna come

una condizione che non si integra armonicamente nella struttura dell’essere tutto – la natura in tal senso – ma come una sorta di eccezione, tipicamente umana, che, invece di unire, separa: l’uomo «è l’unico al mondo a pensare, non perché ne è una parte, ma nonostante ciò. […] Quindi proprio ciò per cui l’uomo è superiore a tutta la natura, che lo distingue in modo esclusivo, lo spirito, non risulta più in un’integrazione superiore del suo essere nella totalità dell’essere, bensì segna al contrario l’abisso incolmabile che lo separa dal resto della realtà» (ivi, pp. 265-266). Il soggetto infatti, stando all’interpretazione cartesiana, risulta diviso al suo stesso interno tra sostanza pensante e sostanza estesa: egli è entrambe le cose, ma nel contempo esse rispondono a due ordini di realtà, per così dire, essenzialmente differenti e irriducibili l’una all’altra: in quanto res cogitans l’uomo è soggetto che pensa, che riflette, che sente, che si pone degli interrogativi di senso, sia rispetto a se stesso sia rispetto al mondo con cui è in relazione, ma in quanto res extensa egli è mero corpo sottoposto alle leggi meccaniche e necessitanti – e solo a quelle – che vigono in natura. La sua duplicità ontologica pertanto non costituisce una possibilità di relazione sensata con il mondo, poiché egli non può ritrovare nell’esterno con cui si rapporta quella componente spirituale che lo riguarda ma che non pertiene al mondo fisico.

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Se le cose stanno così, allora è possibile affermare che anche in epoca moderna una concezione teorica, la quale in particolare postula un dualismo ontologico, finisce per avere delle conseguenze pratiche e determinare un problema di senso. Se nella visione che si afferma in epoca moderna, infatti, all’uomo non rimane altro che un mondo inteso come un aggregato di materia da conoscere nel suo solo funzionamento meccanico e il cui ordinamento risponde soltanto a un criterio di accidentalità, egli non ha più modo di rinvenire in esso un significato superiore che lo sottenda e che, in quanto tale, possa restituire un «possibile sistema di riferimento»39 tanto per la comprensione del mondo

quanto di se stesso e del suo essere situato proprio in esso. L’uomo, pur rendendosi ora ben conto di com’è il mondo e di come funziona, non riesce più a comprendere perché quest’ultimo è proprio così com’è. Ma soprattutto egli non ha più la possibilità di individuare un orizzonte di senso che gli permetta di rispondere alla domanda che riguarda il suo trovarsi in esso e quindi in rapporto con esso40. Così l’estrema contingenza non solo

del contesto cosmico, ma anche della presenza umana al suo interno priva il «tutto del senso umano […] per la comprensione di noi stessi»41.

L’apice di questo processo, infine, è la scomparsa graduale di un principio divino.

In realtà, all’origine della rivoluzione scientifica moderna, l’esistenza di Dio risulta ancora ammissibile e compatibile con la nuova concezione teorica: l’universo del XVII secolo rimane un universo creato da Dio. Tuttavia, nella misura in cui si afferma l’immagine di una natura che non è più concepibile come espressione di attributi ultrasensibili e divini, ossia nella misura in cui «il mondo creato non rivela attraverso la sua disposizione l’intenzione del creatore, né la sua bontà […], né la sua saggezza […], né la sua perfezione»42, la manifestazione divina non risulta più rinvenibile nel creato e quindi

ammetterla o non ammetterla divengono due alternative equivalenti. L’uomo può ancora dirsi che il tutto e la vita sono l’esito della volontà divina, ma poiché questa volontà rimane imperscrutabile, al «perché» di questo tutto e dell’esistenza umana nel tutto egli non può in alcun modo rispondere. In altri termini, la relazione con un Dio al quale rivolgersi diviene come svuotata di significato, perché non costituisce più una dimensione della quale l’uomo può fare concreta esperienza nella sua vita. È così che Dio muore.

39 Ivi, p. 266.

40 «Mi stupisco […] di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci alcuna ragione perché sia qui piuttosto che là,

oggi piuttosto che domani» (Pascal citato da Jonas in ibidem).

41 Ibidem. 42 Ivi, p. 267.

(23)

Ma, allora, che significato ha propriamente la morte di Dio? Essa non rappresenta soltanto la rinuncia a una prospettiva religiosa, bensì la fine di ogni plausibile orizzonte di senso per l’esistenza umana, il venir meno del più elevato punto di riferimento per il vivere dell’uomo. “Morte di Dio” significa che «Dio […] ha smesso di dare una direzione alla nostra vita»43; significa, in definitiva, che non ci sono più criteri sensati, norme orientanti,

propriamente valori a cui l’uomo possa riferirsi per il suo vivere, il suo esistere, il suo agire. Per questo il senso della morte di Dio, e quindi del nichilismo che in quest’ultima trova la sua proverbiale espressione, è – come spiega Jonas riportando le parole dello stesso Nietzsche – la definitiva svalutazione dei valori supremi, cioè la morte della «morale in carne e ossa»44. «“Dio” – infatti – è il termine per designare il mondo delle idee e degli

ideali»45, cioè rappresenta quella dimensione ultrasensibile, e in quanto tale trascendente,

superiore, dalla quale i valori possano ricevere autorità e ragion d’essere, sottraendosi alla relatività del transeunte e di ciò che è umano, e quindi soltanto relativo e soggettivo. Con la scomparsa della dimensione teologica il mondo ultransensibile, che in tale dimensione trovava la sua emblematica rappresentazione, viene a perdere forza. La «morte di Dio», in ultima analisi, significa «la perdita della possibilità di valori vincolanti», ossia il venir meno della morale, di quella dimensione cioè che restituisce valori di senso aventi una validità intrinseca in quanto tali, e che risultano quindi degni di essere rispettati46. Ma dove non ci

sono più valori rimane solo un vuoto incolmabile; per questo la «morte di Dio» proclama l’imperare del nichilismo.

Ora, messa in luce la situazione in cui versa l’uomo dell’epoca moderna e chiarite le ragioni che ne stanno a fondamento è possibile per Jonas tirare le fila della sua argomentazione e trarre le conclusioni che condurranno alla sua successiva indagine.

43 Ivi, p. 275. 44 Ivi, p. 276.

45 Ibidem.

46 A questo punto è possibile notare che si tratta paradossalmente dello stesso processo che avviene nel caso della

dottrina gnostica; paradossalmente, perché, diversamente dall’ateismo moderno, quest’ultima rappresenta «l’esatto opposto di un abbandono della trascendenza» (ibidem). Tuttavia – ed è questo l’aspetto su cui intende porre l’attenzione Jonas – sebbene qui il principio divino non scompaia del tutto dallo scenario ontologico, l’assenza di una relazione positiva tra trascendenza e mondo sensibile equivale comunque al nihil: «Una trascendenza senza relazione normativa con il mondo è simile a una trascendenza che ha perso la sua forza reale», per questo il «Dio nascosto» degli gnostici rimane una «concezione nichilistica». E la conseguenza della mancanza di una relazione sperimentabile con un principio superiore – dunque l’essenza del nichilismo – è eticamente la medesima: «nessuna legge proviene da esso [da questo Dio]: nessuna per la natura e di conseguenza nessuna per l’agire umano» (ibidem). Per questo tanto il nichilismo gnostico quanto quello contemporaneo determinano entrambi la fine della morale, ovvero la «negazione di ogni carattere vincolante della legge» (ivi, p. 275).

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