Nella prospettiva adottata da Peter Novick, i diversi significati che l’Olocausto ha assunto nella memoria collettiva americana corrispondono ad altrettante tappe di un progressivo e controverso percorso di avvicinamento e di ridefinizione dell’ oggetto. Lungi dal definire in questo modo un processo lineare, o una rigida strategia, si tenta di mostrare all’opera una costellazione di significati che di volta in volta si costruisce e si riscrive lungo il flusso dei discorsi che attraversano lo spazio pubblico della memoria dell’Olocausto.
114 In una prospettiva cognitivista le cosiddetta memoria collettiva esiste ad
un livello sopraindividuale della vita sociale. Gli schemi cognitivi con cui il passato acquisisce significato sono il frutto dell’interazione sociale degli individui tra loro e di questi con gli oggetti culturali e le forme istituzionali che si incaricano di definirne il campo enunciativo. Dipendendo dalla forza e dalla frequenza di tale interazione e dal livello di istituzionalizzazione dell’oggetto, l’interazione produce dei pattern cognitivi con cui alcuni gruppi sociali danno significato agli eventi storici. Anziché analizzare le manifestazioni della memoria collettiva negli oggetti istituzionali (musei, immagini, emblemi, racconti, ecc…) la teoria cognitivista si domanda come si producano gli schemi e come a loro volta questi siano mobilitati nella produzione di “oggetti” e di simboli della memoria. In questo modello circolare l’oggetto istituzionale non fissa dunque soltanto uno schema cognitivo di riferimento, poiché il suo contenuto (il contenuto costruito effettivamente) può servire alla produzione di altri schemi e dunque di altri significati con cui leggere il passato, ovvero di altre memorie collettive. Mi riferisco qui alle ipotesi sviluppate da Aaron Beim in The Cognitive Aspects of
Collective Memory, in «Symbolic Interation», Vol. 30, Issue 1, pp. 7-26, 2007.
Vedi anche Toward an Interactive Theory of Collective Memory: Culture,
Cognition and the Istituzionalization of Memory Schema, paper discusso al
meeting annuale della American Sociological Association (Atlanta, 16 aug. 2005); http://www.allacademic.com/meta/p/108154_index.html.
Si tratta in ogni caso di un processo che dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Settanta si sposta progressivamente dalla periferia al centro della vita americana, in un movimento a cui si affianca in parallelo lo schema di rimozione e anamnesi della memoria del trauma specifico dei sopravvissuti, e in generale dell’elaborazione propriamente ebraica della Shoah. Questa lettura allo specchio porta così a vedere l’irrompere della Guerra Fredda come uno spazio di rimozione collettiva, e il processo Eichman prima e la Guerra dei Sei Giorni poi, come i simboli di una ricollocazione dell’Olocausto al centro degli eventi della Seconda Guerra Mondiale (e di una rivendicazione dell’identità ebraica rafforzata nel solco della minaccia costante dell’antisemitismo e dell’ostilità verso Israele). Molto in ogni caso è stato scritto sul congelamento di una memoria dell’Olocausto a seguito della centralità assunta dalle vicende della Guerra Fredda, ed è abbastanza evidente come il concreto appoggio delle organizzazioni ebraiche all’anticomunismo rientrasse in una più ampia politica di assimilazione americana dell’identità ebraica. Se è possibile individuare in quest’epoca, e almeno fino all’inizio degli anni Sessanta, una sorta di strategia omogenea delle organizzazioni ebraiche americane, essa si pone l’obiettivo di rimuovere due equazioni che sono viste anche come i principali ostacoli ad una piena integrazione; vale a dire quella che nell’immaginario americano fa dell’ebreo una
vittima da un lato, e un comunista dall’altro.
La rimozione dello statuto di vittima è particolarmente interessante da questo punto di vista perché contrasta in modo decisivo con l’orizzonte attuale. Novick discute
innanzitutto la marginalità dell’evento e delle testimonianze nel discorso pubblico americano del primo dopoguerra. Mentre oggi la parola “Holocaust Survivor”115 connota chiaramente un sopravvissuto al programma di sterminio ebraico perpetrato dai nazisti – e definisce anche la assoluta centralità e pubblicità rivestite dal sopravvissuto e dal testimone nel discorso pubblico – la situazione nell’America degli anni Cinquanta è alquanto diversa (e come in Europa, è solo a partire dagli anni Sessanta che si assiste ad una progressiva connotazione specificamente ebraica delle vittime dei crimini nazisti). Non è solo la parola ebreo ad essere assente nei discorsi pubblici del dopoguerra – che genericamente descrivono i campi come luoghi in cui sono stati sterminati gli oppositori politici del regime nazista. È lo stesso termine impiegato all’epoca, ovvero displaced
person116 a non avere nulla di quell’aura onorifica che avvolge oggi la parola sopravvissuto:
115 Sull’ossessione collettiva e la sovraesposizione mediatica del
“sopravissuto” costruisce una divertente “gag” il comico Larry David. In una puntata della serie Curb Your Enthusiasm, intitolata appunto The Survivor, il rabbino lo avvisa che alla cena organizzata da David per la serata porterà con lui un sopravvissuto. A questo punto David decide di invitare anche suo padre (anziano sopravvissuto dei campi di concentramento) immaginando di alleviare il disagio dell’ospite a cui si accompagnerà il rabbino, salvo scoprire una volta seduti a tavola che il survivor in questione è un aitante giovane partecipante all’omonimo reality show. Da qui prende avvio una esilarante competizione tra l’anziano ex-deportato e il giovane “sopravvissuto” televisivo il quale non accetta che la sua esperienza di privazioni nell’isola deserta sia da meno della prigionia nei campi di concentramento.
116 L’evoluzione della politica avviata dalla «Displaced Persons Commission»
offre anche un chiaro esempio sul ruolo che la crescente attenzione per la guerra fredda svolge nella marginalizzazione dell’Olocausto. Elaborato con il supporto del Dipartimento di Stato americano, il DP Program sposta progressivamente la propria campagna di accoglienza dai sopravvissuti alle persecuzioni naziste verso i rifugiati e i perseguitati dal totalitarismo sovietico. Il comprensibile sentimento antitedesco manifestato dalla maggior parte degli ebrei americani, particolarmente accesso di fronte ad una progressiva riabilitazione della Germania da parte degli Stati Uniti, viene dunque contenuto dai leader delle associazioni ebraiche sposando l’equazione tra Olocausto e totalitarismo sovietico promossa dalla politica americana, da un lato. e indirizzandosi di conseguenza ad un concreto appoggio alla campagna del Senatore McCarthy, dall’altro.
Mentre oggi lo statuto di vittima gode di un ampio riconoscimento, negli anni Quaranta e Cinquanta esso evocava al piuttosto una sorta di vago pietismo compassionevole. Era insomma un’etichetta da cui sfuggire. Il cow-boy vigoroso e l’eroe di guerra erano i soli ideali (maschili) approvati. Davvero in pochi desideravano pensarsi come delle vittime ed essere percepiti come tali dagli altri. Gli ebrei americani – soprattutto i giovani della prima generazione di immigrati – accettavano questa norma con entusiasmo e, come d’altronde il resto degli americani, erano piuttosto asserviti ai modelli di Gary Cooper o John Wayne117
Sono anche questi elementi – aspetti di una assimilazione cercata dagli individui e promossa dalle associazioni ebraiche – a contribuire nel corso degli anni della Guerra Fredda ad un vistoso scarto tra l’elaborazione privata del trauma e l’ufficialità del discorso pubblico. Ed è anche nel solco di questo scarto che le parole “Nazismo” ed “Olocausto” vengono dunque disgiunte. Pur non contestando coloro che sposano le teorie del trauma – in cui il silenzio dei testimoni lungo gli anni Cinquanta funziona come necessario momento di elaborazione – Novick nota dunque che gli ebrei, desiderosi di integrarsi e di vivere in America, sapevano bene che davvero in pochi potevano essere interessati ad ascoltare i loro racconti.
Si è inoltre spesso insistito sul fatto che la prevalenza ebraica nell’industria hollywoodiana sarebbe all’origine della progressiva centralità assunta dall’Olocausto nella cultura americana. Senza contestare questa ovvia evidenza, Novick ricorda come all’epoca le vicende legate alla persecuzione ebraica dei nazisti fossero però soprattutto ritenute di scarsissimo interesse per il pubblico (non dimenticando che
la Germania si ripresentava ormai agli occhi di Hollywood come un segmento importante del mercato cinematografico d’oltreoceano). Significativo è in tal senso il cosiddetto
Hollywood Project, sorta di codice per i produttori
hollywoodiani diffuso allo scopo di promuovere nei film personaggi ebrei privi di ogni connotazione comunista, o viceversa di espellere ogni rimando e assonanza ebraica nei personaggi comunisti118.
Tuttavia già dalla fine degli anni Trenta, con la comparsa dei primi film che raccontavano le vicende della Germania nazista, Hollywood evitava di trattare la politica della razza con diretto riferimento agli ebrei. In The Mortal Storm (Bufera Mortale, F. Borzage, 1940) uno dei più importanti film di propaganda antinazista prodotto da una Major (fu infatti il film che convinse Goebbels a bandire ogni prodotto della MGM) vennero tagliate tutte le sequenze in cui si pronunciava la parola ebreo per essere poi sostituite da produttori con l’espressione non-ariano. Anche per questo
The Great Dictator (Il grande dittatore, C. Chaplin, 1940)
viene letto soprattutto nella critica americana come il primo film in cui irrompe sul grande schermo il termine jew. Come ricorda il regista Sidney Lumet, «vidi il film a New York e ancora ricordo quanto fu scioccante per me sentire Chaplin parlare di se stesso come di un “ebreo”. Era una parola che non avevo mai sentito pronunciare in un film americano»119. È in tal senso che il discorso relativo alla costruzione di un identità ebraica nel contesto del pubblico e più ampiamente
118 Cfr. Archivi del «National Jewish Community Relations Advisory Council»,
report n. 10, 23 May 1949, cit. in P. Novick, The Americanization of the
Holocaust, cit., pp. 91-92.
119 Intervista inclusa nel documentario Imaginary Witness. Hollywood and the
della società americana, tende ad essere simbolicamente collocato nel decisivo momento di elaborazione collettiva degli eventi relativi all’Olocausto manifestati nel corso del processo Eichman.