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Come abbiamo visto, l’adesione allo schema di rimozione e anamnesi – ovvero quella transizione dall’invisibilità di Auschwitz alla sua onnipresenza nello spazio pubblico attuale – tende a vedere in atto negli anni Cinquanta sia in Europa che negli Stati Uniti una sorta di cospirazione del silenzio nei confronti dell’Olocausto, o comunque un disinteresse collettivo che verrà scalfito soltanto a partire dal processo Eichman.

In questo schema l’ossessione americana per Anna Frank (attorno a cui Philip Roth ha costruito il suo The Ghost

Writer127), o il film di Alain Resnais, Nuit et Brouillard girato

126 Su questo punto si concentrano le obiezioni di numerosi studiosi di

Holocaust Film. Vedi A. Mintz, Popular Culture and the Shapping of Holocaust Memory in America, cit. pp. 107-125.

127 È con The Ghost Writer pubblicato nel 1979 (tr. it. Lo scrittore fantasma,

Einaudi, Torino, 2002) che fa la sua prima apparizione l’alter-ego di Roth, Nathan Zuckerman. Qui egli è un giovane scrittore alle prime armi che nel 1956, racconti alla mano, si reca in pellegrinaggio dal proprio venerato maestro (lo scrittore ebraico Lonoff) che ha chiuso i conti con la grande città e la carriera mondana per riflettere, “guardando la neve” dal suo eremo di campagna, sulle sorti della letteratura. Mentre la moglie di Lonoff denuncia la menzogna di chi come suo marito racconta e pontifica senza aver vissuto, Zuckerman sospetta che la giovane amante dell’anziano scrittore, potrebbe essere in realtà niente di meno che Anna Frank, scampata all’Olocausto e nascostasi in America sotto mentite spoglie. Come Lonoff trae la forza della propria scrittura dal non vivere, non è forse simulando la propria morte che la pseudo Anna Frank ha reso immortale il proprio diario? Questa enigmatica sopravissuta emigrata dall’Europa, diventa subito agli occhi del giovane Zuckerman la femme fatale delle sofferenze del popolo ebraico e la tentazione di innamorarsi di lei per poi sposarla è più forte dello “scrivere per la causa degli ebrei”, la missione di cui

nello stesso anno in cui negli Stati Uniti viene pubblicato il

Diario, vengono letti come due casi isolati e in ogni caso

ritenuti come delle eccezioni all’interno di un generale disinteresse nei confronti dell’evento. Tuttavia essi non definiscono solo la confusa percezione dell’Olocausto nel discorso pubblico degli anni Cinquanta, ma riflettono invece anche l’insorgenza di alcuni aspetti decisivi e in un certo senso persistenti nella differente costruzione della memoria da parte del cinema europeo e hollywoodiano.

Il documentario di Resnais si confronta con l’orrore concentrazionario e con i meccanismi e i motivi dello sterminio ma com’è noto elimina del tutto il contesto ebraico dell’evento, diluendo la voce delle vittime nell’orizzonte dei valori della resistenza e dell’antifascismo. Tuttavia dal punto di vista della sua costruzione formale rappresenta (come vedremo meglio nel prossimo capitolo) una tappa decisiva dell’idea di modernità cinematografica elaborata in particolare nell’ambito della tradizione critica francese. Il film di George Stevens, The Diary of Anne Frank pone decisamente sullo sfondo gli orrori della guerra e dello sterminio in favore di un messaggio consolatorio e universalizzante costruito nel pieno rispetto delle regole hollywoodiane ma suggerisce in ogni caso quella coesistenza di identificazione (e di identità) ebraica e americana che verrà sancita dalla serie Holocaust e in modo definitivo dal successo di Schindler’s List.

dovrebbe farsi carico il giovane Zuckerman. A partire da questo scacco idealistico – sposare Anna Frank e diventare lo scrittore “eletto” – letteratura e vita genitale di Nathan Zuckerman si fonderanno in un'unica estenuante commedia ebraica, che scandisce tutti i libri di Philip Roth, anche quelli in cui sceglierà di abbandonare il proprio alter-ego.

Ma un’ulteriore significativa eccezione al presunto silenzio degli anni Cinquanta, ci permette di definire ancora meglio la specificità dell’elaborazione dell’Olocausto nel contesto americano. Il 27 maggio 1953 Ralph Edwards il popolare conduttore della trasmissione This is Your Life prodotta dalla NBC – uno dei primi esempi di televisione dell’intimità che introduceva nelle case degli americani le vicende di gente sconosciuta – fa accomodare l’ospite della puntata, Hanna Kohner, e presenta al pubblico la sua storia con queste parole, «You look like a young American girl, just out of college - not at all like a survivor of Hitler's cruel purge of German Jews»128. Come in una qualsiasi puntata dello show, il cui apice è il ricongiungimento del protagonista con i suoi familiari dopo varie peripezie, Hanna Kohner ritrova con suo enorme stupore altri sopravvissuti che erano con lei ad Auschwitz, per poi infine scoppiare in lacrime alla vista di suo fratello, tornato da Israele dopo che gli eventi della guerra li avevano separati per oltre quindici anni. Ma l’aspetto decisamente scioccante per la nostra sensibilità contemporanea è il modo in cui Ralph Edwards, dopo aver introdotto una compagna di prigionia di Hanna, si rivolge agli spettatori e, mentre le telecamere inquadrano impietosamente i volti contratti delle due sopravvissute in primo piano, racconta: «deve essere stata dura…essere costretta a fare le cosiddette docce perché anche se da alcune di esse usciva dell’acqua, sappiamo che ve ne erano altre da cui usciva il gas e voi non sapevate mai quale delle due docce stesse per fare…e tu Hanna sei stata fortunata perché lì hai perso molti dei tuoi familiari….».

128 Brani dell’episodio televisivo sono inclusi nel documentario Imaginary

La vicenda di Hanna Kohner viene dunque presentata e costruita dai produttori di This is Your Life nel solco dei melodrammi domestici caratteristici delle storie raccontate nel programma e dunque anche Auschwitz può qui trovare il suo happy ending. Se le immagini atroci diffuse dai cinegiornali all’indomani della liberazione dei campi costituiscono il primo incontro traumatico del pubblico americano con l’enormità dell’Olocausto, la vicenda di Hanna Kohner raccontata dalla popolare trasmissione televisiva definisce, attraverso la decisiva mediazione di una forma melodrammatica, il primo incontro con la specifica vicenda biografica di un sopravvissuto – e dunque una delle prime

personalizzazioni della tragedia che prevede la possibilità di identificazione, per di più con una ragazza che appare agli

occhi del pubblico come una qualsiasi americana che ha

studiato al college.

Si tratta di un aspetto decisivo che nella nostra risposta alle rappresentazioni degli eventi traumatici, definisce ad esempio anche lo scarto tra l’anonimato in cui comunque restano le vittime di catastrofi avvenute nei paesi del Terzo mondo rispetto a coloro che ci sembrano più familiari e vicini ai nostro costumi; così allo stesso modo «solo una minoranza degli ebrei europei assassinati da Hitler poteva assomigliare alla middle-class americana, tuttavia è in questo modo che essi sono stati rappresentati per l’audience americana»129.

Da questo punto di vista è proprio la televisione ad aver svolto, sin dagli anni Cinquanta, un ruolo fondamentale nelle rappresentazioni dell’Olocausto definendo così una ulteriore

decisiva specificità americana rispetto al contesto europeo. Il celebre film di Stanley Kramer Judgment at Nurmeberg (1961) è ad esempio la versione cinematografica dell’omonimo sceneggiato televisivo scritto nel 1957 da Abby Mann, andato in onda nell’ambito della serie «Playhouse 90» il 16 aprile 1959 e prodotto da Harry Brodkin (colui che nel 1978 sarà tra i produttori dello sceneggiato della NBC Holocaust)130. Nel suo studio incentrato sulle rappresentazioni televisive dell’Olocausto nel contesto americano, Jeffrey Schandler131 ipotizza che sia stata proprio la TV ad aver permesso di avvicinare questo evento insondabile, addomesticandolo e portandolo dalla lontana Europa nelle case di ogni americano, e riuscendo così anche a trasformare l’anonimato di un crimine contro l’umanità in una tragedia personalizzata.

Attraverso la sua diffusione televisiva e la sua popolarizzazione nelle forme del melodramma domestico e familiare, l’Olocausto è contemporaneamente servito anche alla costruzione di un modello comportamentale, una sorta di paradigma morale che definisce i termini della responsabilità e del comportamento individuale nel corso di situazioni estreme. Anche nella storia della pedagogia americana i curricula di Holocaust Studies rappresentano la prima massiccia diffusione della cosiddetta affective

revolution nei metodi delle scienze della formazione di

tradizione anglosassone132. In uno dei primi corsi sull’Olocausto pensati per la scuola pubblica, il cui

130 A. Mintz, Popular Culture and the Shaping of Holocaust Memory in

America, cit. pp. 90-95.

131 Cfr. J. Schandler, While America Watches: Televising the Holocaust, cit. 132 Cfr. T. D. Fallace, The Origins of Holocaust Education in American Public

curriculum fu costruito nel 1973 da Roselle Chartock, l’evento è avvicinato attraverso una prospettiva psicologica che si avvale di varie forme visuali e letterarie per trasmettere sia la dimensione traumatica delle vittime che i dilemmi morali dei carnefici. Il programma elaborato da Chartok impiega dunque un approccio affettivo per investigare non tanto un evento storico o un problema culturale, quanto la natura stessa del comportamento umano sotto determinate condizioni. Nella stessa direzione si muovono i materiali didattici che nel 1978 verranno diffusi dalla Anti-Defamation League per accompagnare la visione di Holocaust (e che saranno poi alla base di numerosi curricula impiegati nelle scuole degli Stati Uniti). Dopo vari progetti pilota nel 1983 il Dipartimento dell’Educazione del New Jersey e la ADL pubblicheranno The

Holocaust and Genocide: A search for Conscience, un

programma per insegnanti preceduto da una introduzione del governatore Thomas Kean in cui egli afferma che l’Olocausto contiene lezioni per ogni cittadino americano sul

ruolo degli individui nello stato moderno133.

Le forme del melodramma domestico, il potere salvifico dell’atteggiamento morale e delle responsabilità individuali possono in questo senso esser considerati come i due

pattern cognitivi determinanti attraverso cui la cultura

americana inscrive al proprio interno l’Olocausto. Se alcuni studiosi di cinema, tra cui Thomas Elsaesser134, hanno mostrato gli effetti di una continuità tra il melodramma

133 R. Flaym, E. Reynolds, The Holocaust and Genocide: A search for

Conscience – A Curriculum Guide, Anti-Defamation League, New York, 1983.

134 MI riferisco qui a T. Elsaesser, Melodramma e temporalità in V. Zagarrio

(a cura di) Studi Americani. Modi di produzione ad Hollywood dalle origini all’era

hollywoodiano e le serie televisive (ipotesi che poggiano innanzitutto su una continuità del loro pubblico), sono proprio gli sviluppi della teoria anglosassone nel suo progressivo inquadramento del melodramma come forma

culturale dominante (sia a livello testuale sia intesa come

esperienza specifica del soggetto) a permettere di inserire in quest’orizzonte lo scambio simbolico che si genera tra il Museo di Washington e Schindler’s List, due testi vale a dire in grado di sintetizzare in un unico evento mediatico le istanze di comprensione e integrazione americana dell’Olocausto.