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L’eutanasia come problematica bioetica: il “diritto di morire”

IL DIRITTO DI MORIRE

3. L’eutanasia come problematica bioetica: il “diritto di morire”

Una delle principali tematiche bioetiche affrontate da Jonas e che coniuga i tre nodi cruciali del suo pensiero morale, ovvero l’accento posto sulla mutata natura dell’agire dell’uomo, il ruolo della tecnologia quale causa fondamentale di tale mutamento e la medicina come scienza in cui confluiscono in maniera emblematica i problemi etici e metafisici sollevati dalla tecnica moderna, riguarda le circostanze del morire e il fine vita, ossia quel ventaglio di problematiche di cui l’eutanasia rappresenta l’eventualità estrema.

In linea generale, la riflessione jonasiana sull’eutanasia intende prendere in considerazione tutte quelle circostanze in cui può venire a trovarsi un individuo che versa in una grave condizione di salute, perlopiù di stadio terminale, nella misura in cui lo scenario tecnologico applicato all’ambito medico ha reso reale la possibilità che egli, proprio in tali circostanze, non si limiti a svolgere un ruolo passivo, accettando la sua condizione di malattia e limitandosi, assistito dal medico, a osservarne il decorso, bensì possa avere una parte attiva.

Ciò viene reso possibile dalle conquiste della tecnica medica, oggi in grado, laddove non sia comunque plausibile curare il male ed estorcerlo, di proporre, per fronteggiare la malattia, procedimenti sperimentali alternativi, seppur incerti negli esiti, di avvalersi di strumenti in grado di rimandare il momento della morte, di alleviare le sofferenze del malato utilizzando determinate sostanze a scopo farmacologico, seppur non terapeutico, fino al caso più estremo di procrastinare indefinitamente la morte, anche quando la malattia ha ridotto l’individuo a essere vivente in grado di svolgere soltanto le sue funzioni organiche. È proprio di fronte a queste nuove prospettive che l’individuo può avere oggi un maggiore o un minore margine di controllo della propria condizione e di decisione rispetto ad essa, e può avanzare specifiche richieste al suo medico. Ma è proprio di fronte ad alcune di queste nuove prospettive che la tecnologia medica, oltre a conferire all’individuo una più ampia possibilità di azione, ha paradossalmente anche posto le condizioni per l’eventualità opposta: un malato terminale in stato di incoscienza mentale e di impotenza fisica, ossia in stato vegetativo di coma irreversibile, attraverso l’ausilio della strumentazione medica (respiratori, alimentazione artificiale ecc.) può essere mantenuto in vita per un lasso indeterminato di tempo, privato della possibilità di esprimere le proprie volontà sul proprio destino e di scegliere cosa fare dei suoi ultimi residui di vita, in definitiva annichilito in tutti quegli aspetti che facevano di lui un essere umano.

È soprattutto in virtù del verificarsi di quest’ultimo scenario – ma non solo – che l’intervento della tecnica in ambito medico ha comportato un cambiamento anche rispetto al ruolo degli altri soggetti chiamati in causa nelle circostanze che riguardano il fine vita. Cambia infatti, in primis, il ruolo del medico, il quale, oltre a dover svolgere i compiti tradizionali che gli impone la sua professione, come ad esempio informare adeguatamente il paziente della propria condizione o assisterlo con le risorse mediche che ha a disposizione, può trovarsi nella situazione di doversi sostituire a lui, nel senso di dover prendere una decisione al suo posto, cercando di agire nel suo miglior interesse, anche laddove il miglior interesse non coincida con il continuamento della vita e con la guarigione (poiché questa non rappresenta più una possibilità attuabile).

Cambia, infine, il ruolo delle persone vicine al malato, soprattutto i familiari, i quali non hanno più soltanto il compito di supportarlo e aiutarlo nei limiti delle loro risorse umane, ma possono (e devono?) tentare di dare i migliori consigli rispetto alle inedite eventualità prospettate, accettare le sue decisioni, anche quando questo significa andare contro i propri

interessi emotivi, e, nei casi più estremi, sostituirsi – in collaborazione con il medico – alla sua volontà nella misura in cui egli non sia più in grado di agire autonomamente e coscientemente.

In altri termini: con l’intervento della tecnica e il tecnologizzarsi della medicina il morire diviene oggetto di scelta, o propriamente individuale – del paziente coinvolto in prima persona – oppure di terzi – il medico e i congiunti –, e apre di conseguenza interrogativi complessi riguardanti l’agire degli esseri umani nelle drammatiche circostanze legate alla morte, interrogativi che esigono se non una risposta e una soluzione definitive, quantomeno un sensato orientamento etico.

Non solo: per quanto tali problematiche siano rilevanti sul piano morale – il quale già da solo esige un’adeguata indicazione normativa –, esse assumono talvolta piena valenza giuridica, per cui dalla loro soluzione dipende l’imputabilità legale dei soggetti coinvolti, soprattutto il medico e i familiari, oppure, più raramente, l’individuo in prima persona. L’aspetto giuridico, unito al drammatico peso umano e morale che tali circostanze portano sempre con sé, conferisce dunque a tali questioni un’ancor più pressante urgenza di risposta. In particolare poi, la macro questione che si pone, di valore tanto giuridico quanto morale20,

riguarda la legittimità delle scelte possibili e il loro valere quali diritti o quali doveri.

Ha un uomo il diritto di fare la propria scelta anche quando essa lo condurrà a morte certa oppure ha il dovere di rimanere in vita? Questo dovere, se mai ci fosse, va osservato per rispetto della vita in quanto tale? Per rispetto degli altri esseri umani? La causa della vita deve essere patrocinata in ogni caso e a qualsiasi condizione oppure esiste un limite oltre il quale una vita umana, non potendo più conservare le sue caratteristiche essenziali, come il poter pensare, il potersi muovere, il poter provare delle emozioni, deve essere lasciata al suo destino di morte? Hanno il diritto gli altri di pretendere da una persona malata di rimanere in vita ad ogni costo o hanno il dovere di rassegnarsi, insieme a lui, oltre che all’incombere della malattia, anche all’incombere della morte? Ha il diritto un medico di mantenere in vita un paziente in stato vegetativo o di compiere un’azione che ponga fine a quello stato (ad esempio, staccando il respiratore)? Ha il diritto il medico di assecondare la richiesta del paziente di porre fine alle sue sofferenze attraverso la somministrazione di sedativi oppure di un farmaco mortale? In che misura tali questioni possono essere definite come legittime, possono

20 Tenendo tuttavia sempre presente – come fa d’altra parte lo stesso Jonas – la distinzione dei due livelli, la quale

assumere cioè uno stato di diritto oppure possono persino assumere lo statuto di dovere da parte di tutti i soggetti coinvolti, il paziente, il medico, i familiari?

La posizione di Jonas – niente affatto monolitica, ma, come si vedrà, aperta anche ad inaspettate sfumature, anche apparentemente inconciliabili tra loro – viene proclamata sin dal titolo di uno dei suoi saggi che affrontano il tema dell’eutanasia: è qui che compare, in maniera del tutto imprevedibile, un diritto di morire21. L’espressione infatti, come afferma

l’autore stesso, risulta essere del tutto singolare e apparentemente inspiegabile per tre fondamentali motivi.

Innanzitutto il termine diritto non solo è sempre stato accostato alla vita, ma, a ben vedere, è proprio in quest’ultima che trova il suo originario fondamento: «da sempre ogni discorso sui diritti si è riferito a quello che è il più fondamentale di tutti: il diritto di vivere»22 e, anzi,

ogni diritto particolare può essere considerato un’estensione dello stesso diritto alla vita. L’essere umano si è adoperato per rivendicare il valore assoluto della vita, per dichiararlo come inalienabile, per definirlo come il fondamento primario e originario di tutti gli altri23.

La vita esiste come un «fatto», osserva significativamente Jonas, ma dal momento in cui essa

avviene, cioè si svolge in un un certo ambiente, che è necessariamente esterno all’essere

vivente stesso, essa va tutelata, e, nel caso particolare degli uomini, la difesa di essa, nella misura in cui può essere esposta a minacce esterne, naturali o artificiali, a soprusi o a ingiustizie, deve essere garantita in virtù di un criterio oggettivo, incarnato appunto dal concetto di diritto, il quale deve essere in primo luogo sanzionato e in seconda misura

21 Tecniche di differimento della morte e il diritto di morire, in H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, cit., pp. 185-

205 (ed. or. The Right to Die, in «Hastings Center Report», VIII (1978), n. 4; in edizione italiana, presentata come testo a sé, anche Id., Il diritto di morire, il melangolo, Genova 1991).

Complementare a questo testo è il saggio Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, cit., pp.167-184 (ed. or. On the Redefinition of Death, in «Deadalus», 1969 e Against the Stream: Comments on the Definition and Redefinition of Death, cit.; in edizione italiana è stato pubblicato anche con il titolo Morire dopo Harvard, Morcelliana, Brescia 2009), nel quale il tema dell’eutanasia viene affrontato nello specifico in relazione alla definizione di “morte” come “morte cerebrale”, proposta da una commissione della Harvard Medical School e pubblicata nell’agosto del 1968 (occasione che di fatto ha avviato con Jonas un dibattito di etica medica, costituendo uno dei fattori principali che lo hanno mosso poi a formulare una compiuta dottrina etica. In proposito cfr. quanto detto supra, p. 93, n. 7).

Oltre ai saggi contenuti in Tecnica, medicina ed etica, infine, completa la riflessione sul tema dell’eutanasia l’intervista a Jonas edita con il titolo Eutanasia e medicina (ed. or. Mitleid allein begründet keine Ethik, in «Die Zeit», 25, 1989), in H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino 2000, pp. 55-76 (ed. or. Dem bösen Ende näher. Gespräche über das Verhältnis des Menschen zur Natur, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1993), nella quale egli ritorna su questa problematica, prendendo posizione intorno ad un punto specifico, l’eutanasia dei neonati gravemente malformati, in polemica con le tesi sostenute da Peter Springer sull’argomento.

22 H. Jonas, Tecniche di differimento della morte e il diritto di morire, cit., p. 185.

23 Jonas fa esplicito riferimento alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, nella quale «la vita»

riconosciuto reciprocamente da tutti gli uomini. Per questo «il genere umano ha sempre avuto […] da fare con la scoperta, definizione, rivendicazione, conquista e difesa degli svariati diritti in cui il diritto alla vita si particolarizza»24.

Ma, in modo particolare, l’espressione che tratta di un diritto di morire risulta ancor più innaturale e controintuitiva proprio alla luce del contesto teorico in cui viene proposta. Tutto il percorso intellettuale di Jonas, infatti, seppur segnato da diverse fasi e focalizzatosi di volta in volta su tematiche differenti, può essere considerato in generale come un inno alla vita. Di più: come già si è messo in evidenza, tutti gli ambiti esaminati da Jonas e gli esiti delle sue indagini trovano proprio nell’istanza della vita il loro filo conduttore. La filosofia jonasiana può essere considerata a pieno titolo come la rivendicazione del significato della vita come valore: essa si è impegnata a interpretare i tentativi umani di ricerca di questo valore (religioni), a stimarlo non soltanto come umano, quindi soggettivo e relativo, ma ontologico e sottendente tutto l’essere (biologia filosofica), ad ammonire, infine, l’uomo, l’unico essere vivente in grado di riconoscere il valore della vita in quanto tale – e pertanto in grado tanto di minacciarlo quanto di proteggerlo – a tutelarlo, sia in generale che in relazione al particolare contesto storico che sta vivendo oggi (etica per la civiltà tecnologica).

Infine risulta particolarmente arduo immaginare di tentare una difesa del morire quale diritto, nella misura in cui «comunemente si aspira a dei diritti per promuovere un bene, mentre la morte è considerata un male»25, poiché essa rappresenta la fine, il nulla e quindi

non spiega come possa essere avanzata una pretesa – che costituisce proprio ciò che incarna un diritto – nella misura in cui tale pretesa, nel momento in cui viene assecondata, annienta la possibilità umana dello stesso pretendere.

Alla luce di tali considerazioni, dalle quali emerge l’intrinseco legame che lega l’istanza del diritto a quella della vita, risulta dunque difficile comprendere come la prima possa essere ora accostata da Jonas al morire: in che misura un concetto come quello di diritto può valere nelle circostanze della fine della vita di un individuo?

Per rispondere a questa domanda è necessario formulare una considerazione preliminare: il diritto di morire che Jonas tenta di prendere in esame non è un diritto di morire tout court, ossia la possibilità di un individuo di compiere una scelta del tutto arbitraria e intimamente personale in circostanze di completa normalità, o quantomeno nelle quali non sono implicati

24 Ibidem. 25 Ivi, p. 186.

problemi di salute. In breve, non si tratta qui del diritto al suicidio. Religione, morale e giurisprudenza si sono ampiamente occupate di quest’ultimo e, per quanto esso consista pur sempre in un’azione suscettibile di giudizio etico – e talvolta di restrizioni giuridiche –, rimane «il più privato di tutti gli atti» e per esso, in definitiva, la persona ha sempre diritto a pronunciare la sua ultima parola, ovvero a prendere la sua decisione26.

Ma il caso del suicidio è assolutamente diverso da quello in cui si trova l’individuo vessato da una malattia mortale; per questo – afferma Jonas – «il “diritto di morire”, che oggi smuove gli animi, non ha a che fare con il suicidio, l’azione di un soggetto attivo, bensì con la situazione del paziente che ha una malattia incurabile, il quale è […] sottoposto alle tecniche di differimento della morte della medicina moderna»27. In quest’ultimo caso, infatti, la causa

dell’incombere della morte non è una scelta incondizionata e un’azione, per così dire, propriamente “attiva”, ma è solo e soltanto la malattia. Una malattia mortale che però oggi, in virtù delle nuove potenzialità della tecnologia medica, richiede al soggetto direttamente interessato e agli altri soggetti coinvolti di prendere scelte particolarmente complesse e delicate. È così che, proprio «con i progressi della medicina», ha «fatto la sua comparsa nella realtà un “diritto di morire” di nuovo genere»28 ed è per questo che alla disciplina etica viene

richiesta una riflessione sulla legittimità di questo nuovo diritto e sulle condizioni in cui eventualmente esso può essere fatto valere.

Si può rispondere ora alla domanda: in che misura un concetto come quello di diritto può valere nelle circostanze della fine della vita di un individuo? Nella misura in cui le circostanze create dalla situazione di una malattia incurabile unite alle possibilità che offre oggi la tecnologia medica hanno reso la morte oggetto di scelta e di controllo da parte dell’uomo e pertanto richiedono, da un punto di vista etico – e anche giuridico –, un’attenta valutazione circa le decisioni da prendere e il comportamento da adottare.

Ora, i casi che riguardano il fine vita, in virtù delle particolari circostanze – fisiche, emotive e materiali – in cui si trova il paziente, in virtù delle istanze mediche coinvolte – figure professionali e strutture –, in virtù dello stesso tipo di male da cui è affetto il soggetto – stadio e prospettive di gestione della malattia, ausili farmacologici –, sono ovviamente molto diversi

26 Cfr. in proposito ivi, pp. 186, 188-189. 27 Ivi, p. 186.

28 Ivi, p. 187. E, altrove: «Che si possa parlare di un diritto a morire fa anche parte delle cose nuove divenute

possibili solo attraverso lo sviluppo della tecnica medica, quindi con l’ampliarsi del nostro potere grazie ad apparecchiature tecniche» (Eutanasia e medicina, cit., p. 62).

tra loro e tali da contemplare così tante variabili da costituire ciascuno un caso a sé, in qualche maniera unico e irripetibile. Tuttavia, è possibile delinearne alcuni più generali, la cui complessità dipende in particolar modo dal rapporto tra la capacità di autonomia del paziente e il ruolo decisionale degli altri individui coinvolti, come si è detto, in primis il medico e, in secondo luogo, i familiari. In altri termini, il grado di problematicità di questi casi aumenta man mano che vengono chiamati in causa gli altri a compiere la scelta decisiva e ad agire di conseguenza, e via via che la causa determinante del mantenimento in vita o del morire, per così dire, si sposta progressivamente dalla volontà del soggetto malato a quella di persone terze.

Jonas pertanto tenta di prendere in esame almeno tali casi più generali e di mostrare in che misura, in ciascuno di essi, può essere fatto valere, da un punto di vista etico – ma, in certi casi più spinosi, anche giuridico – un diritto di morire per il paziente affetto dalla malattia.

Il caso meno problematico è quello di un paziente che si trova di fronte all’alternativa di sottoporsi o meno a un trattamento, nella misura in cui quest’ultimo non prevede possibilità di guarigione o di un miglioramento significativo della propria condizione, né rappresenta una tutela nei confronti di altri. Scegliere di rifiutare il trattamento può equivalere automaticamente, per la persona, ad andare incontro a morte certa. Ha allora il paziente il diritto di prendere questa decisione, anche se le conseguenze di essa non ricadono soltanto su di lui ma anche sugli altri, ad esempio sulle persone a lui care oppure, nel caso in cui egli ricoprisse un importante ruolo istituzionale, su altri individui? Queste circostanze richiedono certo al paziente una massima ponderazione, al medico di informare adeguatamente il paziente circa la sua condizione e le conseguenze della sua decisione29, e, infine, ai congiunti

di non spingere il soggetto verso una delle due alternative a fini egoistici, ma in esse, in definitiva, il paziente è assolutamente libero di scegliere di morire. È libero non solo in quanto

29 Nel contesto dell’analisi del diritto del paziente di rifiutare il trattamento Jonas formula significative riflessioni

sul diritto alla verità del malato e sul corrispondente dovere del medico di comunicarla al suo paziente. È interessante che Jonas non risolva la questione restituendo una soluzione netta al problema, stabilendo il diritto del paziente di conoscere la verità sulla sua condizione oppure il dovere del medico di ometterla o esporla. Una situazione delicata richiede che venga lasciato spazio a un agire attento alle sfumature e che il medico, in particolare, si impegni per capire dove può trovarsi il limite tra il rivelare lo stato di fatto della propria condizione al paziente e il tacerlo per il suo bene. In generale, pertanto, afferma Jonas sulla questione: «azzardo questa tesi di massima: in ultima istanza, si dovrebbe rispettare l’autonomia del paziente, non privandolo dunque con l’inganno della possibilità di scegliere, essendo ben informato, quando sia in gioco la vita, a meno che egli desideri essere ingannato». È necessario dunque che il medico tenga conto della «complessità e indeterminatezza dei contorni» delle particolari circostanze e che per decidere come agire faccia leva su quella componente dell’arte medica, che «non si impara nelle scuole di medicina», che unisce competenza professionale e capacità umana, qualità che non dovrebbero essere mai separate nella figura che incarna il medico stesso (cfr. H. Jonas, Tecniche di differimento della morte e il diritto di morire, cit., pp. 192-194, e in particolare p. 193).

non esiste alcun dovere a cui egli deve attenersi, ma è libero in virtù di un suo proprio e irrevocabile diritto. Non si può «costringere un malato, sofferente e senza speranza, a continuare una terapia di sopravvivenza che gli fa dono di una vita che egli non ritiene degna di essere vissuta. Nessuno ha il diritto, men che mai il dovere, di imporre ciò a un altro negandogli prolungatamente l’autodeterminazione»30. «Nessun dovere-di-vivere – conclude

pertanto Jonas – annulla veramente il mio diritto di scegliere la morte nelle circostanze qui ipotizzate. […] questo diritto è […] eticamente e giuridicamente inalienabile al pari del diritto di vivere»31.

La scelta di rifiuto di un trattamento, per un paziente impregiudicato nelle sue facoltà intellettuali e fisiche, è eticamente e giuridicamente analoga a quella di interruzione di un trattamento: anche in questo caso vale il diritto di morire del soggetto e, in particolare, quello di compiere un’azione pratica in linea con la sua decisione. Il fatto che egli sia mentalmente e fisicamente autonomo rende la questione meno problematica, soprattutto da un punto di