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4.1 Il fondamento del dover essere nell’essere: il concetto di bene e il sì ontologico

Dimostrata l’esistenza di valori oggettivi nell’essere, in virtù della presenza di scopi in natura – sia in quanto singole finalità appartenenti agli enti organici sia in quanto struttura teleologica che sottende la natura stessa – è necessario ora indagare, al fine di fondare una teoria etica, se essi possano valere in quanto tali anche per l’uomo, ovvero non come oggetto condizionato e relativo a una valutazione di volta in volta arbitraria, bensì come istanza che obbliga al loro rispetto. Possono cioè tali valori avere, oltre a una dignità fattuale, anche una dignità etica?

In altri termini, la questione che si apre riguarda la possibilità di individuare se ciò che ha valore in sé, in quanto valore oggettivo, possa acquisire una forza oggettivamente vincolante anche per l’uomo, cioè se ciò che sussiste in quanto valore possa determinare in qualche modo anche la volontà soggettiva, in quanto questa decida di assumerlo, in virtù di una forza cogente, come principio di determinazione del proprio agire: soltanto così sarà possibile colmare il «presunto divario tra essere e dover essere»66.

Proprio alla luce dell’esigenza di chiarire la relazione tra essere e dovere, e mostrarne l’intima unione, Jonas chiama allora in causa il concetto di bene: soltanto se ciò che ha già in sé statuto di valore acquista anche il significato di bene, allora può diventare vincolante per una volontà soggettiva, poiché soltanto ciò che è bene può rimandare nel contempo a una bontà oggettiva, quindi a un valore in sé, e all’esigenza del riconoscimento di tale bontà da parte di una volontà.

Il bene, infatti, è definibile come «quella cosa la cui possibilità include l’esigenza della sua realtà», nella misura in cui però sussiste «una volontà in grado di percepire e di tradurre in atto quell’esigenza»67. Se qualcosa come il bene esiste, dunque, esso

costituisce proprio quell’istanza in grado di rimandare tanto a un’esistenza oggettiva, quella del valore, quanto a una volontà che deve assume tale valore come oggetto del proprio agire e del proprio volere. Solo il bene così può legittimare il passaggio dal valore (essere) al dover volere quel valore (dover essere), in quanto rappresenta proprio ciò che include nella sua determinazione essenziale entrambi i momenti, cioè sia quello ontologico, relativo all’essere, sia quello assiologico, relativo a ciò che deve costituire un dovere per la volontà. Infatti, secondo la definizione che ne restituisce Jonas, la condizione di possibilità del bene risiede tanto nel suo essere in quanto sussistenza oggettiva, quanto, nel contempo, nel suo dover essere in quanto valore vincolante per una volontà in grado di rispettarlo o realizzarlo come tale.

Pertanto è questa concezione di bene, contenente quindi un duplice rimando tanto al valore quanto alla volontà, tanto all’essere quanto al dover essere, che spiega anche il fondamento più proprio dell’imperativo morale: quest’ultimo non consiste nel comando che scaturisce dalla sola volontà, originandosi pertanto da se stesso e trovando in se stesso la propria ragion d’essere, bensì, pur potendo avere luogo solo se c’è una volontà cui si rivolge, esso si origina primariamente «dalla pretesa immanente di un bene-in-sé alla propria realtà»68.

Ma se la stessa condizione di possibilità del dovere è l’esistenza di un’istanza come il bene in sé che in quanto tale, a partire dal proprio essere, può esercitare sulla volontà un potere, il primo passo della fondazione etica sarà allora indagare se qualcosa come il bene in sé esista.

Ora, l’esistenza del valore oggettivo è stata desunta da Jonas dal sussistere in natura di scopi: ogni ente vivente realizza fini che pertengono esclusivamente al proprio essere, ha cioè degli scopi propri, e in quanto tali questi ultimi costituiscono anche dei valori. Tuttavia essi non costituiscono ancora dei valori per me, cioè per una qualche soggettività, dunque non costituiscono ancora un bene. Le cose però stanno

67 Ibidem (corsivi miei). 68 Ibidem.

diversamente se si prende in considerazione la stessa capacità in generale, propria di tutti gli esseri viventi, di avere degli scopi: proprio in essa è possibile, secondo Jonas, scorgere un bene in sé. Di più: l’enunciato che afferma la possibilità di individuare un bene in sé nella stessa capacità di avere scopi, propria degli esseri viventi, risulta vero in forza di un’evidenza che traspare dalla stessa testimonianza dell’essere, e per questo è definibile come «assioma ontologico»69.

Infatti, la capacità di avere degli scopi propria dell’essere vivente manifesta un costante tendere dell’essere stesso alla propria autoaffermazione: nel realizzare di volta in volta scopi propri particolari, l’essere mostra una costante e intrinseca tensione alla realizzazione di se stesso. Ogni essere dunque è in quanto affermazione dinamica del proprio esistere, in quanto affermazione del proprio stesso essere. Ma in tale affermazione, che consiste propriamente nella tensione costante verso la propria conservazione, verso la propria realizzazione, in definitiva verso il mantenimento della propria esistenza, emerge in maniera evidente come l’essere non sia indifferente nei confronti del suo stesso essere, ma nutra per quest’ultimo un vero e proprio interesse: «che per l’essere qualcosa conti, quantomeno se stesso – afferma pertanto Jonas –, è la prima cosa che possiamo apprendere dalla presenza in esso degli scopi»70.

L’essere vivente, in una costitutiva condizione di esistenza in cui si confronta perennemente con la possibilità di non essere, di perire, di non riuscire a mantenersi in vita – condizione in virtù della quale, in definitiva, acquista senso la stessa tendenza a continuare ad essere –, pronuncia di volta in volta il proprio verdetto nei confronti di questa condizione di relazione dinamica tra l’essere e il non essere, pronuncia cioè quello che Jonas chiama il «sì ontologico». Nel costante affermare il proprio sì nei confronti della vita – o, viceversa, pronunciare un no attivo al non-essere –, l’essere manifesta un interesse nei confronti del proprio essere71. E in quanto tale, in quanto

interesse, in quanto tendenza ad essere piuttosto che non essere, in quanto affermazione

69 Ivi, p. 102. Si tratta di quello che Jonas definisce «l’enunciato dell’autoaccreditazione (Selbstbeglaubigung)

dello scopo stesso nell’essere» (ibidem).

70 Ivi, p. 103. In particolare, poi, «l’interesse si manifesta nell’intensità dei fini autonomi degli esseri viventi, nei

quali il fine naturale si soggettivizza in misura crescente, ossia diventa proprio di colui che di volta in volta lo realizza. In questo senso, ogni essere che sente e ambisce non è soltanto uno scopo della natura, ma è anche un fine in se stesso, e cioè il proprio fine» (ivi, p. 104).

71 Il verdetto ontologico positivo degli esseri viventi, anzi, è intrinseco all’essere stesso degli enti, al loro

sussistere: «la vita in quanto tale, nel pericolo del non-essere che è immanente alla sua essenza, è l’espressione di quella scelta» (ivi, p. 104).

di se stesso rispetto alla possibilità di non esistere più, esso è valore. Per questo Jonas afferma che «il semplice fatto che l’essere non sia indifferente verso se stesso fa della sua differenza rispetto al non-essere il valore fondamentale di tutti i valori»72.

È dunque, in ultima analisi, la stessa autoaffermazione ontologica che si manifesta in maniera evidente in ogni essere vivente a costituire un bene in sé.

Tuttavia, mentre negli esseri viventi tale autoaffermazione è, per così dire, naturale, ragion per cui non ha senso parlare – relativamente al loro “comportamento” o funzionamento – di un dover voler fare in modo che tale essere si attui73, le cose stanno

diversamente quando si tratta dell’agire umano. In quest’ultimo, infatti, si realizza il massimo grado ontologico di libertà74 e quindi, con essa, si origina un potere di azione

inedito75. Ciò significa che nell’uomo l’attuazione delle finalità oggettive naturali, per

ciò che riguarda la sua possibilità di interferire con esse76, non è immediatamente

vincolante, in quanto egli può tanto aderire all’affermazione ontologica del vivente quanto decidere di negarla, e negarla addirittura fino alle estreme conseguenze, ovvero farlo perire, distruggerlo.

È qui che, pertanto, viene chiamato in causa il dovere: «l’uomo deve far sua nella propria volontà questa affermazione e imporre alle proprie facoltà la negazione del non- essere»77. Detto altrimenti: il sì alla vita che opera ciecamente negli enti di natura deve

acquisire una forza vincolante nella libertà cosciente dell’uomo.

72 Ivi, p. 103.

73 Infatti «la finalità data dalla natura provvede di per sé all’adempimento della propria pretesa di essere, che si

trova pertanto in buone mani» (ivi, p. 105).

74 Che la libertà non sia un’istanza appartenente alla sola natura umana costituisce uno dei nuclei teorici

principali del pensiero di Jonas, elaborato soprattutto nella sua biologia filosofica e nell’opera il cui titolo – Organismo e libertà (ed. cit.) – accosta emblematicamente il termine libertà all’organismo vivente in generale. La libertà, infatti, costituisce un vero e proprio principio ontologico, presente, in diverse forme e gradi, in tutti gli esseri viventi. Nell’uomo, poi, tale principio ontologico – in virtù di una gerarchia dell’essere e di una struttura teleologica che sottende quest’ultimo – raggiunge il massimo grado di manifestazione e realizzazione. In proposito si rimanda a quanto detto nel primo capitolo di questo lavoro, alle pp. 31-35.

75 In linea con le riflessioni da cui si origina tutta la sua indagine etica, Jonas non manca di sottolineare anche in

questo passaggio teorico come il potere che detiene l’uomo, oggi più che mai nel corso della sua storia, gli derivi dalla conoscenza. Come si è visto all’inizio di questo capitolo, infatti, il sapere moderno è per l’uomo un potere, potere di intervenire praticamente, cioè in forma di agire, nella natura. È proprio questo potere di fare, che si unisce alla libertà dell’uomo di metterlo in atto secondo un arbitrio potenzialmente svincolato da qualsiasi limite, che deve essere sottoposto a norme etiche.

76 Il riferimento implicito è quindi alla scienza moderna e al suo potere di intervenire nella natura, di manipolarla

e dominarla.

Si apre dunque la problematica di come la volontà umana possa aderire a tale precetto normativo: come è possibile che la volontà si determini a partire da questo dovere? Come si può, cioè, spiegare legittimamente e fondare la possibilità del bene in sé di determinare la volontà umana? Come può il bene in sé, in ultima analisi lo stesso essere, imporre un dovere alla volontà?

Ma, come mette in evidenza Jonas, è proprio il passaggio dal volere al dover essere a costituire il vero e proprio punto critico della teoria morale78. Infatti, «dall’essere-in-sé

del valore e del bene […] vi è pur sempre ancora un passo verso il compito imposto qui e ora all’agire come suo proprio»79, il passo verso la fondazione di un dovere che venga

riconosciuto dall’uomo in quanto tale, vincolando così la libertà e il potere di agire arbitrariamente.

È così che si rende necessario, per Jonas, mostrare come possa avvenire tale passaggio e come sia possibile l’attuazione del dovere nell’uomo, nel suo essere allo stesso tempo soggetto del più alto grado ontologico di libertà e soggetto al vincolo del dovere morale. È proprio affrontando questo nodo teorico che si entra nel cuore della teoria etica jonasiana, la quale pone in maniera inedita al centro della morale il senso di responsabilità.

4.2 Il senso di responsabilità

Chiedersi come possa avvenire il passaggio dall’essere al dover essere o, meglio, dal volere al dover essere, significa nello specifico chiedersi come sia possibile che l’istanza causale soggettiva dell’agire, ovvero la volontà, decida, nella sua costitutiva libertà, di determinarsi proprio secondo dovere, di conformarsi a una norma. Tale questione, in definitiva di cruciale importanza all’interno di una teoria morale, è infatti funzionale a fare luce sul fenomeno morale stesso in generale: come è possibile che si dia un agire morale? Come avviene l’azione etica? Quali sono propriamente le istanze coinvolte? E, soprattutto, che cosa determina la volontà? Che cosa fa sì che essa si

obblighi a determinarsi secondo un certo dovere?

78 Cfr. ibidem. 79 Ivi, p. 106.

Già da quanto indagato finora da Jonas è emerso come la possibilità che si dia un agire etico riguardi fondamentalmente la stessa possibilità che la volontà libera dell’uomo possa in qualche modo essere messa in relazione e, nello specifico, essere determinata dall’oggettività dell’essere in quanto valore. Ciò significa sostanzialmente che l’agire morale viene a riguardare la potenziale unione di un momento oggettivo – che, come si è visto, riguarda l’essere stesso – e un momento soggettivo – la volontà che si determina secondo il dover essere.

È alla luce di questa impostazione teorica preliminare che è dunque possibile comprendere l’interpretazione jonasiana del fenomeno morale stesso. Quest’ultimo, secondo Jonas, poggia infatti sull’imprescindibile unione tra un aspetto oggettivo e un aspetto soggettivo: ciò che è bene, e pertanto costituisce un dovere per l’uomo, deve, affinché ci sia un agire morale, e dunque un’etica, anche poter determinare la volontà. È chiaro dunque come il rapporto tra questi due aspetti sia di duplice e reciproco rimando: se da un lato il dovere deve potersi imporre, dall’altro la volontà deve poter essere in grado di recepire tale imposizione; e se la volontà deve sottomettersi a un dovere, dall’altro deve esserci un’istanza che pone tale dovere. Si ha dunque una relazione biunivoca tra un’istanza oggettiva e un’istanza soggettiva.

Dal lato oggettivo dei poli entro cui si svolge la dinamica etica si trova il bene. In quanto tale, cioè come valore oggettivo esterno a una volontà soggettiva con cui però è in relazione, esso non può essere definito meramente come “ciò verso cui si tende”: ciò implicherebbe infatti che è la volontà stessa a porlo, ad attribuire ad esso un valore, e quindi, in un secondo momento, a volerne la realizzazione. Il bene è invece ciò che, in quanto è, cioè proprio in virtù della sua stessa esistenza, avanza una pretesa e in questo modo, ossia già con il fatto stesso di esistere in quanto bene, impone un dovere. Pertanto il bene, in quanto possiede una propria dignità d’essere, non è ciò che deve essere posto dalla volontà, ma ciò che deve essere scelto da essa, e, affinché sia elevato a causa determinante dell’agire, a motivazione dell’azione, esso deve essere scelto in particolare dalla volontà come suo proprio scopo, indipendentemente dal suo giudizio soggettivo; infatti tale bene vale, e vale ontologicamente, a prescindere dalle

inclinazioni soggettive80. In virtù dunque del suo stesso esistere, del suo valore

oggettivo, della sua dignità intrinseca, secondo Jonas il bene si pone come oggetto del volere che muove nei confronti della volontà una pretesa81: esso pretende di essere e,

nella misura in cui sussiste una volontà che detiene un potere nei suoi confronti82,

avanza una richiesta, quella di essere rispettato, di essere tutelato nel suo esistere, di essere scelto come scopo; in una parola: di diventare oggetto di cura.

È dunque la stessa “capacità ontologica” del bene di avanzare una pretesa nei confronti di una volontà con la quale è in relazione che lo rende la fonte di un dover essere. Il dovere cioè deriva dalla stessa esistenza del bene che, in quanto tale, cioè in quanto è e allo stesso tempo in quanto è buono, impone alla volontà il dovere di farne lo scopo primario del suo agire.

Se il bene venisse inteso al contrario come qualcosa di posto dalla volontà, esso in quanto tale non potrebbe avere alcuna autorità per vincolare la volontà stessa e non potrebbe determinare la scelta in quanto sarebbe sottoposto ad essa, mentre esso è sempre ed essenzialmente ad essa antecedente. «Soltanto la sua [del bene] fondazione nell’essere lo contrappone alla volontà. Il bene indipendente pretende di diventare scopo. Esso non può costringere la volontà libera a sceglierlo come suo fine ma può strapparle il riconoscimento che sarebbe suo dovere operare quella scelta»83.

Ma è proprio in questo riconoscimento, nel fatto cioè che la volontà soggettiva sia già intrinsecamente predisposta ad accogliere la richiesta del bene, che secondo Jonas può avvenire propriamente il passaggio dall’essere al dovere, cioè la determinazione della volontà secondo dovere.

80 In questo senso afferma infatti Jonas: «quel che è davvero degno dei miei sforzi dovrebbe diventare anche per

me ciò per cui vale la pena ed essere perciò scelto da me come scopo. Valere “davvero” la pena sta ora a significare che l’oggetto degli sforzi è buono, indipendentemente dal giudizio delle mie inclinazioni» (ivi, p. 107).

81 Il sussistere di un bene in sé, che in quanto tale rappresenta un oggetto, per così dire, anteriore ed esterno

rispetto alla volontà, e pur tuttavia in relazione con essa, costituisce dunque per Jonas un aspetto cruciale del fenomeno morale: «Nessuna teoria volontaristica o appetitiva che definisce il bene come ciò a cui si tende rende giustizia a questo fenomeno originario del richiedere» (ibidem).

82 Cioè propriamente «nella situazione in cui la realizzazione o la conservazione di questo bene vengono messe

concretamente in discussione da parte di questo soggetto» (ibidem). È opportuno notare che in questi passaggi Jonas tratta la questione su un duplice livello: non solo quello teorico che serve da fondamento per la teoria etica, ma anche uno, per così dire, concreto che illustra il fattuale e storico rischio in cui si trova l’essere della natura nel suo attuale rapporto con l’uomo. Se l’appello del bene, in quanto essere avente una dignità intrinseca, costituisce un «fenomeno originario» da un punto di vista ontologico, tale quindi da avanzare in generale una pretesa d’essere nei confronti dell’uomo, tale appello è valido ancor di più nella situazione particolare causata dall’uomo di oggi, come bene il cui essere è messo in discussione dall’inedito potere che è venuto a trovarsi nelle mani dell’uomo odierno.

Infatti, nella misura in cui il bene avanza una pretesa, per così dire, una richiesta ontologica nei confronti della volontà, è solo in quanto il soggetto è in grado di accogliere tale pretesa, di poterla ascoltare, che può realizzarsi allora l’azione morale.

Emerge così la funzione centrale dell’istanza soggettiva coinvolta nel fenomeno etico. Il bene può fare appello alla volontà, metterla in moto, determinarla, perché tale appello può trovare, e di fatto trova, nel soggetto una certa permeabilità. Tale permeabilità esiste in quanto esiste una predisposizione naturale dell’uomo, psicologica, emotiva, all’ascolto dell’appello del bene. L’uomo è cioè predisposto emotivamente a sentire il richiamo del dovere in quanto dotato naturalmente di un senso morale: è infatti, afferma Jonas, «inerente all’essenza della nostra natura morale che l’appello, mediato dal giudizio, trovi una risposta nel nostro sentire: precisamente nel senso di

responsabilità»84.

Se noi non fossimo emotivamente ricettivi al richiamo del bene, e quindi del dovere, anche il principio razionale più cogente non potrebbe fare in modo che la volontà si conformi ad esso e si determini quale istanza causale di un’azione morale. Pertanto quest’istanza emotiva presente in noi, ciò che Jonas chiama responsabilità, risulta essere il «dato cardinale della morale»85, la condizione di possibilità della morale stessa.

È dunque proprio il sentimento l’istanza che può colmare il divario esistente tra la sanzione astratta (fermo restando tuttavia che quest’ultima, come Jonas ha dimostrato, trovi il proprio fondamento nell’essere) e la motivazione concreta, poiché è la sola istanza a poter mettere in moto la volontà86. Di più: tale istanza emotiva, il senso di

responsabilità, risulta essere già implicita come tale nel dover essere, poiché la stessa