1.4 F Albano Leoni, Dei suoni e dei sensi Limiti dei paradigmi segmental
1.4.1 La fonologia ereditata
Il punto a) concerne l’adeguatezza delle categorie (lato sensu) ereditate in relazione ad un nuovo quadro di teorie e dati empirici a disposizione in tempi recenti; ciò dovrebbe
37 far stabilire, innanzitutto, che «la radicata diffidenza della linguistica (sia strutturale, sia generativa) nei confronti della materia e della fisicità del parlare può ormai essere più facilmente disvelata e messa in discussione»64. In buona sostanza, si nota che il trattamento della fonologia e del significante fonico non rispondono alle aspettative generate dalle attuali consapevolezze semiotiche e linguistiche, che vedono come protagonisti «la pragmatica, la multimodalità, il gioco delle inferenze, i rinvii al contesto e al cotesto, i ruoli dei locutori, le modalità degli scambi». Piuttosto, le pratiche linguistiche continuano ad espletarsi, implicitamente o esplicitamente,
a) come se i contenuti dell’atto comunicativo fossero da cercare tutti nel significante fonico (e non anche al suo esterno); b) come se questo significante fosse tutto nella sua rappresentazione lineare e discreta (e non anche in manifestazioni non lineari e non discrete); c) come se il significante fosse l’unico indizio per giungere al significato (senza considerare il ruolo delle inferenze, del non detto e del contesto, che portano al significato anche senza il significante, e senza considerare i casi in cui il significante è così ambiguo da risultare inespugnabile e insegmentabile senza una preventiva ipotesi di senso); d) come se il rapporto parti/tutto fosse tale per cui il tutto (che può essere la parola fonologica o il turno dialogico o il blocco informativo compreso tra due silenzi) fosse la mera somma delle parti (che possono essere di volta in volta, fonemi o sillabe o monemi o parole o sintagmi o altro), dotate ciascuna di una sua individualità statica, indipendente dal tutto e preesistenti ad esso, e non invece una entità di tipo relazionale e gestaltico65.
Tale modo di guardare alla fonologia e alla linguistica sembra affondare le proprie radici in quelle che l’autore chiama «dicotomie sbilanciate», ovvero opposizioni costitutive su cui si fonda il pensiero linguistico post-saussuriano. È talmente cruciale come vengano considerate tali opposizioni, che al variare di queste si assiste ad una sensibile variazione della fisionomia della fonologia e della linguistica in generale; le dicotomie in questione, o perlomeno le più influenti, sono tre: langue/parole, significante/significato, parlante/ascoltatore.
I secondi termini delle coppie in esame hanno in comune di essere stati meno studiati ed approfonditi nella storia della linguistica, il che dà luogo ad un’asimmetria teorica molto significativa, soprattutto se si confronta con lo schema di fig. 1.1 che abbiamo proposto in apertura (§ 1.1): gli effetti dell’asimmetria semantica in fonologia,
64 Ivi, 13. 65 Ivi, 16.
38 e della fonologia nel linguaggio, sono, in buona parte, il portato di queste dicotomie sbilanciate. La preferenza accordata ai primi termini delle dicotomie riflette la scelta, a partire almeno dall’Ottocento, di privilegiare la rappresentazione discreta dei fenomeni linguistici, strada che sembrò percorribile attraverso la langue e il significante, perché in apparenza (e probabilmente a torto) più facilmente rappresentabili mediante categorie definite e discrete. Parole e significato mostravano biasimati legami con la soggettività e la mente, e questo fu sufficiente per evocare lo spettro della psicologia, concorrente indesiderata della linguistica nello studio del linguaggio.
La langue novecentesca sfocia dunque in un’ipostatizzazione derivata da un’interpretazione alquanto riduttiva del pensiero di Saussure, dal momento che si tese a dimenticare il «rapporto dialettico» tra langue e parole, «tale per cui ciascuna presuppone e determina l’altra»66. L’apparente discretezza della langue67
(che Saussure
stabilì metodologicamente sovraordinata, e non ontologicamente) ne decretò il privilegio di studio, nonostante alcuni meritori tentativi, che complicano il quadro, di riformulare il rapporto langue ~ parole come quello di Coseriu (1971), che tentò di individuare un livello intermedio nella famosa tricotomia: sistema – norma – habla. Piuttosto che in ipotetici livelli intermedi, secondo Albano Leoni, il legame indissolubile tra i due poli dialettici andrebbe cercato «nella prospettiva della langue come prodotto della cooperazione comunicativa tra parlanti/ascoltatori e nella loro contestuale incessante riflessione metalinguistica»68.
Il significante, insieme di fonologia e morfosintassi, ha palesemente goduto di maggiore attenzione e studio da parte dei linguisti, sin dall’Ottocento. Sul finire di tale secolo, chi si occupò del tema del significato condusse le proprie indagini da prospettive tangenti la linguistica: è il caso di Frege, i cui interessi prevalenti erano la logica proposizionale e una semantica di tipo verocondizionale, e di Peirce, padre di una semiotica dai connotati cognitivi e interessato alle manifestazioni segniche tout court (meritevole senza dubbio di aver introdotto il concetto di semiosi illimitata, da cui è
66 Ivi, 19.
67 Specifica giustamente Albano Leoni, ibidem: «comunque chiamata». Sostanzialmente, la competence di Chomsky non intacca affatto la persuasione che il sistema linguistico sia sorretto da elementi discreti e segmentabili. Ciò che il generativismo aggiunge al dibattito, in estrema sintesi, è l’accento sulla deduttività del sistema e sulla sua dimensione innata.
39 bene che tragga giovamento qualsivoglia semantica moderna). La prova che il significante, ancora ad oggi, venga studiato perlopiù senza il significato, è evidente:
[…] la straordinaria fioritura di fonologie, segmentali, autosegmentali, metriche e prosodiche, degli ultimi decenni, tutte sostanzialmente autoreferenziali, nel senso che sono concentrate soprattutto, o forse esclusivamente, su se stesse, sulle architetture e gerarchie dei tratti, sulle ipotesi di modellizzazione delle dinamiche trasformazionali e che non si interrogano mai né sulla natura del loro oggetto di studio, né sul modo in cui questo significa69.
Quanto alla prevalenza dell’attenzione al parlante piuttosto che all’ascoltatore, il ruolo determinante è giocato dalla salienza intrinseca all’atto del parlare, in quanto esso è indubbiamente una manifestazione prevalentemente esteriore (se si eccettua l’endofasia), ben percepibile da parte di un osservatore, che può essere lo stesso parlante; al contrario, l’udire è maggiormente interiore, meno manifesto, e l’osservatore necessita di efficaci tecniche di eliciting per ricavare dei dati inerenti questa attività fondamentale. Due motivi, tra loro collegati, contribuiscono a consolidare questa situazione: in primo luogo, il prestigio millenario della lingua scritta dà valore al testo, al prodotto e non al percetto; in secondo luogo, la rappresentazione segmentale stessa induce alla descrizione minuziosa del suono linguistico nucleare, presunto come isolato ed isolabile, attraverso apparati descrittivi in tratti articolatori, mettendo cioè al centro modo e luogo di articolazione del fono (che equivalgono a caratteristiche che individuano il fonema). Albano Leoni osserva che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la cogenza dell’udito e del ricevente erano emerse significativamente nei lavori di Sechehaye, dello stesso Saussure (in cenni) e di Jakobson mezzo secolo dopo; nonostante ciò, l’inversione di tendenza non è tardata ad arrivare negli anni Sessanta, quando l’attenzione torna prevalentemente sugli aspetti articolatori della fonazione. Ciò è ben visibile nell’affermazione di una teoria percettiva, la Motor Theory70
, che motiva i processi della percezione linguistica con la riproduzione interiore, da parte
69 Ivi, 23.
70 I limiti di una teoria siffatta sono enunciati ivi, 26, nota 25: «[…] dal punto di vista dell’ontogenesi [scil. del linguaggio] e da quello del funzionamento ordinario delle lingue la Motor Theory rimane problematica per almeno quattro motivi: 1) azzera il ruolo percettivo e autocorrettivo dell’area di Wernicke; 2) il peso dato al ruolo del segmento configura un orientamento bottom-up molto rigido; 3) il ruolo della prosodia, non riconducibile facilmente alle sensazioni motorie, è trascurato; 4) le esperienze uditive perinatali, che precedono ogni capacità articolatoria, non vengono spiegate».
40 dell’ascoltatore, dei movimenti articolatori necessari a produrre il suono linguistico percepito; inoltre, si assiste significativamente alla diffusione coeva di una fonologia generativa, che non tiene affatto in considerazione gli aspetti uditivi, ma piuttosto generalizza i tratti articolatori nelle opposizioni binarie delle matrici.
A queste tre asimmetrie se ne aggiunge una quarta di notevole rilievo, benché di natura differente dalle prime: l’asimmetria del segno linguistico. Le due facce del segno, nei paradigmi dominanti, non risultano egualmente scomponibili in elementi minori, a meno che non ci si ricolleghi al tentativo di ispirazione hjelmsleviana71 di istituire un quadrilatero semiotico perfettamente simmetrico, in cui entrambe le facce del segno rispondano ad una combinatoria di tratti discreti e finiti (quanto al significato, si tratta di una semantica puramente componenziale). Questa interpretazione non trova però riscontro diretto nei testi saussuriani, e si è rivelata alquanto sterile nei risultati prodotti, così come è improduttiva la considerazione del significante come esteriore e materiale, idea del tutto pre-saussuriana e incurante della natura psichica che Saussure stabiliva per entrambe le facce del segno linguistico; qualsiasi suono, in effetti, senza elaborazione neurocognitiva non è altro che oscillazione di molecole d’aria. Molto illuminante è la messa a fuoco delle conseguenze paradossali a cui conduce una stabilita ed accettata asimmetria intrinseca al segno, la quale vorrebbe un significante fonico discreto e segmentabile opposto ad un significato continuo, vago e difficilmente determinabile:
[…] se è vero, come hanno detto Bühler e non pochi altri, […] che il linguaggio e le lingue si estrinsecano attraverso l’intreccio indissolubile tra la dimensione simbolica e la dimensione indicale, la presunta asimmetria del segno avrebbe un’ulteriore conseguenza paradossale: quella per cui il soggetto parlante/ascoltante strutturerebbe il mondo simbolico, per questo aspetto rappresentato dalle fonologie discontinue, in modo profondamente diverso da quello in cui struttura il mondo indicale, che confluisce nella indeterminatezza e continuità della significazione. […]
Dunque, se si condivide l’idea che questa asimmetria sia anomala e se si conviene che il significato abbia le caratteristiche di indeterminatezza che gli vengono riconosciute, si converrà anche sul fatto che per cercare di superare questa asimmetria non c’è altra strada che verificare i presupposti sui quali riposa la rappresentazione discreta e determinata del significante72.
71 Cfr., ad esempio, Greimas-Courtés 2007, 265-268. 72 Cfr. Albano Leoni 2009, 29-30.
41 Questa conseguenza dell’asimmetria non è di scarso respiro. In effetti, rimanda al grado di motivazione dei segni con cui un soggetto interpretante ha a che fare e di cui vive, strutturati già da Peirce in tipologie ben distinte e ben note; in questo caso, nella tricotomia indice ~ icona ~ simbolo, si considerano i due estremi, indice e simbolo, agli antipodi proprio per grado di motivazione della relazione forma-contenuto. Questa tricotomia di base è un altro caposaldo su cui si reggono da tempo semantiche, fonologie (o fonomorfologie) e linguistiche, se si considera che lo stesso principio di arbitrarietà saussuriano e l’estromissione del referente dall’attività significatrice dei simboli linguistici (cioè i segni propriamente detti) si sostanziano della totale immotivatezza del simbolo; al contrario, gli indici sono motivati su base prevalentemente esperienziale, su rapporti di contiguità o di causa-effetto, in cui la realtà referenziale non può essere estromessa, al punto da poterli considerare addirittura non appartenenti alla categoria dei segni in generale.73 Questa incompatibilità e discontinuità nella strutturazione cognitiva della tipologia dei segni, che porta con sé la conseguenza di fonologie formalistiche e binaristiche (come anche Albano Leoni giustamente rileva), non solo sembra trovare sempre meno riscontro, ma è seriamente messa in dubbio dalle semantiche cognitiviste cui ci richiamiamo nel presente lavoro, le quali si occupano con interesse della motivazione delle forme linguistiche, dando conto, almeno parzialmente, di interferenze del mondo iconico ed indicale sopraccitati all’interno del mondo dei simboli linguistici.74