In questo senso, e capovolgendo per certi versi l’ipotesi di Coquio da cui siamo partiti, non siamo interessati solo alla sopravvivenza della mimesis, quanto alla ripresa della sua condanna in un nuovo spazio di emergenza e in un diverso contesto di formulazione. Si tratterebbe di mostrare insomma, per esprimersi in termini foucaultiani, come un’unica nozione (quella dei limiti della rappresentazione) abbracci spazi archeologicamente distinti, e come lo stesso
divieto si leghi a pratiche discorsive differenti. Le strategie,
intese da Foucault come la struttura dei temi che sorgono all’interno di certi discorsi, possono così essere avvicinate non da una medesima origine del discorso, ma da una organizzazione e un meccanismo di relazioni interne che ne definisce il funzionamento. Le loro regole si collocano cioè nel discorso stesso, pur rimandando ad orizzonti diversi.
In questo senso, ad esempio, le interdizioni lanciate contro la rappresentazione del sacro nel discorso
176 Su questa relazione mi permetto di rinviare ad un articolo
(L’incommemorabile e l’irrappresentabile. Su un possibile confronto tra il cinema
e l’architettura, in «Close-Up», dossier Cinema e Arti Visive, a cura di G. D.
Fragapane, n. 15, 2006, pp. 70-76) in cui ho ipotizzato un’analisi in parallelo tra l’esperienza proposta al visitatore dalle due strutture commemorativo e il meccanismo dell’identificazione costruito da Schindler’s List e messo in crisi in un film come M. Kline (J. Loosey, 1976).
iconoclasta, il rifiuto della mimesis nello spazio di ricerca della avanguardia modernista, la sua critica radicale nella teoria della seconda metà del Novecento, nonché infine le condanne indirizzate alla rappresentabilità della Shoah (e per estensione all’Arte del dopo-Auschwitz) non rimandano certo ad un progetto unitario, ma ad una estenuante
trasposizione in discorso dell’irrapresentabilità e dell’ideale
dell’assenza e dell’invisibile. È questa trasposizione in discorso (“prendere in considerazione il fatto stesso che se ne parla” come diceva Foucault) che ci interessa qui studiare.
Così mentre negli ultimi anni si è sviluppata una storicizzazione del formalismo della teoria del XX secolo – e la mimesis è stata cautamente rimessa in relazione con il mondo prendendo le distanze da una certa intemperie teorica – i dibattiti sulla irrapresentabilità della Shoah sembrano offrirsi come uno spazio di riattivazione di quella violenta logica binaria che «impone alternative drammatiche e ci manda a sbattere contro i mulini a vento»177. Ne danno prova le inconciliabili posizioni assunte nei confronti delle immagini della Shoah, di cui un ottimo esempio è fornito come abbiamo visto dalla polemica a distanza tra Claude Lanzmann e Didi-Huberman, attorno a cui quest’ultimo ha costruito poi il suo noto libro Images malgré tout. Questo dibattito tipicamente francese evidenzia una sorta di reversibilità che investe la tradizionale critica della rappresentazione con le riflessioni sulla custodia della memoria della Shoah.
Non è un caso, insomma, come dimostra il caso Didi- Huberman, se le polemiche sull’uso delle immagini dell’Olocausto e per estensione sulle cosiddette possibilità di
rappresentare l’irrappresentabile, siano ancora così vive
proprio nei circoli intellettuali parigini. In un certo senso esse appaiono come l’ultimo capitolo di quella radicale critica del linguaggio (della trasparenza e della referenzialità) che tra la metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta ha avuto proprio nella teoria francese il proprio apice. Oggi che quell’orizzonte concettuale si avvia verso una consapevole storicizzazione, si può affermare con Compagnon che «non si tratta di respingere le obiezioni
contro la mimesis né di riabilitare quest’ultima
semplicemente in nome del senso comune e dell’intuizione, ma di considerare come si sia potuto rifondare il concetto di
mimesis dopo la teoria»178. Tuttavia nel caso in cui la critica delle referenzialità non è più una scelta metodologica, ma
un imperativo morale, le cose appaiono decisamente più
complicate. Non siamo più nel campo enunciativo della teoria e del conflitto tra canoni (quali ad esempio realismo
vs. formalismo) ma in quello assai più insidioso dell’etica,
dell’ideologia e dell’uso politico delle immagini. Confrontandosi con le possibilità di una teoria sociale della morale, Niklas Luhmann179 ravvisa nella analisi storico- sociologica delle semantiche etiche la possibilità di segnalare quanto l’etica si lasci determinare dalla propria tradizione testuale più a lungo di quanto sia lecito. Non si contesta evidentemente il fatto che ci siano etiche o morali
178 Ivi., p. 120.
179 Si tratta del discorso tenuto in occasione del conferimento nel 1989 del
premio Hegel, N. Luhman, Paradigm Lost:Über die Ethsiche Reflexion der Moral, Suhrkamp Verlag,Franfurt au Main,1990, tr. it., Meltemi, Roma, 2005.
universalistiche, ma si allude qui alla necessità di comprenderle nelle loro condizioni specifiche mostrando anche e soprattutto la natura polemogena della morale, quando impiegata per conferire forza alle proprie argomentazioni:
Con etica intendo una teoria che riflette le questioni della morale. La morale stessa ha a che fare con la stima e al disistima tra individui. È un esercizio polemico e per molti aspetti insano, quindi particolarmente adatto per l’uso politico. Colui che moralizzai intende ferire. Così almeno da un punto di vista empirico, osservando il comportamento reale. Nella tradizione l’etica è nata unilateralmente come una specie di impianto per la pulizia morale; non ha mai realmente compreso che tra i suoi compiti dovrebbe esserci anche quello di metter in guardia dalla morale180.
Queste considerazioni permettono di avvicinare alla natura polemogena della morale anche alcuni atteggiamenti, del tutto determinanti per ciò che qui ci interessa, come ad esempio l’intreccio che si stabilisce tra il discorso iconoclasta e la critica della rappresentazione nella costellazione concettuale delle estetiche negative del XX secolo. È lo storico dell’arte David Freedberg, ad essersi appassionato alla definizione dell’iconoclastia in una prospettiva comportamentale, tentando così di elaborare una teoria di
risposta alle immagini181. Questa teoria che prende in considerazione le motivazioni insite nella distruzione delle immagini, si sofferma attorno ad alcuni momenti principali. Innanzitutto l’iconoclastia deve essere pensata come un atto di richiesta dell’attenzione che di solito raggiunge il suo
180 Ivi,, p. 74 (cito dall’edizione italiana del testo che include un articolo
successivo, È lecito tutto ciò che è possibile?, in «Bollettino dell’Università degli studi di Bologna», marzo-aprile, 1993, pp. 5-7)
181 D. Freedberg, Iconoclast and their Motivs, Abner Schram, Montclair New
scopo. Integrata a questa motivazione, vi è l’influenza che alcune immagini o rappresentazioni (o concezioni dell’immagine, potremmo aggiungere) hanno su un determinato individuo o su un gruppo sociale. L’iconoclastia rompe questa presa per privare l’immagine del suo potere. Da ciò ne consegue che i movimenti iconoclastici, danneggiando i simboli del potere si propongono l’obiettivo di sminuire il potere stesso. La storica della filosofia Maria Bettetini, che all’iconoclastia ha dedicato un agile studio182, rivela anch’essa una serie di atteggiamenti del tutto simili, almeno per ciò che concerne i tentativi con cui le norme della dottrina tentano di conciliare le tentazioni dell’arte figurativa. I documenti a noi pervenuti attorno alla battaglia delle immagini incitano alla distruzione, all’adorazione o ad una prudente condiscendenza, ma, afferma «la curiosità non deriva tanto da posizioni note e reiterate nel corso della storia, quanto dalle loro motivazioni: si tratta sempre di non
macchiarsi delle colpe degli altri»183. Non esisterebbe insomma una religione che abbia potuto sviluppare una visione unitaria del problema e nel confronto tra esse (cosi come nel dibattito interno ad ogni dottrina) la questione rivelante sembra essere quella di differenziarsi rispetto ad un comportamento nei confronti dell’immagine ritenuto sbagliato e portato come monito per la comunità.
Nel ripercorrere oggi quel momento di gloria che la teoria formalista visse in Francia tra gli anni Sessanta e Settanta,
182 M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Laterza, Bari,
2006.
183 Mi riferisco qui ad un articolo apparso sul domenicale di «IL SOLE 24
ORE» (16, settembre, 2007, p. 35) in cui si riassume un intervento che la stessa Bettetini ha tenuto nell’ambito del XII Congresso Internazione Universalità della
Ragione. Pluralità delle Filosofie del Medioevo (Palermo, 16-22 settembre,
Compagnon ipotizza, alla base della sua radicale astrattezza, una sorta di dissimulazione strategica:
In realtà, il contenuto, la sostanza, il reale non vengono
mai estromessi del tutto dalla teoria letteraria. Può anche darsi che il rifiuto della referenza osservato dai teorici non sia stato altro che un alibi per potere continuare a parlare del realismo, non della poesia pura, non del romanzo puro, malgrado la loro formale adesione al movimento letterario modernista e avanguardista. Così la narratologia e la poetica sono state autorizzate a continuare a leggere buoni romanzi veri, ma senza sporcarsi le mani, senza assaggiare quel vino, senza lasciarsi ingannare. La rappresentazione avrebbe avuto come fine il mito, perché a un mito si crede e non si crede184.
In modo simile noi ipotizzeremo che è possibile leggere i dibattiti sui film che affrontano l’Olocausto anche come la formazione di uno spazio discorsivo in cui, celebrando la superiorità morale di un’opera su un’altra, si dissimula la riaffermazione della radicale critica della rappresentazione sulla mimesis, ovvero del modernismo e della avanguardia – vale a dire del canone dell’opera Arte con la a maiuscola – sugli oggetti della cultura popolare. Su questi aspetti ci concentreremo in particolare nel prossimo capitolo, affidandoci per ora alla ricostruzione di un contesto discorsivo che permetta di evidenziare quel percorso che ha eletto progressivamente l’irrappresentabile tra i paradigmi di un pensiero della modernità cinematografica.